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Carlo Verdone: «L’Italia è un Paese che non approfondisce più niente»

La rivalsa con ‘Borotalco’, la difficile lavorazione di ‘Compagni di scuola’, la sfida di ‘Sono pazzo di Iris Blond’. Verdone a tutto tondo tra ricordi, momenti duri e l’amore per la musica. Con un messaggio per Tommaso Paradiso
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Foto di Claudio Porcarelli tratta da ‘Uno, dieci, cento Verdone’.

Ha messo in piazza, anzi, sul grande schermo, i tic, le manie, l’assoluta mancanza di senso del ridicolo degli italiani. Carlo Verdone è proprio nel nostro DNA, c’è poco da fare. Chi non si è mai trovato davanti un coatto come Ivano? A un pignolo come Furio? O a un cazzaro contapalle come Manuel Fantoni (aka Sergio Benvenuti)? Verdone è riuscito, attraverso i suoi personaggi, a mostrare le tante sfaccettature italiche, le stesse sfaccettature di Uno, dieci, cento Verdone, il volume fotografico celebrativo per i suoi quarant’anni di carriera e di grandi successi. Una carrellata di immagini, nata da un’idea del fotografo Claudio Porcarelli, con scatti di backstage e ritratti (anche inediti).

Nel frattempo, mentre scrive la nuova pellicola e prepara il serial (di Netflix?) Vita da Carlo, riesce anche a organizzare una festa di compleanno per Compagni di scuola, uno dei suoi capolavori. Perché Verdone, quello più vero, quello che colpisce nel segno e lascia qualcosa dentro, non è (solo) quello di Un sacco bello o Bianco, rosso e Verdone. Ma è quello di film malinconici, che sanno unire la risata alla tristezza. In questa miscela Verdone è un vero maestro: un regista (oltre che un interprete) che riesce in ogni pellicola, anche la più divertente, a lasciare un po’ di sano amaro in bocca.


Compagni di scuola, il film che ha rappresentato una nuova fase, compie 30 anni. E lo festeggia il 1° dicembre, a Roma, al Cinema Europa.
È stato un film molto importante. Io avevo già iniziato ad alzare il tiro con Io e mia sorella.

Ci spieghi.
Io e mia sorella fu un film molto importante, perché apriva una porta nuova nella mia carriera. Lasciavo un po’ indietro la commedia ridanciana, dei personaggi e dei mitomani, rappresentando una commedia all’interno di una famiglia borghese, a Spoleto. Più che altro avevo rappresentato Ornella Muti, non come l’oggetto del desiderio, ma come la ragazza della porta accanto. Ne è uscito fuori un film molto apprezzato, che mi ha dato il coraggio di fare Compagni di scuola.

E com’è andata?
Ho combattuto tanto con il produttore, che non credeva a quel film, pensava fosse un autentico disastro, perché c’erano troppi attori, perché non facevo ridere, perché era troppo verboso, logorroico e tutto girato in una villa. Però avevo tanta voglia di farlo.

Perché?
Avevo partecipato da poco a una riunione di compagni di scuola. Ed era stata veramente un’autentica tragedia. Uscendo mi dissi che, prima o poi, avrei dovuto fare un film su quella serata. Chiaramente il film è diverso, ma l’umore che ha assomiglia molto a quella patetica serata con i vecchi compagni di scuola che tentavano di essere ciò che non erano più: dei ragazzini che facevano gli scherzi e si tiravano le cose addosso. Eravamo dei professionisti ormai tutti quanti, chi più chi meno.

Girando questo film ha avuto problemi?
Compagni di scuola è stato un film che io non capivo come sarebbe venuto fuori. Era difficilissimo, ma dovevo dimostrare di avere talento anche dal punto di vista registico. E quel film dimostra un certo talento da parte mia. Mi perdoni se mi autoincenso, ma quella pellicola era veramente complicata. Non per i movimenti della macchina – perché la villa era quella, le stanze erano quelle, più di tanto che potevo fare? – ma era il far muovere gli attori, nelle stanze, sempre le stesse. E la scelta degli interpreti fu un piccolo capolavoro, da parte mia.

Come mai?
Scelsi anche attori presi dalla strada come Bernabucci, che faceva il rappresentante di libri. Presi attori giusti per quel ruolo, fu uno dei migliori cast della mia carriera. Mi impegnai tanto, il produttore veniva sul set e metteva anche di cattivo umore.

Ah sì? E che faceva?
Diceva «Eccoli qua, 18 cretini che parlano, parlano, parlano». Io ogni volta che lo sentivo pensavo «Ma dimmi te, io a spaccarmi il sedere e questo qua che ogni volta mi insulta». Poi arrivò il giorno della proiezione del film alla International Recording.

E che successe?
Prima del missaggio chiamai Mario Cecchi Gori – perché stiamo parlando di Mario – con la moglie, si mise là e, alla fine del film, non c’era stata una risata. Si alzò e mi disse «Vieni qui». Andai là, mi guardò, mi abbracciò e mi disse «Tu mi freghi sempre: li giri meglio di come li scrivi». Gli piacque molto. Ma il film è stato compreso negli anni.

Foto di Claudio Porcarelli tratta da ‘Uno, dieci, cento Verdone’.

Effettivamente i fan all’inizio non hanno apprezzato.
No, i fan inizialmente mi avevano preso per depresso. A tutti era piaciuto, erano usciti tutti con un cazzotto nello stomaco, però non ritrovavano più il Verdone di Troppo forte, non ritrovavano più quello di Borotalco. Vedevano che stavo su una strada più autoriale, che le devo dire? Ma non era un film d’autore, era un film diverso, “autore” è una parola che non significa niente.

E arriviamo proprio a Borotalco, che ha appena citato.
Dopo Bianco, rosso e Verdone, inspiegabilmente, fui lasciato solo sia da Sergio Leone, che da Cardarelli che dalla Medusa di Poccioni e Colaiacono. Erano convinti che avessi sparato tutte le mie cartucce.

Addirittura!
Ero considerato quello che faceva i personaggi, ma io sentivo di non essere soltanto quello. Potevo interpretare un ruolo anche senza le parrucche, senza fare una voce particolare, senza la gestualità. Però sparirono. Rimasi tre mesi senza lavorare. Nonostante i David di Donatello per Un sacco bello, i Nastri d’argento, i Biglietti d’oro…

Be’ bruttissimo.
Sentirsi improvvisamente come scartato fu una tragedia. La mattina mia moglie usciva, andava a lavorare e mi chiedeva «E tu cosa fai oggi?», rispondevo «Niente». Mi domandava «Ma come? È andato bene l’ultimo film…». Se n’erano andati tutti e vidi, in lei, una sorta di preoccupazione perché pensava che ‘sto cinema è strano: fai dei bei film, hai le critiche buone, i premi e poi improvvisamente rimani solo?

E lei? Cosa pensava in quei momenti.
Avevo una gran paura, credevo che il cinema fosse qualcosa di fragile, aleatorio. Non si faceva vivo un produttore.

E cosa fece allora?
Rispolverai la mia vecchia laurea, andai alla facoltà di lettere e chiesi di parlare con il mio professore con il quale avevo dato la bellezza di cinque esami. Avevo fatto tantissimi esami sulla storia delle religioni, soprattutto sulle Religioni del Vicino Oriente Antico. Il bidello mi chiese chi stessi cercando. Quando dissi il nome del professore, il bidello mi disse che si era suicidato. Ho risposto «Ma che stai a di’? Ma veramente?». Tornai a casa ancora più depresso. Passai un’altra settimana veramente assurda. Ancora. Improvvisamente alle tre del pomeriggio squilla il telefono. Era il mio agente Guidarino Guidi.

Cosa le disse?
Mi dice «Carlino, vedi che bisogna aspettare e poi arriva la buona stella? Il produttore Mario Cecchi Gori ti vorrebbe incontrare. Che dici? Lui è disposto anche oggi». Gli dissi «Alle cinque sto da te». Andai a via Dei Banchi Vecchi, a Roma, dal mio agente, c’era Mario Cecchi Gori già col sigaro. Mi guardò e mi disse «Ho visto in ritardo Bianco, rosso e Verdone, mi è piaciuto molto. Ma soprattutto io sono qui perché tu hai interpretato il personaggio dell’emigrante. È poesia pura. Sono convinto che tu possa fare un film anche senza personaggi».

E lei?
Allargai le braccia e dissi «Io dottore la ringrazio per questa fiducia. Ma quindi lei vuole…», «Io voglio produrre un film con te», sentenziò. Lo ringraziai, mi chiese chi volevo come sceneggiatore. Scelsi Enrico Oldoini e ci mettemmo a lavorare per undici mesi. Fu una cosa terribile. Buttammo quattro, cinque, sei soggetti. E poi alla fine trovammo questo. E Borotalco è stato il film della svolta, il film grazie al quale io e lei stiamo parlando qua adesso. Se non ci fosse stato, sarei rimasto quello dei personaggi.

Borotalco fu, effettivamente, un grande successo.
Prese subito cinque David di Donatello e, a quel punto, sentii che la mia carriera era partita.

Foto di Claudio Porcarelli tratta da ‘Uno, dieci, cento Verdone’.

Arriviamo a Sono pazzo di Iris Blond, un film dal respiro internazionale che arrivava dopo il successo di Viaggi di nozze.
Sono perfettamente d’accordo con lei, ma il pubblico è strano. Lo lasci con Viaggi di nozze che, attenzione, era piaciuto, ma era piaciuto di più il trailer del film.

Come mai?
Il film lasciava un’amarezza dentro, una solitudine, è tragicomico. Credo di aver fatto una grande performance, in tutti i personaggi, soprattutto per quello di Ivano, ma anche del professore. Però improvvisamente è esploso, ha lasciato il pubblico interdetto per la malinconia che c’era. Ma d’altro canto qual è un mio film dove non c’è solitudine e malinconia? C’è in tutti. Perché fa parte del mio carattere.

Ok, ma come si arriva a Sono pazzo di Iris Blond?
Mi ero trovato talmente bene con Claudia (Gerini, ndr) che ho voluto rischiare. Avevo fatto, anni prima, un viaggio in Belgio per presentare alcuni miei film. E sono rimasto molto colpito.

Da cosa?
Dall’atmosfera. Io amo molto quelle atmosfere, che non sono atmosfere da regista di commedie. In Belgio ce puoi fa’ tutto tranne che ‘na commedia. Eppure ci volevo andare perché mi piaceva, mi piaceva questo grigio, questa pioggia, questa umanità degli italiani che ce l’hanno fatta, che hanno aperto ristoranti e sono tutti così carini e affettuosi. C’è una bella atmosfera, poi la nebbia…chissà. Ho voluto fare una sfida e ambientare una commedia lì.

E…?
Mi presero per pazzo. Tutti mi chiedevano «In Belgio?».

Tra l’altro è un film in cui si denota il suo grande amore per la musica.
In quel momento amavo molto gli Everything but the girl elettronici, proprio in quel periodo era uscito l’album Walking Wounded. Dissi a Claudia Gerini di ascoltare bene quel disco, perché io e lei avremmo fatto un film, dove io avrei interpretato un tastierista e lei una cantante, ambientato fuori, probabilmente in Belgio.

E la Gerini?
Mi fa «In Belgio?», le dissi di sì. E mi chiese come la vedevo. Me la immaginavo completamente diversa da Jessica di Viaggi di nozze. Volevo raccontare una storia d’amore un po’ straziante, in qualche modo, però con tanta musica. Claudia disse «Sono pronta!»

E poi?
Scrissi Sono pazzo di Iris Blond, lo feci leggere al produttore e quello mi disse «Ma questo è un film che costa un sacco de soldi. Ma lo giri tutto là?», io «Sì» e lui «Mamma mia!». Però era talmente contento del fatto che Viaggi di nozze fosse andato bene che, alla fine, me lo fece fare. Lo girai a Bruxelles, Anversa, Charleroi, Marcinelle, La Louvière. Quello era un film assolutamente internazionale. E infatti fu la pellicola che Weinstein prese e distribuì in America con la Miramax.

E in America come andò?
La più bella critica che abbia mai avuto l’ha scritta Vincent Canby sul New York Times. Fu una cosa che mi fece rimanere a bocca aperta. Cinque colonne m’ha fatto. Il film uscì all’Angelica Theater ed ebbe un gran successo.

A questo proposito, anche alla luce del fatto che ha partecipato al film da Oscar La grande bellezza, non ha mai ricevuto proposte dall’estero?
Arrivano le telefonate, però c’ho sempre un film che ho, contrattualmente, con il produttore. Quindi i tempi non coincidono. Però le posso dire la verità?

Dica.
Mi hanno proposto tutti film che non sono andati bene.

Qualche film che le hanno proposto e ha rifiutato a malincuore?
Eleonora Giorgi, dopo Borotalco, andò a Los Angeles, insieme con Angelo Rizzoli e si portò dietro la pizza di Borotalco. Lo fece vedere a Warren Beatty e a Jack Nicholson e rimasero tutti e due colpiti, volevano lavorare con me. Eleonora mi disse che aspettavano una mia lettera, un mio contatto. Pensava volessero fare un remake e sottolineò che Beatty era rimasto molto, ma molto colpito.

E come finì?
Che ‘sta cosa l’ho lasciata andare, mi sono detto «Ma figurati, il mio inglese è molto stentato». E poi si era fatto avanti Cecchi Gori con un altro film. Sicuramente ho perso tante occasioni. Ma le occasioni grosse le ho perse per colpa del produttore.

Cioè?
Durante l’epoca Penta – che era l’epoca dei miei film forse migliori o che la gente si ricorda di più – le pellicole rendevano perché venivano vendute alle televisioni. Quindi non gli conveniva venderli all’estero perché, se mi fossi aperto un mercato fuori, me ne sarei potuto andare. Allora mi blindavano. Ero il capofila di tutti i listini di Cecchi Gori quando vendeva i film. E poi ne metteva anche altri, alcuni molto brutti. Però in testa c’era sempre un mio film: Io e mia sorella, Compagni di scuola, Stasera a casa di Alice, Maledetto il giorno che t’ho incontrato, Al lupo Al lupo. Quindi, in pratica, per colpa delle televisioni, ho faticato parecchio.

E ora?
Adesso con De Laurentiis vedo che riusciamo a uscire in Spagna, in Australia, in Canada, in America Latina, in Turchia. Mi si è aperto tutto un mercato dove sono molto stimato nei Paesi balcanici, che non è poco, perché sono tanti: l’Ungheria, la Romania, la Serbia, la Bosnia, la Russia.

Visto che la musica, nei suoi film, è tanto importante, sa che i Thegiornalisti, in Felicità puttana, citano proprio Borotalco?
Tommaso Paradiso è veramente un bravo musicista e una persona molto amabile, mi ha fatto tanto piacere che si siano ispirati a quelle atmosfere anni ’80 che richiamano Dalla e gli Stadio. Indubbiamente lui ha detto che, i miei film, sono stati un po’ un sentiero da percorrere con tutte le atmosfere che c’erano in quel periodo.

E cosa ne pensa?
Le ha sapute trasformare bene ai giorni d’oggi. Sono contento di essere stato uno spunto importante per loro. Cercherò, quanto prima, di conoscerlo e di partecipare a un concerto per ascoltarlo dal vivo.

Lei che è così attento a mettere sulla graticola gli italiani. Lo farebbe un film sui politici?
Sarebbe un film che nessuno vorrebbe vedere. Ogni sera abbiamo talk show e trasmissioni che si occupano di politica, di problemi relativi all’economia, alle città. Ne abbiamo talmente tanti, di problemi, che il film sarebbe una noia mortale. Francamente no, non lo farei. Anche perché poi i problemi li sanno tutti, li conoscono tutti. Che altro fare?

Lei, tra l’altro, si è speso per invitare i romani al referendum sull’Atac.
Mi sembrava un referendum molto interessante. Avrebbe portato l’Italia su un piano europeo, sulla riga di Barcellona, di Londra, che sono divise a lotti. Però alla fine si accetta anche il verdetto di chi non è d’accordo con te.

Ma lei che impressione ha avuto?
Che la gente manco lo sapeva, non c’ha capito niente. Nessuno ha approfondito. Ecco, l’Italia è un Paese che non approfondisce più niente. Daje, daje, con ‘sti attacchi alla stampa, ma non è così. Sì, ci sono anche cattivi giornalisti, però un giornalista onesto, equilibrato – e ce ne sono – ti può ancora fare approfondire una notizia. Quando non ci saranno più i giornalisti, che spariranno, sarà tutto quanto così e ci saranno dei problemi, perché nessuna capirà più l’approfondimento delle cose.

Senta, ma cosa ci dice del prossimo film?
Avrà un impianto corale. Sarò insieme ad altri sei o sette attori. E di questo sono contento, perché oltre alle attrici avrò anche attori maschi, al mio fianco.

Ultima domanda: Manuel t’ha più chiamato Dustin? E di Redford, c’hai notizie?
Eheheheh (ride, si ricompone e si immerge nei panni di Manuel Fantoni, ndr) Co’ Dustin ce siamo dati ‘n’appuntamento, però m’ha detto «C’ho un problema, m’hanno denunciato perché dicono che ho messo le mani addosso a quarcuna». (torna Carlo Verdone, ndr) Qua di questi grandi attori che citi, improvvisamente vengono messi in mezzo da qualcuno con denunce. Pure Dustin Hoffman poraccio. Comunque quello di Borotalco è stato proprio un bel finale, ce l’avrò sempre nel cuore quel film.

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