A un certo punto della nostra chiacchierata, Saul Nanni mi racconta che qualche giorno prima, durante un’intervista con una testata francese, la giornalista gli ha chiesto l’effetto che fa essere paragonato ad Alain Delon da giovane, e lui ha risposto con «l’unica cosa che so dire perfettamente in francese: “N’est-ce-pas”?». E poi, con me, ha aggiunto: «Ma magari, sarebbe un sogno».
Ho pensato subito a quello che dice di lui Alessandro Borghi (ci torniamo): «Saul è prima di tutto una persona che sa stare al mondo, e non ce ne sono tantissime». Ed è chiaro anche da un altro dettaglio: il suo entusiasmo («chiamala incoscienza, o follia», sorride lui) all’idea di questa cover story ispirata proprio ad Alain Delon, dal mood pugile di Rocco e i suoi fratelli – che abbiamo inevitabilmente scelto come copertina, così come già “scritto” era in qualche modo anche il titolo – allo smoking con gli occhiali da sole, fino al cappottone cammello e al leggendario Borsalino. Molti suoi colleghi avrebbero arricciato il naso, invece lui ha avuto l’intelligenza di capire che non si tratta certo di un confronto, ma semplicemente di un pretesto, di un (gran bel) modo per raccontarlo. Che arriva per direttissima anche dal fil rouge deloniano dei suoi ultimi lavori: prima Rocco Siffredi da ragazzo (e quindi, ovviamente, Borsalino) in Supersex e ora addirittura il ruolo che fu di Delon per Visconti: Tancredi Falconeri nel reboot seriale del Gattopardo (dal 5 marzo su Netflix). Senza dimenticare la faccia d’angelo: «Come la vivo? Partendo dal presupposto che Alain Delon è inarrivabile, è un’icona totale, e quindi quando vedo queste foto dico: “Aiuto”», sorride Saul. «Poi però alla fine penso anche che Il Gattopardo è un film di sessant’anni fa, vuol dire che ci sono almeno due generazioni in mezzo che magari non conoscono né il romanzo di Tomasi di Lampedusa né il film di Visconti e può essere un’occasione per (ri)scoprirli entrambi». “I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: ‘Sto rileggendo… e mai ‘Sto leggendo…’”, sosteneva Calvino (e lo stesso, mutatis mutandis, vale per i film). E infatti anche Saul l’ha letto a scuola, «ma l’ho davvero approfondito con questo progetto, non è un romanzo di avvenimenti, ma uno spaccato familiare nobiliare nell’Italia del 1860, quindi ci vuole anche un pochino più di maturità per capire quanto è bello».

Foto: Alessandro Treves; Art Direction: Alex Calcatelli per LeftLoft; Fashion editor: Francesca Piovano; Canotta e shorts: DIOR; Stivaletti e guantoni vintage
Il nuovo Gattopardo poi differisce anche nel format, quello seriale, che «ci dava più spazio per approfondire aspetti o linee narrative che Tomasi di Lampedusa aveva toccato o sfumato e che magari non si erano visti nel film». E fin dall’inizio a Saul è stato chiaro che Netflix e Indiana avevano intenzione di curare ogni minuzia: «Ricordo la prima prova costume da Tirelli con più di 25 sarte che realizzavano tutto a mano sulle mie misure. Era la prima volta che mi trovavo a fare un period piece, io non ho mai conosciuto tecnicismi nella recitazione, perché nel bene e nel male non ho mai studiato, ho conosciuto questo mondo sul set e quindi è stato tutto un po’ un continuare a scoprirsi. Però per me fare l’attore resta un gioco incredibile, e farlo in costume nella piazza di Ortigia, che è magnifica, mi rendeva il gioco ancora più facile».
A Saul, 26 anni compiuti da pochissimo, piace descrivere Tancredi come «un ragazzo molto giovane che azzanna la vita». Ed è qualcosa che ha in comune con il suo personaggio: «Io mi sento di scoppiare di vita, e credo che il nostro regista Tom Shankland l’abbia percepito subito. Spero però di non essere così poco altruista, Tancredi sa prendere le decisioni in fretta pensando molto anche a se stesso, è un ragazzo che deve trovare il proprio posto nel mondo. Un’idea che parla ai giovani come non mai». Ecco, forse il punto della serie è davvero questo: che la Gen Z oggi guardi a quella storia che ha più di sessant’anni e in qualche modo ci si possa ritrovare: «Concetta, Angelica, Tancredi… ognuno a modo suo sta cercando il proprio posto nel mondo. Poi lo trova, non lo trova, lo trova con rammarico, ma la ricerca è quella». E torniamo a Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
La prima volta che Saul ha visto Il Gattopardo (e se ve lo stavate chiedendo: no, non l’ha rivisto dopo aver ottenuto il ruolo) è stato nella sala cinema allestita dal padre a casa, a San Lazzaro di Savena, provincia di Bologna. «Avrò avuto 14 o 15 anni. Con papà condivido questa grandissima passione, ci chiudevamo nella nostra taverna con il Dolby Surround a guardare questi filmoni in lingua originale: a 10-11 anni mi vedevo Scorsese, Kubrick, Eastwood. Mia madre lo sgridava, ma mio padre non pretendeva certo che li capissi, voleva che iniziassi ad approcciarmi al cinema, a respirarlo». Casinò di Scorsese gli rimane particolarmente impresso, «lo metto nella mia top five, tutte le scene di Joe Pesci con Robert De Niro e la sequenza della penna… ricordo che un po’ mi ha spaventato, ma me lo sarei anche riguardato subito». Quella del “cinemino” «è stata una delle abitudini più belle che ho avuto nella vita, perché da piccolo ero un bimbo abbastanza introverso, la recita a scuola mi stressava tantissimo, non mi era mai venuto in mente di fare l’attore, nonostante questo amore per il cinema».
Insomma, come spesso accade, in parte è merito di una fortunata serie di eventi: «A 12-13 anni leggo su Facebook che stanno cercando dei bambini per fare la pubblicità dei Ringo con Kakà, io tifo Milan da sempre, quindi faccio una testa così a mia madre e lei mi porta a fare il provino: entro, palleggio alla grande ed esco sicuro di aver ottenuto la parte. Ovviamente non mi hanno chiamato e non ho conosciuto Kakà». Passano due mesi, la sua foto torna nelle mani di una direttrice di casting, pare sia perfetto per un piccolo ruolo nella Certosa di Parma: «Per quanto fossi timido, sono sempre stato anche molto curioso, e sia io che i miei lo prendemmo come un gioco, un’esperienza. Interpretavo un bimbo che portava una lettera e ricordo ancora la battuta: “Lei è il conte Mosca?”. Quella prima impressione di un set per me fu grandiosa».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Total look: DIOR
Piccola ma necessaria digressione sulla famiglia Nanni: i genitori di Saul sono entrambi medici, «ma è un mestiere che non fa proprio per me, sono mezzo ipocondriaco, la medicina mi fa paura». E, per finire le presentazioni, Saul è il nome di San Paolo, ma anche quello del primo re degli Ebrei. «Abbiamo quasi tutti nomi biblici: mio papà, che è una persona molto colta, si chiama Samuele e mio fratello Gioele, poi è arrivata mia sorella. Pensavamo a Esther, ma mia madre si è stufata e alla fine l’abbiamo chiamata Aurora». Il nome di mamma? «Masha. Sì, il sangue russo spiega i miei capelli biondi e gli occhi chiari».
Qualche tempo dopo, Saul e la famiglia vanno a Roma per il weekend: «Ci avevano dato il contatto di un ottimo agente che seguiva i bambini e io ho pensato: “Perché non lo incontriamo visto che siamo qui?”». Ed è ancora adesso il suo agente, lo stesso di Alessandro Borghi: «Mi disse che ero perfetto per un provino nella stanza accanto, imparai le battute al volo e andai dentro titubante. Poi proseguiamo le nostre vacanze romane, torniamo a Bologna, e dopo tre giorni mi chiamano perché mi avevano preso per il film». Stiamo parlando di Un boss in salotto, con Paola Cortellesi e Luca Argentero: «Sai quelle cose che ti capitano quando ancora non hai fatto in tempo a decidere?». Un paio di giorni per fare le valigie, e via: «Da minorenne avevo bisogno di qualcuno che stesse con me sul set, quindi mia mamma si è presa del tempo per seguirmi. Ero gasatissimo: pensa a un ragazzino di 13 anni che si sente dire: “Non vai a scuola per due mesi e giri un film”».
Arriviamo al capitolo “Forse non tutti sanno che…”. Saul da adolescente è stato una star Disney (sì, come Britney Spears, Ryan Gosling, Selena Gomez – lui ride quando snocciolo questi nomi): era tra i protagonisti della serie Alex & Co. «Ti prospettano un ingaggio dove balli, canti e stai a Milano, non mi pareva vero. Ho fatto un’altra volta una testa così a mia mamma che non era molto d’accordo, anche perché era la prima volta che andavo via di casa per molto tempo e si metteva in discussione pure dove sarei andato a scuola. È diventata una cosa più grande di me e della mia famiglia». Alla fine di quell’esperienza durata due anni però Saul mette in discussione tutto: «Mi ha dato tantissimo e allo stesso tempo mi ha spaventato per i ritmi assurdi, ne sono uscito abbastanza confuso, non ero per nulla sicuro che sarebbe stato il mio lavoro, anzi».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Canotta e shorts: DIOR; Stivaletti e guantoni vintage
E alla fine arriva Pupi: «Mia nonna mi manda la foto di un articolo di giornale: “Si cerca un ragazzo tra i 15-18 anni con una bellezza californiana, possibilmente bolognese”. Il mio agente prova a chiamare ma niente, allora decido di presentarmi sotto casa di Avati, suono il campanello e attacco proprio con: “Sono un ragazzo di Bologna, ho letto che state cercando qualcuno per fare il film”. E lui mi risponde: “Vieni, vieni su, che cosa strana” (imita Pupi, nda)». Il fulgore di Dony è un punto di svolta per il 17enne Saul: «Per la prima volta mi trovo a fare qualcosa di lontano da me, interpretavo un ragazzo paraplegico su una sedia a rotelle. Pupi poi ha una sensibilità bellissima, tipo un vero nonno. Non dimenticherò mai come mi guardava, era così buono, così attento. Ho capito che la recitazione poteva essere tanto altro, poteva darmi la possibilità di fare cose che non conoscevo».
«Credo di essere stato una persona molto importante nella vita di Saul», afferma Avati. «E ritengo che Il fulgore di Dony sia una delle cose migliori che ho fatto. Lui aveva questa bellezza, una bellezza veramente sfolgorante che mi ha aiutato a spiegare gran parte della storia, dove c’era una ragazzetta bruttarella mentre lui era così bello, così affascinante e così modesto. Non lo vedo da anni, ma non credo sia cambiato. Saul è un ragazzo umanamente stupendo e mi piacerebbe incontrarlo di nuovo prima o poi in un mio film, anche per vedere che attore è diventato». E pensare che la prima audizione non andò affatto bene, come ricorda Nanni: «Pupi diceva (lo imita di nuovo, nda): “Non funziona molto così, non funziona”. E io gli chiedevo: “Maestro, ma cosa posso fare?”. “Non lo saprei neanche io adesso, ci devo pensare”. Poi lo rincontrai e un po’ alla volta capì che c’era qualcosa su cui lavorare. Però sì, il mio primo incontro con un Maestro è stato con un provino che “non funzionava”», ride Saul.

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Total look: AMI PARIS
In mezzo poi c’è stata tanta gavetta in tv: «Sono sincero, io ho lavorato tanto. E il set è stato la mia scuola, ti insegna che questo mestiere spesso è anche gestione del momento. Tu puoi essere il più bravo del mondo in cameretta tua, ma nella realtà poi tutto si riduce al fatto che c’è un’ora per girare quella scena con 60 persone che ti guardano e alcune che magari urlano pure».
Quello che dice di Saul Kim Rossi Stuart – «è un attore generoso, che si butterebbe nel fuoco per un personaggio che ama» – lo capisco appena arrivo nella palestra di boxe in cui abbiamo organizzato lo shooting e trovo Saul, novello Rocco Parondi, in canottiera, pantaloncini e guantoni vintage nel pieno del febbraio milanese, fradicio per l’acqua che si è versato stoicamente addosso a mimare l’effetto sudato post match. Kim l’ha diretto nel suo terzo (bel) lungometraggio da regista, Brado, storia di un rapporto padre-figlio da riparare e di cavalli da domare. Tu chiamala, se vuoi, predestinazione: «Mi chiese della mia vita, di mio padre, e, senza sapere nulla del film, gli raccontai che un’altra grande passione che condivido con papà sono i cavalli, sono cresciuto in mezzo a quelli del mio prozio, tenuti un po’ allo stato brado. E lui si è illuminato». Cinque mesi in sella almeno cinque ore al giorno, una preparazione che in Italia è impensabile. «Sul set ho cominciato a fare tutto da solo, c’erano gli stunt, ma Kim si rendeva conto che potevo farlo io e io che ci riuscivo, mi sarei buttato giù dal balcone per lui in quel momento. A tre giorni dalla fine, nella scena in cui dovevo cadere, mi ribalto davvero e mi rompo la clavicola: l’hanno ripresa e montata, è quella che vedi nel film…». Conferma Rossi Stuart: «Di lui mi ha colpito il cuore e la sensibilità, con tutto quello che è successo era molto contento perché quella sequenza era venuta bene».
Tornando al Gattopardo e al destino, è proprio Kim Rossi Stuart a interpretare Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, nonché zio di Tancredi; di più, praticamente un padre per il giovane Falconeri. «Recitare con Saul per me è un po’ come lavorare con un figlio», ribadisce l’attore e regista. «All’ultimo provino per giocarmi la parte, Netflix mi chiama per avvisarmi che devo fare un chemistry test», ricorda Nanni. «Chiedo se si può sapere con chi, ma vogliono tenere tutto segreto finché non arrivo lì. Mi dicono che nella stanza accanto c’è l’attore che farà il Gattopardo, apro la porta e mi trovo davanti Kim Rossi Stuart, che per me è e rimarrà sempre il mio Maestro, Brado è ancora adesso il film della mia vita, quello della consapevolezza. Non me lo aspettavo e, non sapendo ancora nemmeno se avrei avuto il ruolo di Tancredi, mi sono trovato un po’ a disagio». Poi la sera stessa Saul ha telefonato a Kim: «L’ho rimproverato: “Ma perché non mi hai chiamato, bastava un messaggino, cioè, con il rapporto che abbiamo…”.”No, Saul, era meglio così” (lo imita, nda). Hai presente Kim, l’uomo dei grandi silenzi? Ma forse aveva ragione, perché alla fine poi sono andato d’istinto senza pensarci troppo. E ha funzionato».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Total look: AMI PARIS
Sempre a proposito della serie: Tancredi sta ad Angelica come Saul sta a Deva Cassel, ormai questo lo diamo per assodato. È un territorio nuovo anche per noi di Rolling che non ci occupiamo di gossip, ma in questo caso siamo molto oltre, è proprio un pezzo di vita per entrambi, da una parte perché Saul e Deva parlano molto serenamente della loro relazione – «non è certo un segreto, anzi, è una cosa così bella!» – e dall’altra perché il loro rapporto è estremamente legato a questo momentum delle loro carriere, visto che si sono conosciuti proprio sul set. «È andata come credo si percepisca da fuori adesso, nel senso che ci siamo conosciuti in modo molto naturale». Galeotto fu anche il nascondino che vedrete in una delle puntate: «Quando siamo arrivati a girare, la nostra relazione non era ancora scoppiata, però c’era un interesse, avevamo già cominciato a conoscerci da un pochino, perché è importante a prescindere per tutti gli attori, quando devi condividere tante scene con una persona che nella storia è vicina a te, con quel livello di intimità. Ci siamo innamorati vestiti da principe e principessa in bellissimi palazzi siciliani, quindi era tutto molto più fiabesco del solito, è un contesto magico in cui incontrarsi. Però poi il set è stato lungo, abbiamo avuto modo di vivere tutto con tranquillità, con normalità, come tutti i ragazzi. Ovvio, lavoravamo insieme in situazioni pazzesche, ma è stato tutto molto vero, molto con piedi per terra». Adesso vivono tra Roma e Parigi, «ma siamo sempre in viaggio, questa è una passione che condividiamo, appena possiamo partiamo, siamo appena tornati dal Brasile. Deva è poliglotta, parla fluentemente cinque lingue, una fortuna incredibile, i suoi genitori sono stati fenomenali nell’insegnargliele tutte fin da piccola e lei è stata bravissima a coltivarle tutte».
Ecco, parliamo dell’elefante (anzi, degli elefanti) nella stanza, ovvero Monica Bellucci, Vincent Cassel e – adesso – pure Tim Burton: «Sì, sì, ho avuto avuto modo di conoscere pure lui. Come tutti quelli che lavorano in questo ambiente, anche se sono famosi, alla fine sono persone, no? Monica è la mamma di Deva e Vincent è il suo papà. Sono persone carine, simpatiche, vere, e per me alla fine sono semplicemente i suoi genitori. Ma mi sono reso davvero conto di quanto il tutto fosse fuori dalla norma quando l’ho detto ai miei di genitori e ho visto la faccia di mia mamma, che è completamente innamorata di lei, ma pure mio padre. Deva è venuta diverse volte a Bologna, ci sta molto bene, ci siamo visti qualche bel film anche nel nostro “cinemino”».

Saul Nanni (Tancredi) e Deva Cassel (Angelica) nel ‘Gattopardo’. Foto: Lucia Iuorio/Netflix
Torniamo al Gattopardo: prima scena e sbam, lato B di Tancredi (ridiamo), ma nulla di nuovo per Saul, visto che c’era già stato Supersex: «Un altro progetto che è arrivato nel modo più inaspettato del mondo. Mi chiama Ale Borghi, con cui ho un rapporto splendido e che apprezzò anche molto Brado: voleva che facessi qualche incontro per interpretare Siffredi da giovane. “Non so cosa potrei avere di Rocco così al primo impatto”, gli risposi. E lui: “I ricci e le lenti scure sono l’ultimo dei problemi, tu devi capire il personaggio, poi al resto ci penseremo”. Ed è andata così, nel senso che è stato il ruolo dove fisicamente mi sono visto più diverso: la permanente ai capelli, gli occhi marroni, i denti col buchetto in mezzo. E mi ha aiutato molto la chiacchierata con Rocco, che con me è stato incredibilmente aperto». Reazioni in famiglia: «Mia mamma ormai era entrata nell’ottica, avevo già fatto il tossico eroinomane che moriva negli anni ’70, ma per mia nonna Rocco è stato un bel colpo: però i punti poi li ho ripresi tutti con Tancredi». Ma la nonna alla fine ha visto Supersex? «Lei sostiene di no, ma secondo noi l’ha guardata di nascosto, mia sorella dice di averla quasi beccata una volta».
Chiedi a Saul il nome di un attore a cui si ispira e ti risponderà immediatamente Borghi: «Oltre a essere una persona bellissima che mi è sempre stata vicino, ho una stima incredibile per Alessandro come interprete perché non sbaglia mai la scelta di quello che fa. Più si va avanti e più nel nostro lavoro la differenza la fa questo. E in tutte le sue decisioni non ci trovo mai una sbavatura».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Total look: DIOR
La stima è più che reciproca, tanto che Alessandro dipinge un ritratto di Saul affettuosissimo ma, per quello che ho avuto modo di capire, anche centratissimo: «Mi ricorda degli aspetti di me stesso, e questo mi ha fatto sviluppare una tenerezza da fratello maggiore nei suoi confronti», dice Borghi. «E poi in questo mestiere Saul è mosso da tutta una serie di cose che non hanno a che fare con quello che importa di solito ai giovani attori contemporanei. Non gli interessano i follower, la fama. È mosso dalla gioia di interpretare dei personaggi, che è quello che ha guidato anche me, da sempre. Questa purezza che Saul ha negli occhi un tempo sembrava estremamente scontata, invece adesso è quasi unica. Riconosco in lui prima di tutto un grande talento, associato a una bellezza straordinaria. E queste due caratteristiche insieme non si trovano tanto facilmente. Ha davanti un futuro felice, non rispetto a quello che guadagnerà o che raggiungerà, ma rispetto al modo in cui so che sarà in grado di viverselo».
Ultimo tassello di questi anni intensissimi per Saul: due giorni dopo la fine delle riprese del Gattopardo, era a Palermo con i capelli rasati a zero pronto per un’altra avventura, Fino alla fine di Gabriele Muccino. «È unico nel suo genere, sa alla perfezione cosa vuole. Abbiamo girato quasi tutto in piano sequenza, che è la cosa più vicina al teatro che ci sia e come attore ti aiuta tantissimo, ma allo stesso tempo può anche essere frustrante da morire, al minimo errore si ricomincia da capo. È stato un film molto concitato, molto di Gabriele, un’altra grande esperienza». A questo punto chiedo a Saul se sente che questo è il suo momento: «Sì, per me è il mio momento, poi che lo sia per gli altri non lo so. Dal punto di vista lavorativo e personale si è allineato tutto, sto facendo la vita dei miei sogni, quella che immaginavo quando ero piccolo. Sto trovando il mio posto nel mondo e, più passa il tempo, più mi rendo conto che è tra il set – che adoro, ma non ho la smania di doverci stare perennemente – e il viaggio».
Finiamo a parlare del discorso che ha fatto Timothée Chalamet ai SAG –“Voglio essere fra i grandi” – e dico a Saul che in qualche modo mi sono venute in mente un po’ la sua tigna e la sua sincerità. «È una cosa bellissima, io credo che questo sia un mondo dove l’essere sicuri di sé, il volersi andare a prendere tutto, faccia davvero la differenza. Ci vuole un po’ di quella cazzimma in questo ambiente. Perché certe cose molti di questi personaggi se le sono prese da soli». Tipo andare sotto casa di Pupi Avati. «Bisogna avere un po’ la faccia di bronzo, senza pensarci troppo. E alle lunghe ripaga. Sentire Chalamet, che è già un attore incredibile, dire “Voglio essere tra i grandi” lo trovo… inspiring».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Canotta e shorts: DIOR; Stivaletti e guantoni vintage
A breve vedremo Saul ne La gioia di Nicolangelo Gelormini al fianco di Valeria Golino: «Per me è stato l’incontro dell’anno, senza dubbio. È una delle più grandi attrici che abbiamo in Italia, Respiro di Crialese mi aveva fatto impazzire. Quindi fare un lungometraggio tutto lei ed io… andavo sul set ogni giorno e pensavo: “Vabbè, non ti preoccupare, tanto succede tutto quello che deve succedere, c’è Valeria”. Poi ho fatto un film in Spagna, sulla MotoGP, dove interpreto un pilota italiano, e ne ho girato un altro con un grande regista italiano, ma non posso dire altro, perché ci tiene ad annunciarlo lui».
Nel nostro Paese Saul vorrebbe lavorare con Bellocchio, Crialese, Sorrentino, Martone, ma tornando alla schiettezza che lo contraddistingue e visti gli ormai famigerati 190 Paesi and counting in cui sono arrivati prima Supersex e ora Il Gattopardo, Saul non nega certo che «il sogno è l’internazionalità, è l’Oltroceano, è l’America, è l’Inghilterra, anche perché io con l’inglese mi trovo molto bene, lo parlo bene. Ho vissuto un anno a Los Angeles quando ho fatto le superiori e da piccolo sono cresciuto un po’ seguendo mio papà, che lavorava in giro per l’Europa, e andavo nelle scuole internazionali, da Amsterdam a Bruxelles, e poi i film in lingua originale… ovviamente ho ancora un accento italiano, ma è una cosa su cui si può lavorare». E il francese? «Un anno fa pensavo di impararlo in due secondi con Deva, ma lei parla perfettamente italiano e abbiamo come altra lingua di comfort l’inglese. Cioè, se le chiedi qual è la lingua che vorrebbe parlare, probabilmente direbbe l’inglese. E quindi lo usiamo tanto, alla fine è successo che con lei ho migliorato il mio inglese! Ma sto comunque prendendo lezioni di francese, mi piace molto. E poi in generale il cinema francese… Un prophète (lo pronuncia alla perfezione, nda) di Jacques Audiard è uno dei miei film preferiti».
Se parliamo di idoli nei desiderata c’è «storicamente Scorsese, ma anche Paul Thomas Anderson, e mi verrebbe da dire un ultimo film di Clint Eastwood: che sogno se lo facesse». Intanto, quando Saul torna a Bologna, si riapre sempre il “cinemino”: «Quello resta davvero un posto del cuore, mio padre si offende quando guardo grandi film che sono già usciti in sala senza di lui e brontola: “Potevi aspettarmi”. Ma adesso è passato dietro le quinte: quando mi arrivano le sceneggiature, la prima persona a cui le mando è proprio papà».

Foto: Alessandro Treves; Fashion editor: Francesca Piovano; Total look: Boglioli; Scarpe: AMI PARIS; Occhiali: Ray-Ban
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Credits
Photographer: Alessandro Treves
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Makeup & Hair Styling: Mariah Piccione per Making Beauty
RS Graphic Designer: Stefania Magli
Photo Editing: Jacopo Gentilini
1st Photographer Assistant: Fabrizio Martelli
2nd Photographer Assistant: Stefano Mattiocco
Fashion Editor Assistant: Lavinia Bozzini