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‘Beau ha paura’, Ari Aster: «Io, Joaquin Phoenix e il film della vita»

Forte della benedizione di Martin Scorsese, il regista di 'Hereditary' e 'Midsommar' torna con un film bizzarro e disfunzionale, che voleva girare da tempo. Starring un premio Oscar consacrato sull'altare del ruolo, come sempre e anche di più
Joaquin Phoenix e Ari Aster sul set di 'Beau ha paura'

Foto: A24/I Wonder Pictures

«Per me questo film è notevole a diversi livelli. La seconda volta che l’ho visto ho notato l’abilità tecnica che c’è dietro. La prima volta non sapevo di cosa si trattasse, nessuno me ne aveva parlato. Mi ha colpito il suo linguaggio, così unico e originale. Il gusto per il rischio è così unico e potente, e non ci sono molti registi che oggi siano in grado di farlo a quel livello».

Parole di Martin Scorsese, uno che di cinema è sinonimo da oltre cinquant’anni. Parole che alcuni sposeranno e altri odieranno, che provocheranno sentenze nefande su quello che in realtà è un film imperfetto, bizzarro, un viaggio estenuante, distopico, meta, psicologico, disfunzionale, logorroico, anarchico, innovativo, onirico, eccessivo, bla bla bla… ma anche un tantino divertente e un poco terrificante allo stesso tempo. Detto questo, dopo la visione, non posso dar completamente torto a Scorsese, (specialmente quando dice che lo ha rivisto: se te lo spari per due-tre volte, puoi dedicare la tua attenzione a tantissimi spunti folli, strani e inquietanti) perché tema, linguaggio, tecnica e voli pindarici del suo protagonista possono richiamare alla mente lavori e tempi felliniani e kafkiani, se non quelli più moderni di Charlie Kaufman, a metà tra sogno e incubo. In Beau ha paura (nelle sale italiane dal 27 aprile) Joaquin Phoenix è Beau Wassermann, un uomo pieno di ansie in un mondo abbastanza violento dove la sua esistenza viene devastata prima (si può invertire l’ordine) dalla catastrofizzazione degli eventi e poi dal rapporto con la madre (interpretata, nelle diverse età della vita, da Zoe Lister-Jones e Patti LuPone).

Nell’intervista con Rolling Stone Italia, Mr. Ari Aster, regista che ha contribuito a cambiare la forma e la sostanza del genere horror con Hereditary – Le radici del male e Midsommar – Il villaggio dei dannati, ci presenta, in senso lato, uno dei temi a lui più cari: quello delle famiglie disfunzionali. Per quanto riguarda la bizzarria stravagante che impedisce a malapena a Beau ha paura di sfociare nell’horror vero e proprio, Aster parla anche dell’ampia costruzione del mondo che ha portato alla produzione, dell’amore per Joaquin, del personaggio e del perché questa idea gli sia rimasta impressa per così tanti anni. Adesso bando alle ciance… eccoci davanti ad Ari Aster, volto normale che nasconde invece la voglia di farci conoscere il male che risiede nella nostra mente e nel nostro inconscio.

Partiamo da una domanda che sembra molto semplice: che film è per te Beau ha paura?
A scanso di equivoci, diciamo subito che è un film personale ma non autobiografico. Non si tratta della mia vita, ma di dare un’immagine a quello che sento dentro, nelle viscere, alle mie elucubrazioni. È un’odissea, un road movie in cui Beau viene lanciato da un ambiente all’altro, e questo costringe il pubblico a trovare il modo di distinguere un mondo dall’altro. Tratta ovviamente della dinamica madre-figlio, di colpa e biasimo, e senza spoilerare nulla possiamo dire che Beau è un personaggio con una vita non vissuta. È stato un film in cui ho deciso che mi sarei affidato di più all’intuizione, confortato anche dal fatto che fare arte è un processo intuitivo più di ogni altra cosa.

Hai scritto Beau ha paura molto tempo fa con l’intenzione che fosse il tuo primo film. Cosa ti ha spinto a decidere che era il momento giusto rivisitare questa storia e farne il tuo terzo lungometraggio?
Be’, non è stato il primo che ho cercato di fare, anzi, tanti altri l’hanno preceduto nel cestino. Questo è solo uno di quelli. Dopo il successo dei miei primi due film, l’ho riproposto a quelli di A24 (la casa di produzione dietro a titoli come Everything Everything All at Once, ndr). Descrivendolo come una narrazione picaresca, quindi per sua natura episodica, in cui avrei lavorato con diversi attori per un certo periodo di tempo in una location precisa, per poi sostituirli tutti con altri interpreti e altre location e così via. Con il suo budget finale di 35 milioni di dollari, Beau ha paura è ad oggi il film più costoso nella storia di A24.

E com’è stato accolto il progetto?
C’erano delle remore, ma quando ho deciso di dargli un taglio horror-spaventoso-catastrofico ho ottenuto la green light dallo studio. Ma questo film è sempre stato speciale per me. Era un viaggio all’interno di un mondo che amavo, di un mondo che mi dava la possibilità di inserire idee e scenografie che non si sarebbero adattate a nessun altro contesto. Sono sempre stato entusiasta all’idea di realizzarlo, perché sapevo che sarebbe stato il film che mi avrebbe permesso la massima libertà di andare ovunque volessi e di esprimermi come meglio desideravo. È stata una gestazione faticosa, era nella mia mente da molto tempo, e sono davvero contento che non sia stato approvato prima degli altri due film, perché non avrei mai avuto le risorse necessarie, e non avrei mai potuto dirigere Joaquin. È andata come doveva andare.

Foto: A24/I Wonder Pictures

Domanda su Beau, il cortometraggio che ha preceduto questo film. In che modo si è evoluto il personaggio, da quello interpretato da Billy Mayo (tuo compagno universitario) a quello di Joaquin?
Il primo cortometraggio era solo uno sketch. Mi ero appena laureato all’AFI (American Film Institute, ndr), stavo per lasciare il mio appartamento. Mi è venuto in mente di usare l’appartamento come location: è difficile trovarne una quando non si hanno soldi. Così mi sono detto: “Scrivo qualcosa al volo, per esercitarmi”. E, ripeto, visto che non avevo avevo una lira ho chiamato il mio amico Billy Mayo, che era nel mio film di tesi all’AFI, ed era un attore davvero fantastico. Ora non c’è più, è morto troppo giovane. La cosa che mi è rimasta impressa da sempre è un punto della trama di quel corto. Un ragazzo che lascia la sua chiave nella porta e poi, quando ritorna a prenderla, la chiave non c’è più. Altra cosa che mi era rimasta impressa, era il nome dato al personaggio: Beau. Questo film non lo vedo come un remake di quel corto, e nemmeno necessariamente come un’espansione. So che può essere una risposta poco soddisfacente, visto che hanno lo stesso titolo e che il catalizzatore della storia è lo stesso, ma devo dire che questa storia e il suo personaggio sono cresciuti, trasformandosi sempre più in un enigma. E per mantenere questo mistero, sia Joaquin che io ci siamo posti la stessa domanda: come costruire quest’uomo e allo stesso tempo mantenere il mistero?

Che tipo è Beau?
Per certi versi è terribilmente resistente, infaticabile, non muore mai. È incredibile che parte della sua bonarietà, dolcezza e bontà sia stata messa alla prova fin dall’infanzia, e da allora sia stato spinto sull’orlo del baratro. Altro aspetto importante: bisognava identificare chi fosse. Quando era nato? Com’era cresciuto? Ho sempre cercato di scoprire (e mostrarvi) chi fosse.

Perché hai voluto Joaquin Phoenix?
Perché sono sempre stato colpito dalla sua vulnerabilità, ho sempre visto nel suo lavoro due componenti essenziali come attore: è vulnerabile e aperto. E Beau richiedeva davvero questo tipo di vulnerabilità. Joaquin ha qualcosa di infantile, di aperto al mondo, qualcosa di buono. C’è una bontà in Joaquin che vedrete nel film, ha tirato fuori un’interpretazione davvero profonda, ed è stata un’esperienza straordinaria lavorare con lui.

Cosa ti ha sorpreso nel lavorare con lui sul set?
Ottima domanda, visto che non si può sapere come si comporterà una persona finché non ci si trova con lei nel vivo del lavoro e si passano settimane insieme ad affrontare e superare un ostacolo dopo l’altro. Ho notato il suo senso dell’umorismo, mentre sono rimasto piuttosto sorpreso dalla sua “depravazione”. In un certo senso, l’esperienza è stata una conferma di molte cose, perché ero/sono davvero un suo grande fan, ed era da tempo che volevo lavorare con lui. L’ho ammirato in Da morire di Gus Van Sant, e soprattutto in Joaquin Phoenix – Io sono qui!, la farsa documentaristica diretta da Casey Affleck in cui ha dato una delle migliori performance che abbia mai visto. Era così divertente, e non solo per quello che faceva come attore, ma anche per quello che faceva con il suo nome: mi ha colpito la sua decisione di partecipare a quel progetto, come se fosse un gesto suicida; è una scelta che ho trovato davvero interessante. Così come ho amato il suo Freddie Quell in The Master di Paul Thomas Anderson.

Hai mai avuto dubbi sulla scelta?
No, mai, non scherziamo. Semmai, l’impressione che avevo di lui era che fosse una persona che aveva bisogno che tutto fosse spontaneo, che non riusciva ad elaborare nulla in anticipo, che essenzialmente non era tecnica ma tutto sentimento. Poi ho capito, ho visto, che tutto ciò che fa è molto intenzionale e che è in grado di farlo e rifarlo più e più volte se il regista ne ha bisogno. E questa è la cosa migliore che chiunque possa fare per te quando stai girando un film: tenerti impegnato e mantenere vivo il film stesso. Spesso noi registi l’abbiamo già visto e rivisto, e girato cento volte nella nostra mente. Uno come Joaquin non l’ho mai incontrato. Incredibile.

L’arco narrativo dei tuoi film è sempre incentrato sul trauma e sul rapporto che i protagonisti hanno con i genitori, c’è un filo conduttore sull’orrore che deriva dal vivere in famiglie inquietanti. Perché è così rilevante per te?
Perché le famiglie sono un’ottima fonte di dramma, no? Sono le persone a cui siamo più legati e, se parliamo della famiglia in cui si è nati, non si ha scelta, è così, non ci si può staccare. E credo che questa imposizione crei, inconsciamente, una situazione molto interessante. Quando invece ci riferiamo alle famiglie che abbiamo “scelto”, penso che di solito siano una risposta precisa alla famiglia in cui si è nati. Una questione difficile da inquadrare, specialmente per me che la ritengo all’origine di vita, formazione, crescita. Mi sembra sempre il punto di partenza e di arrivo più ovvio. Non lo so, magari meglio che abbandoni del tutto la questione… (ride)

Joaquin Phoenix in ‘Beau ha paura’. Foto: A24/I Wonder Pictures

Vista la non sequenzialità del film, com’è stato il tuo processo di scrittura per Beau ha paura? In che modo è stato diverso da altre sceneggiature? Come l’hai adattata per lavorare con Joaquin?
Il processo di scrittura per me è sempre un po’ lo stesso. Scrivi e procedi lungo una strada e, se in quel mentre trovi qualcosa che ti eccita o ti spaventa per qualsiasi motivo, ti devi fidare di quella intuizione e assecondarla. Ovvio che la scrittura ha bisogno di tempo perché a volte riesci a trovare la forma di qualcosa, e questo significa che molte scene che scrivi sono essenzialmente dei ponti che ti traghettano da una scena che ti piace a un’altra. Però ho imparato che la sfida è quella di capire, al momento delle riprese, che nessuna di queste scene è davvero obbligatoria, che non devi inserire per forza questo o quello. Su Beau ha paura mi sono dato il tempo di rileggere la sceneggiatura più e più volte e di capire che tipo di feeling avessi. A volte è molto difficile riconoscere che qualcosa che hai scritto non ti piace, perché è così familiare che ti sembra giusto. Lo dai per scontato. Tranne qualche domanda di Joaquin sul perché dovesse dire qualcosa, in quel momento, a quel personaggio, non credo che la scrittura sia cambiata durante le riprese del film.

Parliamo un po’ del design, delle imponenti scenografie teatrali nel film, dei costumi: raccontami come hai collaborato con Fiona Crombie (Il re, La favorita, Crudelia) per creare ambientazioni e atmosfera.
Fiona è meravigliosa: abbiamo iniziato a lavorare molto presto sulla codifica dei colori di ogni singolo mondo, assicurandoci che ci fosse una palette generale di tutti i colori, in modo che tutti i mondi fossero in qualche modo legati e connessi l’uno con l’altro, ma allo stesso tempo molto netti, soprattutto nelle loro differenze. Poiché si tratta di un mondo inventato, anche se specchio, leggermente peggiore, di quello in cui viviamo, ho avuto la licenza, il lusso di inventarmi tutto, dai graffiti alle scritte sui furgoni, e i nomi dei negozi, i cartelloni pubblicitari, i manifesti, i prodotti, tutto. Ci sono cose che la gente non vedrà mai, ma anche l’acqua che Beau deve prendere al negozio è una marca d’acqua che abbiamo inventato, si chiama Agua Majestica, frutto della nostra mente collettiva. Queste cose, per me e per tutte le persone che hanno lavorato sul set, hanno un significato fondamentale, perché rendono questo “nostro” mondo molto reale. Così come con la bravissima e ineguagliabile Fiona, ho chiesto a tutti – come badge di appartenenza al film – di creare dettagli e trovare idee, saturare i nostri mondi con questi dettagli. Dettagli comici che spero noterete nel film.

***

E con questo concludiamo. Aster ha fatto un film profondamente strano, che assomiglia a un’esplorazione personale del rapporto con sua madre, rimanendo abbastanza aperto da permettere al pubblico di trovarne significato e risonanza emotiva personali. Ci sono anche momenti divertenti, sia intenzionalmente che espressi in un modo che faccia ridere il pubblico anche solo per la pura confusione e la ridicolaggine del viaggio di Beau. Piaccia o non piaccia, critici o clickbaiter, Beau ha paura è chiaramente l’opera di un regista che, dopo due enormi successi, ha avuto la libertà di fare quello che voleva e che ha colto l’opportunità di andar fuori di testa con questa sua libertà, ma anche di fare qualcosa di completamente originale. Qualcosa che avrebbe potuto realizzare solo Ari Aster. Peace out, to all the Beaus out there.

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