Due grandi ali si spiegano in un salotto e un Arcangelo Gabriele dall’accento argentino (deve parlare così per essere in linea con il Papa di turno) annuncia all’appena quarantenne Marta che sta per ricevere il dono della maternità. Peccato che lei, regista teatrale single e molto impegnata con il nuovo spettacolo, non gradisca molto l’inaspettato regalo. Questo l’incipit di Beata te, commedia surreale e graffiante che dal 25 dicembre è disponibile su Sky Cinema e in streaming su NOW. Diretta da Paola Randi, vede protagonisti Serena Rossi e Fabio Balsamo ed è tratta dalla pièce Farsi fuori di Luisa Merloni, spettacolo che fulminò sulla via di Damasco (più semplicemente di ritorno dal teatro) Lisa Nur Sultan, che di Beata te è motore creativo e sceneggiatrice (insieme a Carlotta Corradi). Lisa ha esordito nella scrittura cinematografica nel 2018 con Sulla mia pelle, per cui fu candidata al David di Donatello e con cui vinse il Premio Sergio Amidei. Un approdo tardivo per una professionista che in pochi anni ha recuperato, brillantemente, il tempo perduto, tra cinema (7 donne e un mistero) e televisione (Studio Battaglia, Circeo), e che dopo Beata te ha firmato quello che già dal trailer sembra essere un nuovo cult della serialità italiana, la versione nostrana del francese Chiami il mio agente! (Call My Agent – Italia, sempre su Sky dal 20 gennaio). Per tutte queste ragioni, mi sembrava davvero fosse il caso di fare una lunga chiacchierata con Lisa, partendo da una domanda fondamentale.
Lisa, ma nel 2022 che cosa spinge a parlare ancora dell’Immacolata Concezione?
Rispondo alla tua provocazione dicendoti che proprio nel 2022, viste le leggi italiane e considerando che la PMA, cioè la procreazione medica assistita, è possibile solo per delle coppie eterosessuali, se sei una donna single o una coppia omosessuale in fondo ti rimane solo l’Arcangelo Gabriele. Poi, per il resto, il nostro film non parla di Immacolata Concezione, ma di quello spartiacque che è nella vita di ogni donna che è il compiere quarant’anni e il farsi la domanda se poter essere o non essere madre, che è un po’ il dubbio amletico verso cui incocci per buona parte di un decennio, un po’ per la pressione della società, un po’ per le aspettative interiorizzate. Nel nostro caso l’Arcangelo Gabriele è chiaramente il pretesto narrativo per mettere Marta di fronte a un’urgenza rispetto a una chiamata che evidentemente non vuole cogliere. Si prenderà due settimane, pressata dallo stesso messaggero divino, per capire se vuole o non vuole diventare madre. Tutto questo sotto forma di commedia, molto irriverente, molto scorretta e anche molto pop grazie alla regia di Paola Randi, che l’ha resa veramente una favola pop. E no, non particolarmente spirituale, viste anche tutte le nostre provenienze ideologiche e politiche.
Hai parlato di Paola, che io trovo essere un talento fantastico. Come ti sei trovata con lei e quanto ci ha messo del suo?
Paola è una regista completamente rispettosa della scrittura, nel senso che, essendo stata chiamata, si sentiva lei al servizio della sceneggiatura, mentre normalmente su un film suo sarebbe il contrario. In questo ci siamo trovate, perché anch’io so mettermi al servizio di un regista, quindi da questo punto di vista è stata rispettosissima del copione, ma facendoci delle note prima di girare che hanno portato la scrittura a fare dei tagli e degli accorpamenti. Abbiamo veramente lavorato spalla a spalla, partendo da una sceneggiatura definita su cui lei poi si è potuta divertire, lavorando insieme anche sul set, confrontandoci spesso. Sono venute fuori delle idee di montaggio, delle aggiunte che ha avuto lei e su cui ci siamo rimpallate la scrittura. Insomma, è stato un lavoro veramente molto felice.
Parliamo del cast. Fabio Balsamo lo guardi e fa ridere, oltre a essere un attore magnifico. La scelta di Serena Rossi mi sembra poi emblematica perché, a parte il fatto che è un volto amatissimo dal pubblico italiano, è anche una di quelle attrici in cui tutte le donne si possono identificare, e credo sia molto importante per una storia di questo tipo.
Serena è un’attrice bravissima, e qui penso lo faccia vedere, ancora di più su un tono di commedia che non aveva ancora sperimentato. Ed è chiaramente amata sia dagli uomini che dalle donne. E questo per noi era fondamentale, perché in realtà il personaggio che porta in scena è una donna non così comune, non così conciliante, quindi era importantissimo che fosse una persona con cui si entrasse in empatia, a prescindere dai percorsi di vita. È stata bravissima, e l’alchimia che c’è con Fabio ha fatto il resto: sono una coppia a cui vuoi bene anche dentro tutte le loro litigate.
Lisa, tu sei arrivata al successo personale con una sceneggiatura, Sulla mia pelle, che definire difficile e complicata è dire poco e che tu hai risolto con un equilibrio raro nel cinema italiano, visto anche l’argomento che trattava. In realtà tu hai una cifra leggera fantastica. A parte il fatto che sembra che nel cinema italiano possano far ridere solo gli uomini – e questa è una cosa di cui non riesco a capacitarmi – è davvero così difficile riuscire a fare quel tipo di commedia sofisticata, un po’ all’americana, un po’ alla francese, un po’ all’inglese, che invece sappiamo che è quella che aiuta di più l’industria? Insomma, cosa ne pensi di tutta questa mia lunga e noiosissima digressione?
Guarda, io penso che se riuscissimo, e non è facilissimo, a ripristinare anche da noi un mercato florido di commedie alla Nora Ephron, alla Richard Curtis – e sto prendendo volutamente riferimenti anche più larghi, perché sarebbe facile dire alla Woody Allen, ma di Woody Allen ce n’è uno – credo che sarebbe molto utile. Anche visto il momento in cui i film sì, possono andare al cinema, ma possono anche passare in televisione e sulle piattaforme, ed è importante quindi cercare di proporre qualcosa che abbia un senso industriale, al di là poi chiaramente di un percorso di cinema d’autore, che tra l’altro è qualcosa che fa parte di me e che non intendo abbandonare. Però credo che provare a fare un intrattenimento intelligente serva per dare un po’ di linfa all’industria, cercando di dire cose non banali. In Call My Agent si cerca di far ridere, cercando anche però di fare satira di costume, e a me piace molto poterlo fare. Obiettivamente ho scoperto con Sulla mia pelle che sapevo anche non far ridere, perché a teatro ho sempre scritto commedie, amare, acide, ma commedie, e quindi diciamo che parto da lì. Poi è chiaro, essendo stato quello il mio debutto e essendo una storia di tutt’altro tenore, è stato semmai più difficile dopo ricordare alle persone che no, guarda, io in teoria farei ridere. Però sì, sull’umorismo femminile è chiaro che ce n’è di meno, però poi quando c’è raggiunge dei picchi anche abbastanza significativi. E non sto parlando di me: adesso mi veniva in mente, perché ho appena finito di vedere l’ultima puntata di Call My Agent al montaggio, Emanuela Fanelli, che per me è un assoluto genio. Quando le donne fanno ridere fanno ridere parecchio.
Emanuela Fanelli che, diciamolo, hai anche omaggiato ambientando Beata te a Roma invece che a Pescasseroli, ma questa è un’altra storia. Hai citato Richard Curtis, sei la seconda persona che me ne parla nel giro di poche settimane, prima di te Alessandro Aronaddio.
Che bello, il suo nuovo film mi è piaciuto un sacco (Era ora, presentato alla Festa del cinema di Roma, uscirà nei primi mesi del 2023, nda) e rientra appunto in quel cinema che speriamo di fare di più, perché riavvicina anche chi di solito pensa che ci sia una dicotomia estrema tra i film d’autore e i cinepanettoni. Sono questi prodotti di intrattenimento intelligenti che secondo me in questo momento ci servono. Oltre ai film d’autore, sempre più belli.
C’è un gruppo di valorosi che cerca di fare questi prodotti intelligenti, penso anche a Stasi & Fontana, ai loro film e alla loro serie, bellissima, The Bad Guy. Mi sembra che ci sia per fortuna un’unità d’intenti all’interno di un certo canale del cinema italiano contemporaneo, il desiderio di fare cose che si vadano a scostare da quelle fatte per trent’anni, e anche di aiutarsi, darsi una mano. Hai anche tu quest’impressione?
Sicuramente l’incontro con Paola è stato estremamente felice, al di là del fatto che poi siamo anche diventate amiche e ho proprio sentito una persona incredibilmente risolta, felice di fare quello che fa e di farlo insieme ad altre persone, nella fattispecie ad altre donne. E anch’io sono una donna amica delle donne, è infatti lo è anche la nostra produttrice Olivia Musini, lo è Carlotta Corradi che ha scritto il film con me… Quando un progetto prende un abbrivio così felice, poi fa venir voglia di farne altri. È stato un incontro super piacevole in cui metto anche Serena Rossi, perché lei ci si è buttata con un entusiasmo e una generosità veramente non comuni.
Senti, la domanda è d’uopo: c’è stato anche un desiderio autobiografico nel raccontare questa storia?
Sai che non lo so. Sono una donna che ha compiuto da poco quarant’anni e quindi è ovvio che anch’io mi sento un po’ in mezzo come Marta. Poi, per carità, Carlotta, quando abbiamo iniziato a scrivere, aveva una bambina piccola, e infatti eravamo il contraltare. Insomma, la donna senza figli, la donna con figli, per raccontare un po’ le due versioni. Ora lei di figli ne ha due, io non ne ho neanche adesso. Non penso che esista una donna che non si ponga un problema sulla maternità quando arriva a quarant’anni. Forse non mi è arrivato l’Arcangelo Gabriele, ma non ho neanche una risposta da dare obiettivamente
Già che ci siamo, parliamo anche di Call My Agent, ulteriore versione internazionale di una serie assolutamente geniale che in qualche modo è l’altra faccia di Boris. Ecco quanto l’hai potuta “borisizzare”, in qualche modo, per il mercato italiano?
Non so se l’abbia “borisizzata”, sono stata, come penso tutti, una grandissima fan di Boris e, avendo conosciuto anche Mattia Torre, nell’ultimo minuto di questa nuova stagione sono scoppiata a piangere come una fontana, come penso moltissimi di noi. È chiaro che anche in Call My Agent l’obiettivo sono le piattaforme, non è più la fiction Rai, quindi ci troviamo, per forza di cose, a stigmatizzare un po’ le stesse cose. Però il tono è molto diverso, soprattutto rispetto alla serie originale c’è un sarcasmo più italiano.
Lo spunto è identico alla serie originale ed è stato adattato al nostro ambiente cinematografico e televisivo, immagino.
L’innesco è simile a quello francese, ma dopo una primissima lettura prendono tutt’altre strade, soprattutto perché sono passati molti anni e il mondo è molto diverso, la sensibilità, il tipo di industria, i rapporti uomo-donna, è tutto cambiato. Quindi è chiaro che vale la pena raccontare le idiosincrasie attuali e la satira di costume è un dispositivo molto fertile, per cui penso che dopo un po’ ci si dimentichi anche del riferimento francese. Poi, avendo i nostri attori di puntata che fanno cose… c’è una parte di me che vorrebbe farti degli esempi, però non posso spoilerare, quindi non ti dico niente. Dopo aver visto tutte le puntate, sono veramente molto contenta.
In Italia c’è sempre un problema nel cinema: type casting, type directing, type writing. Dopo Sulla mia pelle avevi il timore che ti arrivassero soltanto proposte per fare film simili? Film che sono ovviamente necessari, ma è anche vero che non bisogna forzarli…
Non è stato un timore, è stata proprio una certezza, ne sono arrivate eccome. Da un lato ho avuto bisogno di cambiare aria e infatti, sembra strano, ma Beata te è stata proprio la prima idea che ho presentato dopo Sulla mia pelle, perché avevo bisogno di stare dentro un ambiente confortevole per uscire da quella scrittura. E poi è vero che sono una persona eclettica, ho tante curiosità, mi piace fare cose diverse, e quindi temevo di essere etichettata come esperta di true crime: non che non sia un mio interesse, anche da spettatrice lo è, però dosato su quelle che sono le mie necessità e la tutela emotiva. Sulla mia pelle è stato un disastro, emotivamente parlando, e non è che Circeo sia stato tanto più leggera, anche quella storia ha previsto la lettura del processo: leggere i verbali di quello che è successo a Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, e farlo durante il lockdown non è stato proprio facile. Quindi sì, sono storie che mi interessano, soprattutto perché penso possano spostare qualcosa, ma vanno anche dosate con parsimonia per tutelare la salute emotiva dello scrittore, cioè la mia.
Ci sono tante brave sceneggiatrici in Italia. Penso a te, a Ludovica Rampoldi, a moltissime altre. C’è una scuola, che è il Centro Sperimentale, c’è anche la gavetta, quella che si faceva una volta “a bottega”. Come vedi questa situazione al momento?
In questo momento molto fertile sia per le giovani sceneggiatrici che per i giovani sceneggiatori – e lo dico con molta felicità per loro e un po’ di rimpianto per quelli della mia generazione, perché adesso c’è un’apertura tale per cui possono lavorare ed esordire quasi tutti – c’è talmente bisogno di persone che sappiano scrivere che il mercato le assorbe un minuto dopo che escono da una scuola o che si proclamano sceneggiatori. Purtroppo quando ho iniziato io 15 anni fa invece era una situazione nera, per cui penso a tutti i talenti che nel frattempo hanno fatto altro e che ci siamo persi per strada, perché è chiaro che, se adesso si produce tantissimo, attorno al 2008, con la crisi mondiale, non si produceva niente e lavoravano le persone già affermate, le generazioni più avanzate, per un giovane era veramente una prova di sopravvivenza riuscire a esordire. Quindi mi spiace perché ci sono tante persone che, se fossero arrivate sul mercato adesso, starebbero lavorando tantissimo, invece magari nel frattempo hanno preso altre carriere, altre scelte. Diciamo che quelli di noi che ci sono arrivati è perché sono anche sopravvissuti.
Ma non pensi che questa bulimia del mercato sia anche non necessariamente un bene in alcuni casi?
No, assolutamente. In tutti i casi non è un bene. Intanto è una bolla che abbiamo, poi scoppierà per forza. E non è un bene perché ci fanno lavorare troppo e troppo velocemente, quindi chiaramente si abbassano anche gli standard qualitativi dei prodotti, ma su tutti i reparti: da chi deve scrivere velocemente a chi deve preparare velocemente, a chi deve fare i costumi; tutti i reparti stanno lavorando a ritmi a cui non eravamo abituati, che non permettono qualità sopraffina a meno di non arrivare a un esaurimento nervoso e penalizzare completamente la vita privata. Ciò detto, se togliamo questo aspetto, da un punto di vista di un giovane è ovvio che questo momento sia super fertile, perché ti permette non solo di lavorare ma anche di fare tanto, e questo è un lavoro che si impara facendolo. Insomma, più si scrive, più si migliora. Per le famose diecimila ore di Malcolm Gladwell normalmente servivano dieci anni, adesso si fa molto più in fretta. Quindi capisco che sui giovani stiamo, per fortuna, formando delle nuove generazioni di sceneggiatori. Dobbiamo ancora formare gli showrunner, da noi non si usa ma credo sia fondamentale avere queste figure, ed è qualcosa su cui in Italia non abbiamo né tanta cultura né tanta preparazione. Non è solo un’apertura del produttore che te lo lascia fare, poi sei tu che devi saperlo fare, quindi forse su quello potremmo formarci di più o chiedere di essere formati di più.
Senti, ultima cosa: sei impegnatissima da qui fino alla fine dei secoli, il che vuol dire che hai già scritto altre 74 sceneggiature. Adesso mi metto comodo e me le elenchi tutte, ok?
In realtà, ti posso dire, io sono una che non cerca di lavorare molto, cioè lavoro molto sui progetti ma cerco di farne il meno possibile, perché credo che appunto si debba anche provare a vivere e leggere cose altrui. Ciò detto, in questo momento sto scrivendo Studio Battaglia 2 e Call My Agent 2. E sto cercando di fare due film di cui vorrei tantissimo parlarti, perché secondo me sono due progetti potenzialmente bellissimi, però non posso. Soprattutto per uno che probabilmente, toccando ferro, forse riusciamo a farlo partire davvero, anche quello un’idea mia da un libro che avevo letto, però mi tagliano proprio le mani se lo annuncio… te lo dirò la prossima volta.