Questo articolo viene pubblicato sulle pagine di Rolling Stone nel 1979, qualche mese prima dell’inizio delle riprese del film di John Landis The Blues Brothers a luglio. Timothy White, storica firma musicale di RS, segue i fratelli Blues durante concerti nei locali newyorkesi e party selvaggi e strappa loro qualche scoop sul plot della pellicola (poi divenuta un autentico cult). Con una domanda sullo sfondo: ma che ci fanno gli attori Dan Aykroyd e John Belushi sempre nei paraggi?
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Ecco la dura verità: ogni povero stronzo bloccato in questa vita di merda deve avere qualcosa con cui passare il tempo, una soul band che sappia fare musica, un posto all’altezza dove bere con i propri ritmi e dove fare le cose in completo relax.
Si tratta di una visione dolce, ma non è il quadro generale. Sfortunatamente il quadro generale è che ci sono una quantità di teste di cazzo, di cadaveri meschini e coglioni ripuliti là fuori, per cui una benedizione del genere sarebbe sprecata. Ci sono persone che non sanno riconoscere il divertimento neanche se gli venisse sbattuto in faccia. Per questo motivo, credo che la maggior parte delle persone che vivono in case lussuose tipo quelle di Turtle Bay a Manhattan non dovrebbe mai venire a conoscenza di un angolo di paradiso come il leggendario nascondiglio della Grande Mela di Jake e Elwood: il Blues Bar.
Turtle Bay è un’enclave fredda e scontrosa nell’East Side, dove ogni sabato sera sembra di stare in uno di quei classici cocktail rettiliani del martedì in cui gli antipasti non vengono nemmeno toccati, dove il vino bianco acido va giù come l’idraulico liquido e le modelle schiamazzanti fanno audizioni perenni per sedersi sulle gambe di un riccone. “Che meravigliosa vetrina di gente spregevole”, sto pensando tra me e me, quando il mio bonario amicone Miami mi trascina in un angolo e mi dice che è tempo di passare attraverso questo mortorio e andare dove la gente sa come prendersi bene.
“Dove?”, lo sfotto. “Al Blues Bar”, sussurra un po’ disperato. “Eh?”. “Sai, il ritrovo di Jake e Elwood”. “Jake ed El… oh, intendi i Blues Brothers!”, mi illumino al ricordo del loro sfrenato trattamento di Soul Man al Saturday Night Live di quella sera. “Si fermano in qualche posto in città? Vuoi dire che c’è davvero un Black Rhino Club?”
“Nah”, sibila, “la cosa di Rhino è solo un numero dello show. Ma Jake ed Elwood si scatenano al Blues Bar certi notti, e questa è una di quelle notti!”. “Dov’è questo posto?”. “Vedrai”.
La corsa verso la nostra destinazione è un lungo, burrascoso percorso attraverso alcuni quartieri piuttosto brutti. Alla fine accostiamo davanti a questo piccolo saloon con le finestre nere come la pece. “Non c’è nessuno qui intorno. Questo posto è stato chiuso per anni”, protesto, mentre Miami mi spinge fuori dal taxi. “Questo è quello che pensi, amico”, ridacchia, “Big Jake ci ha chiamato!”.
Quando la porta si spalanca, mi riprendo in un attimo. In lontananza sulla soglia c’è un figaccione con la t-shirt striminzita e gli occhiali da sole: il tipo fa vedere dei bicipiti, che hanno la dimensione della mia vita. È Matt “Guitar” Murphy, un tempo membro del gruppo di James Cotton e ora al fianco di Steve “The Colonel” Cropper nella band dei Blues Brothers.
“Avanti, Miami,” ride Murphy, “e porta il tuo amico buffo. La birra è ghiacciata e stasera abbiamo un bel Snug-Geets qui dentro”. “Snug-Geets?”. “È il modo in cui Matt chiama le sue donne”, spiega il mio amico mentre balliamo in ogni centimetro della piccola e accogliente stanza. Un jukebox con ogni dentro ogni singolo blues e R&B suona una melodia di Sam & Dave e le pareti sono intonacate con istantanee sbiadite dei Blues Brothers, che posano davanti alla maggior parte delle stazioni di servizio, delle strade e delle prigioni tra New York e Calumet City, Illinois. Nella maggior parte delle foto i due minacciano qualcuno, o vengono minacciati, con una pistola.
“Chi ha scattato queste foto?.” Miami mi guarda come se fossi un idiota. “I fan, chi altro?”. “E chi lo vuole sapere?”, ruggisce una voce dietro di me.
Scosso mi giro, per trovarmi davanti a Black Rhino in persona: Joliet Jake Blues. Grosso, cazzuto e ben piantato, Jake è vestito con il solito abito sformato nero, camicia bianca pezzata di sudore e cravatta nera sottile come un nastro. Dietro di lui spicca il robusto Elwood, il fratello minore, spalla e confidente silenzioso, che è vestito un po’ meno formalmente in queste ore notturne, dopo essersi tolto una maglietta senza maniche e un gilet nero. Ma entrambi gli uomini indossano pure di notte fedora e occhiali, che anche nella luce rossa enfatizzano i loro sinistri pallori da bar.
Jake abbaia a Miami:”Questo pagliaccio è amico tuo?”. Lui annuisce con cautela e mi presenta. “Spero che sia venuto qui per ascoltare il blues e sbronzarsi fino a cadere sul pavimento,” comanda Jake, mentre Elwood cambia minacciosamente atteggiamento. Annuisco con cautela. “Allora” ride Joliet, dandomi un possente abbraccio, “fammi riempire il più grande boccale che abbiamo per te!”.
Stordito, sto in mezzo alla mischia, mentre il mio corpulento ospite si sporge sul bancone e dice a Keith Richards – uno dei baristi special guest della serata (insieme all’attore Richard Dreyfuss e al vicepresidente dell’Atlantic Records Michael Klenfner) – di prendere qualcosa in alto. Ma il vero colpo arriva quando il silenzioso Elwood si fa avanti, mi porge la mano e mi chiede se mi sia piaciuto Briefcase Full of Blues. “M-m-mi sembrava abbastanza buono,” farfuglio, e mentre ci stringiamo la mano noto una pesante catena che parte dal suo polso e arriva ad una valigetta in pelle nera. All’improvviso Jake torna con la mia birra e mi suggerisce di berla in un sorso solo. Mentre i miei occhi si riempiono di lacrime per lo sforzo, entrambi svaniscono in un soffio di fumo di sigaro puzzolente.
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Jake ed Elwood sono due tipi misteriosi”, concorda in seguito il gigantesco e baffuto Klenfner. “Uno è capace di apparire o scomparire in qualsiasi momento, ma Elwood è il caso più strano: se ne va in un lampo e nessuno sa dove cavolo sia. Elwood non è mai troppo a suo agio, soprattutto in mezzo a gruppi di persone, ma potrebbe anche rotolarsi nudo in una vasca di panna montata e non essere ancora suo agio. E quindi semplicemente se ne va. Mi fa impazzire al punto che sto pensando di usare uno di quei bat-segnali di notte, quando abbiamo bisogno di contattarlo. Invece del disegno di un pipistrello, dovremmo proiettare in cielo un paio di occhiali da sole – Ray-Ban N. 5022-G15, of course – oppure la sua silhouette. Non lo so, è un problema che non ho ancora risolto”.
Sembra essere l’unico. Il nuovo atto di Klenfner ha prodotto un singolo inarrestabile (Soul Man) e un disco di platino che contiene alcune delle musiche più esaltanti di un inverno particolarmente desolante. I Blues Brothers e il loro album sono stati etichettati come “novità” in questa epoca dominata dalla disco, e, considerando la sua lunga eredità di lavoro con artisti blues e R&B, Klenfner è particolarmente contento del trionfo del loro aggressivo sound R&B con l’etichetta Atlantic.
“Penso che il secondo album andrà ancora meglio”, afferma entusiasta. “Abbiamo la migliore band su piazza, e abbiamo Jake ed Elwood alle prese con…”. “Ma Michael”, lo interrompo, “c’è una cosa che mi infastidisce dei Blues Brothers. Non riesco a scrollarmi di dosso la strana sensazione di averli già visti prima. Voglio dire, esattamente chi sono? Jake, ad esempio, assomiglia a John Belu–”.
“Ascolta”, mi blocca Klenfner burbero. “Non ne so più di te. Tutto quello che so è che sono grandi e si comportano in modo assurdo e dannatamente strano”. “Ti dirò questo: sono in programma per lo spettacolo di capodanno alla chiusura di Winterland a San Francisco. Perché non vieni? Ti prometto che sarà un grande show, un grande momento, ma per l’inside story dei Blues Brothers, devi cavartela da solo. Per quel che mi riguarda, quello che senti è ciò che sono”.
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Che band pazzesca”, grida Bill Graham a Klenfner durante il frastuono del soundcheck pomeridiano con Jail-house Rock. Aggrappato alla sua versione spiegazzata e grigia di un cappello alla Blues Brothers, si muove sul pavimento vuoto e malmesso di Winterland lanciando ordini.
“Allora, cosa diavolo ti aspettavi?”, Klenfner ridacchia quando Jake ed Elwood mettono alla prova il gruppo. “Naturalmente abbiamo il meglio”. A questo punto i membri della band sono un fascio di nervi ben collaudato. Su Briefcase sono state pubblicate poche recensioni ma importanti, e i Blue Brothers sembrano disturbatori pagati per una performance tra i New Riders of the Purple Sage e un epico concerto notturno dei Grateful Dead. Accampati sul marciapiede fuori ci sono i Deadhead, i fan più sfegatati dei Grateful, e l’unica cosa che quella schiera di hippie ansiosi abbia in comune con i Blues Brothers sono un paio di escursionisti con malconce teste di cono in plastica sulla testa.
“Tre ore all’apertura!”, urla Graham mentre i fiati continuano a provare. Guidati da Tom “Bones” Malone al sax, trombone e tromba, l’illustre formazione (Lou “Blue Lou” Marini al sax tenore, Alan “Mr. Fabulous” Rubin alla tromba, Tom “Triple Scale” Scott al sax tenore) si perfeziona al secondo giro, quando si uniscono Steve Cropper, Matt Murphy, il tastierista Paul Shaffer, le mitragliate funky del bassista Donald “Duck” Dunn e il batterista Steve “Getdwa” Jordan. Jake decide di afferrare il microfono e si piega all’indietro per un ringhio sul ritornello di Jail-house, mentre Elwood punteggia la performance con un arpeggio blues.
In un batter d’occhio è finita, mentre la band si muove confusamente per la hall e gigantesche buste di plastica vengono issate al soffitto in preparazione del countdown di Capodanno. Nel frattempo Jake ed Elwood si sono dematerializzati. Ci vuole tutto il pomeriggio per localizzare la squallida stanza d’hotel in cui si sono rintanati, ma la mia ricognizione paga. La loro reticenza si dissolve completamente durante una colazione tarda a base di Moscato tiepido e frutti di mare sfatti, entrambi inaugurati per la prima vera intervista della loro complicata carriera.
“Elwood!”, urla Jake, attirando l’attenzione catatonica del compagno dalla partita di football del liceo sul televisore. “Come pensi che se la caveranno i Blues Brothers stasera? Abbiamo una possibilità contro i Grateful Dead e i Deadhead?”.
Elwood esita prima di parlare, lanciandomi un’occhiata ferita. “Jake, devo dire di no, amico. Ci distruggeranno sul palco”. “È un incubo”, concorda Jake. “Urleranno: ‘Grateful Dead! Vogliamo Garcia!'”. “‘Vattene, porco!'”, si unisce Elwood. “‘Togliti dalle scatole!'”. “Oh no, non lo faranno!”, li sgrida una figura femminile nell’ombra dalla stanza accanto. Sta stirando i loro completi neri e infilando un paio di occhiali da sole extra nel taschino: Foster Grant per Jake, Ray-Ban N. 5022-G15 per Elwood. Capisco che è la moglie spettrale di Jake, conosciuta come The Blues Wife. “Ragazzi, avete torto!”, implora. “Urleranno Colonnello, Bones, Joliet, El-wood!”.
“Non ne sono così sicuro,” sospira Elwood. “Ora vorrei una bottiglia di Night Train con una spruzzata di Sterno per tirarmi su di morale. Ma diavolo, quanto costa quella brodaglia!”. “Key Largo era un altro grande marchio”, afferma Jake con nostalgia. “‘Just one sip/And you will know/That you’re on the island/Of Key Largo’. Allora cosa vuoi sapere?”, chiede, puntando minacciosamente il dito verso di me.
“Per cominciare, gira voce che la Universal stia progettando un film sui Blues Brothers, e che Elwood stia scrivendo la sceneggiatura”, domando io. “Lo Scriptatron XL 9000 deve terminare la sceneggiatura”, recita Elwood meccanicamente. “Sarà la prima sceneggiatura dello straordinario Scriptatron XL 9000: il primo script completamente programmato informaticamente. È quasi finita”.
“Ma qual è la trama? Alcuni dicono che è la storia velata del tuo passato”, continuo. “Sì”, ammette Jake, grattandosi il pizzetto sotto il labbro inferiore con la coda di un gambero. “Interpretiamo noi stessi. Ecco la sinossi: inizia con me che esco di prigione dopo tre anni e mi aspetto che la band sia ancora unita…” “Si è beccato tre anni su una condanna di cinque”, lo interrompe Elwood. “Rapina a mano armata in una stazione di servizio. Stavo guidando io, ma si è preso la colpa perché sapeva che mi sarei impiccato se fossi andato in carcere. Lo ha fatto per il gruppo”. “Alla band serviva la diaria”, spiega Jake, “quindi ho dovuto fare un rapina! Ma comunque il film parla di trovare i membri della band per rimettere tutto di nuovo insieme”.
“Li cerchiamo uno per uno come se fossimo poliziotti, detective”, borbotta Elwood. “Non abbiamo nulla, solo un pezzo di carta con gli ultimi numeri di telefono e vecchi indirizzi. Scopriamo che ognuno ha intrapreso un percorso diverso; un paio di loro conducono vite in periferia e fanno lavori normali. Stavamo spaccando quando Jake è andato in galera, attiravamo folle nelle bettole. Ora siamo tornati insieme per riprovarci!”. “È come I Magnifici Sette“, urla Jake, “o Forza 10 da Navarone!”.
Dalle note sulla quarta di copertina dell’album si deduce che sono cresciuti in orfanotrofio, hanno affrontato l’ostilità di suore frustrate, hanno conosciuto il blues grazie a un bidello nero di nome Curtis e hanno rivendicato la città di Calumet, Illinois, come loro territorio. “Giusto,” conferma Elwood, “ma questa è solo meta della storia”. “Entrambi siamo stati vittime di pesanti punizioni corporali da bambini”, rivela in tono cupo. “E c’è una scena nel film in cui torniamo in uno degli orfanotrofi per realizzare una promessa fatta a una suora. Siamo entrambi seduti in questi piccoli banchi di scuola, siamo bloccati e lei ci picchia con un righello d’acciaio. È come una maga del kendo. Si avvicina a noi e poi scompare perché Jake dice fuck davanti a lei! Si chiama Suor Maria Stimmata, mentre la scuola è l’orfanotrofio della Beata Sindone di Santa Elena”.
“Ci sono riferimenti al sangue ovunque nel film e le sale di questo orfanotrofio sono piene delle immagini di sacerdoti martiri, statue grottesche di preti impiccati anni fa dai pagani. È una scuola per bambini speciali ora, ma non ha più il sussidio: la chiesa non la sosterrà più e Sorella Stimmata è davvero a corto di soldi. La manderanno in missione se non riesce a pagare l’affitto”. “Lei è l’unica famiglia che abbiamo”, afferma Elwood con passione. “Ma ci ha buttato fuori dicendo: ‘Non tornate indietro finché non vi riscatterete! Siete ladri e bugiardi, fuori’. Ci ha riversato addosso un pesante senso di colpa cattolico, ma siamo ladri e (fa un ghigno) sporchissimi bugiardi! Quindi torniamo e decidiamo di farle un favore, raccogliendo soldi per la scuola”.
“Siamo abbastanza al verde a questo punto. Ho un lavoro, ma investo la maggior parte dei soldi nella nostra auto, la Bluesmobile, che è un vecchia macchina della polizia di Stato dell’Indiana dall’era della benzina pre-senza piombo. Il tachimetro dice solo “calibrazione certificata” e arriva a 140. In tutto il film vedrete diversi primi piani del tachimetro, con la lancetta che segna 130″.
“L’abbiamo comprata a un’asta municipale. Avevamo una Cadillac, ma l’ho scambiata per un microfono, e Jake impazzisce quando vede la vecchia Dodge che guido. E presto provo a Jake quanto sia veloce”. “E aiuta durante un incredibile inseguimento alla fine del film”, dice con un occhiolino malizioso.
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A proposito, come avete rimesso insieme la band originale?”, butto lì. “È stata un’agonia”, dice Jake, nascondendo il suo faccione tra le mani. “Elwood ed io eravamo un duo, ma quando si è saputo che stavamo formando una band, ho ricevuto subito un sacco di telefonate, chiamate da super star che mi dicevano: ‘Voglio entrare nel tuo gruppo’. Il punto era: meglio comporre una band o semplicemente affidarsi a una già esistente? Gente che lavora insieme da 10 anni, che sale sul palco e ci dà dentro. Pensavo anche alla band di Delbert McClinton, e persino ai Roomful of Blues. Quando siamo ricomparsi per la prima volta, Elwood e io abbiamo fatto un concerto al Lone Star Cafe di New York a giugno, proprio con i Roomful of Blues”.
“Ma alla fine abbiamo deciso: ‘Fanculo i costi e chi ci rimarrà male perché non è stato chiamato, lavoriamo per mettere insieme la miglior band possibile, pezzo per pezzo’. Per primo abbiamo sentito Bones Malone, che ci ha raccomandato Cropper e Dunn. Non sapevamo chi fossero”, sbuffa Jake. “Poi quando Malone ci ha detto: ‘Quelli di Knock on Wood e Soul Man‘, noi abbiamo replicato, ‘Lo farebbero?!’.
“Li ho convocati, facendo un po’ l’arrogante”, racconta Jake, “dicendo, ‘Ooook, va bene Cropper, sei nel gruppo, ma come chitarrista ritmico. Chiaro?’. E lui docilmente ha risposto: ‘Mi piace suonare la chitarra ritmica, non amo tutte quelle robe da solista’. Così ho concluso: ‘Sei un tipo difficile con cui lavorare, vero?!’.
“Poi ho chiamato Dunn, dicendogli: ‘Non ci siamo mai incontrati, ma vorrei che entrassi nella band. Però so che non vai d’accordo con Cropper’. E lui: ‘Oh no, andiamo d’accordissimo’. Li stavo prendendo in giro, sparando un po’ di cazzate”, sghignazza Jake, battendo Elwood sulla schiena. “Ma hanno detto entrambi di sì, e, ah, per inciso, loro non avevano idea di chi fossimo”.
“La vostra prima riapparizione pubblica non è stata nel 1975 in un segmento del Saturday Night Live in cui eravate vestiti da api e cantavate King Bee?“, chiedo. Annuiscono con la testa, cautamente. “A quel tempo, avrei fatto qualunque cosa per cantare”, dice Jake un po’ contrito. “Così ci hanno preso quei stupidi costumi. Amico, che performance da cani”.
“Sono affascinato da questa affiliazione di vecchia data con il Saturday Night Live,” li presso. “Quanto siete legati allo show? Sai, più guardo Elwood, più mi ricorda Dan Aykr–” “Dobbiamo lasciarti ora”, gridano all’unisono. “Speriamo ti piaccia lo spettacolo stasera!”.
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Mi è piaciuto eccome, e non sono il solo. Un esercito di deadhead si precipita a spalla a spalla sul palco quando Jake ed Elwood lanciano la fanfara tumultuosa di I Can’t Turn You Loose, intanto Jake fa i salti mortali e subito dopo tutto esplode con Hey Bartender. Il programma è identico all’album, ma ha un tono più esaltante, perché il gruppo si rende conto che il pubblico conosce ogni numero.
Infatti, a metà del set, Jake alza lo sguardo per spiare dei capelloni longilinei vestiti con abiti neri identici ai suoi. Una salva assordante saluta la vibrante introduzione alla chitarra solista di Soul Man e il trionfo è completo quando i fratelli chiudono con ‘B’ Movie Box Car Blues.
Il gruppo va dietro il palco durante il bis e la coreografia di ruote di Jake è fuori controllo, quando da Flip, Flop & Fly si passa alla sconvolgente Jailhouse Rock. Dietro le quinte il camerino si riempie di sostenitori, e persino un vecchio orso irascibile come Jake è colpito al punto da togliersi i suoi Foster Grant e donarli a un giovane fan profondamente commosso (anche se Joliet li sostituisce rapidamente con quelli di ricambio nascosti nel taschino della giacca).
I Jefferson Starship trasformano la loro casa vittoriana su Fulton Street per un party post-concerto dei Blues Brothers, ma man mano che la serata si consuma ci sono voci tra i 300 ospiti che Jake ed Elwood non si faranno vedere. Gli spiriti si sollevano momentaneamente quando i fedelissimi del Saturday Night Live Laraine Newman e Bill Murray entrano rispettivamente camminando e barcollando. Dietro di loro ci sono John Belushi e Dan Aykroyd, ma la delusione pervade la folla quando diventa evidente che gli eroi vittoriosi non ci saranno.
Alcuni critici hanno notato che la direzione musicale dei Blues Brothers e la decisione di registrare il loro album di debutto live presso l’Universal Amphitheatre di L.A. dimostrano una vitalità e un senso di divertimento sfrenato che attualmente scarseggia. Anche se il loro show consiste in una carrellata di R&B e vecchi successi blues, ognuno viene raccolto e rinnovato con genuino entusiasmo. E a volte i loro sentimenti per la musica sono ancora più profondi. I veterani dell’etichetta Stax/Volt Steve Cropper e Duck Dunn affermano che è stata un’emozione speciale far risorgere parte del loro materiale vintage. La sera prima che la band partisse per le 9 serate a Los Angeles, Cropper ha ascoltato alcuni dischi di Otis Redding per la prima volta dalla morte di Redding, e così gli occhi di Steve si sono riempiti di emozione al suono della voce sorda del suo vecchio capo.
Come band i Blues Brothers sono una delizia. Come forza musicale sono solo un promemoria amichevole di una certa grande musica che negli anni più recenti è stata ignorata o dimenticata. Nella musica popolare c’è dell’altro rispetto alla “disco elettronica pre-programmata” che Elwood disdegna, e i Blues Brothers ci ricordano questo fatto con umorismo e spirito.
Vago un po’ al piano superiore per quella che si rivelerà essere una conversazione affascinante con Dan Aykroyd, ma mi sento un po’ male perché Joliet Jake mi aveva promesso che mi sarei fatto un’ultima chiaccherata con la band. Mi sto rendendo conto che l’energia positiva emanata dai Blues Brothers è una sorta di elisir in questi tempi stanchi, e sono incazzato perché non potrò averne un altro sorso.
Esausto e un po’ depresso, intorno alle 4.30 di mattina decido di affogare i miei già fradici dolori in varie bottiglie di champagne che girano per la villa, e presto scoprirò che la mia depressione è stata cementata da un’inaspettata dose di acido. Maledicendomi per aver dimenticato ciò che Bill Graham mi aveva raccomandato prima (“Se non vuoi farti un bel trip, non mangiare o bere niente che ti venga passato durante la serata”), corro per la casa in preda a un terrore crescente.
Fortunatamente mi scontro con Cynthia Bowman, la graziosa responsabile della pubblicità degli Starship, che dirotta la limousine in attesa di Michael Klenfner e ordina severamente all’autista di riportarmi al vicino Miyako Hotel prima possibile. Grato per l’assistenza, mi sporgo dal finestrino per ringraziarla, mentre la macchina si allontana dal marciapiede e alzo lo sguardo sulla sua faccia, che è diventata un orribile caleidoscopio. Sono sconvolto e senza parole, non mi sono mai fatto un acido prima e ora mi spaventa a morte.
Dopo un’escursione apparentemente infinita attraverso San Francisco prima dell’alba – durante la quale mi convinco per un attimo che l’autista sia un demone cornuto che mi accompagna, volente o nolente, nelle profondità dell’inferno –, mi ritrovo seduto fuori dalla confortante familiarità orientale del Miyako. In qualche modo riesco a raggiungere la suite che condivido con Miami al tredicesimo piano.
“Porca puttana!”, infurio mentre apro la porta. “Qualche stronzo mi ha drogato al party dei Blues Brothers e ora mi sto facendo un viaggione fuori di testa”. La mascella di Miami cade e lui mi guida cautamente, consigliandomi di sdraiarmi e cercare di rimanere calmo, mentre fa una telefonata. Sono troppo distratto dai colorati flussi di insetti che salgono dai muri disciolti della stanza, per capire qualcosa della conversazione telefonica, ma qualche minuto dopo la porta si spalanca e svela un altra fetta di realtà: John Belushi e sua moglie, Judy Jacklin.
Per farla breve, i Belushi, ai quali sono legato da una semplice conoscenza, restano con me per ore: John assume un confortante atteggiamento da capezzale, mentre cerchiamo di farmi passare quella merda. Cioè finché non sono abbastanza stanco da addormentarmi con l’aiuto del Valium. La sua gentilezza mi ricorda la cosa di cui ogni inutile ciccione ha bisogno nella vita: una coppia di amici inaspettati.
Non ho più visto Black Rhino quel fine settimana, ma ricordo che Belushi sorrideva alla fine del mio trip, quando ho menzionato l’ultima scomparsa di Joliet Jake. “Non ti preoccupare, penso che dovresti prendere questi”, dice con tono rassicurante mettendo qualcosa di scuro e brillante sul comodino. Mi addormento.
Quando mi sveglio, più tardi nel pomeriggio, la mia testa è piena di domande. Strizzo gli occhi, cerco di orientarmi, la prima cosa che vedo è che lo skyline di San Francisco riflesso in un oggetto luccicante appoggiato oltre la mia testa. Sbatto le palpebre e mi rendo conto che è il regalo che mi è stato dato la sera prima: i Foster Grant di Jake. Quelli di scorta.