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Carolina Pavone e l’arte di ballare con i propri miti (a cominciare da Nanni Moretti)

Dopo tre film come assistente alla regia del “maestro” romano (che qui produce), la giovane “allieva” esordisce a Venezia con ‘Quasi a casa’, un coming of age sorprendente. In cui si è perfino permessa di litigare con Lou Doillon e far sputare addosso a Francesco Bianconi. L’abbiamo incontrata

Foto: Sacher Film/Vivo Film

Conosco Carolina nel 2015. L’anno seguente siamo insieme sul set del suo primo cortometraggio. Mi manda una sceneggiatura dal titolo terribile che non riporterò, tuttavia la leggo e penso: è bellissima, è una delle cose più oneste che si possano scrivere a vent’anni. Così nell’estate romana del 2016 giriamo un breve on the road tra San Lorenzo, Villaggio Olimpico e Corso Francia, con camera car notturni e impossibili da raccordare. Quando fingo di arrabbiarmi Carolina ride e balla: “Non importa! Non importa perché stiamo andando a chiedere scusa!”.

Minuta, tragicomica, voce graffiata e profonda, affascinante ad ogni battuta ma con un’esuberanza che esplode dove non ti aspetti, all’epoca aveva scritto, diretto e interpretato la storia di una giovane donna che attraversava la città insieme a due amici per raggiungere il suo primo amore e dirgli solo: scusa, mi dispiace, ma che fine fanno quelli che si vogliono bene quando smettono di volersi bene? Prima dell’ultima scena, dopo aver ballato e fumato parecchio, Carolina era rimasta afona. Non era riuscita a scusarsi, e per anni ho temuto che non avrebbe trovato il coraggio di riprendersi la voce e dirigere un film. Poi, invece, eccoci qui.

Carolina Pavone oggi esordisce nel lungometraggio con Quasi a casa, presentato alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori e ora al cinema, prodotto da Nanni Moretti (Sacher Film), Marta Donzelli e Gregorio Paonessa (Vivo Film) e Rai Cinema, distribuito da Fandango e Circuito Cinema. Forse una dramedy, forse un coming of age, o piuttosto un tango tra due donne, l’allieva e l’idolo, che nella tensione di un rapporto doloroso tracciano i confini delle rispettive identità. Quasi a casa racconta che crescere significa anche emulare i miti, venerarli, imparare da loro a guardarsi dentro per poi, a volte, rinnegarli. O almeno lasciarli andare, nel tentativo di esistere all’infuori di loro. Al centro di tutto, la musica. Quella di Caterina (interpretata da Maria Chiara Arrighini, per la prima volta sul grande schermo) e quella di Mia (Lou Doillon, che qui è ipnotica, crudele e inevitabile come una dipendenza).

«Dopo la proiezione a Milano mi hanno chiesto qual è il mio film del cuore», mi racconta subito Carolina. «Una regista che amo e mi ispira molto è Mia Hansen-Løve, e lei una volta ha detto in un’intervista: “Il mio film della vita è Heat con Al Pacino e Robert De Niro”, e non c’è niente di più lontano dal suo cinema. Poi ha alzato ancora di più la posta: “In ogni mio film cerco di rifare Heat”. Ecco, io credo che per me questa cosa valga con i Blues Brothers». E infatti tra Francesco Bianconi che appare come un vate, improvvisi tagli di capelli alla Jean Seberg, la colonna sonora di Coco Puma, il feticismo per un’estetica chic e minimale, dialoghi che a volte sembrano claim e altre sembrano spiati, si sente che per Pavone la musica è un esorcismo. Come quando parte un coro a cappella su Me Maten di C. Tangana o quando Cerrone’s Paradise diventa una goffa danza erotica, finché Lou Doillon non interpreta Almost Home e in effetti, come sperato, la casa viene giù. «Quello è il motivo per cui ho voluto fare cinema: far partire scene di ballo all’improvviso».

E così hai fatto un film. Quando te ne sei accorta?
Venezia è stato un bel luna park, ma la vera botta è arrivata l’altro giorno al Nuovo Sacher. È il cinema dove ho capito che mi piaceva il cinema. Vedere Quasi a casa scritto all’ingresso del Sacher mi ha fatto sentire male: “Ho fatto un film”.

Anni fa abbiamo girato un corto in cui “andavamo a chiedere scusa”. Con Quasi a casa cosa andiamo a fare?
Mi farai piangere, vero? Con Quasi a casa andiamo a dire a noi stessi, ma poi anche agli altri, che non è sbagliato avere paura. E questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che non finiremo mai di avere paura. E questo è bene capirlo e dircelo.

Lo hai capito grazie al film?
Anche. Proprio come lo capisce Caterina: accorgendosi che anche Mia ha paura. Quando vede che le sue insicurezze le sente anche una persona che per lei è un dio inarrivabile e invincibile, allora significa che siamo fregati, ma che questa è una liberazione.

Ti ho detto: “Non credevo avresti mai trovato il coraggio di esordire”, e tu mi hai risposto: “Infatti è un film che parla di questo”.
Sono partita da quel sentimento, sì. Poi è apparsa nella testa Caterina, e per seconda è apparsa Mia. Allora ho pensato potesse essere interessante raccontare quel sentimento attraverso la lente di un rapporto allievo-maestro. Nella mia testa ho iniziato a vederle parlare, avvicinarsi, spiarsi di nascosto, guardarsi facendo finta di non guardare, e a un certo punto ho dovuto dire: “Ok, questo è un film”.

Con Quasi a casa andiamo anche a litigare con i nostri idoli. Diventa necessario farlo, per emanciparsi?
Non volevo che la morale di tutto fosse: bisogna uccidere i padri per diventare adulti. Quindi no, non bisogna farlo per forza. Ma se questo ti impedisce di dare forma a una tua identità, allora il momento di rottura deve arrivare.

Maria Chiara Arrighini debutta con te e mi sembra il tuo alter ego perfetto. L’hai trovata subito?
No, ho fatto tantissimi casting. Poi è arrivata lei, aveva l’energia che cercavo ma ha toppato il primo provino. Il suo agente si è rifatto vivo con la mia casting: “Maria Chiara adesso ha capito il personaggio. Può tornare?”. E quando è tornata, era davvero Caterina. Se ci pensi, questa è la cosa più da Caterina che potesse fare: tenere così tanto a qualcosa da andare nel pallone e poi rifarsi viva.

È anche una cosa tipica di Carolina?
(Ride) Prima di girare, Carolina un paio di volte l’ha detto: “È meglio se lasciamo stare tutto, dài, abbiamo scherzato”.

Carolina Pavone sul set. Foto: Sacher Film/Vivo Film

Lou Doillon ha scritto: “Grazie Carolina per essere venuta a prendermi per il tuo film”. Com’è andata?
Volevo che Mia fosse francese, distante e irraggiungibile. Poi ho capito che in una scena avrebbe dovuto cantare fino a far venire giù la casa, a far sentire male Caterina e lo spettatore. Doveva essere una vera musicista, doveva saper stare con il corpo dentro la musica. Così è uscito fuori il suo nome. Le ho mandato la sceneggiatura, le è piaciuta e mi ha invitata a Parigi: al nostro primo incontro mi sono innamorata.

È impossibile ignorarla. Ed è impossibile non capire che genere di potere eserciti su Caterina.
Cercavo proprio questa cosa. Una botta di carisma e fascino irresistibile, che spiegasse perché Caterina la subisse tanto. Quello di Lou è un fascino che tutti abbiamo subìto sul set e che continuiamo a subire ogni volta che la vediamo. E pensa che prima del film non sapeva una parola d’italiano. Ha fatto un lavoro incredibile in un momento atroce della sua vita. In quei giorni stava perdendo la mamma, e con un bambino di appena un anno si è imbarcata in questa folle avventura a Roma. È stata un’attrice gigante.

E poi tutto torna: chi meglio di lei, figlia di Jane Birkin e Jacques Doillon, ha dovuto confrontarsi con il mito per trovare sé stessa…
Assolutamente. Una delle prime volte che abbiamo parlato del film mi ha detto: “Se devo capire qualcuno, io capisco Caterina. È con lei che mi identifico”. Lou nella vita reale è quanto di più distante da Mia.

Se Mia fosse stata italiana, chi avresti scelto?
Non penso si possa rispondere altro che non sia Mina. Perché Mina significa: solo tu puoi dirmi se posso farlo o no, solo tu puoi darmi il permesso.

Nanni Moretti è stato il tuo mentore e oggi è il tuo produttore. È azzardato un paragone tra questo e la storia del tuo film?
È un modo di metterla che posso capire. È ovvio che la prima suggestione sia partita da lì. Da enorme fan di Nanni mi sono trovata a poter lavorare con lui, stargli vicino e rubare con gli occhi il suo essere regista sul set. Poi con la mia sceneggiatrice (Michela Straniero, nda) abbiamo voluto raccontare un’altra complessità: il rapporto tra due artiste donne, una aspirante cantante e l’altra di successo, che però non può permettersi di mollare.

Di Moretti sei stata assistente alla regia su tre film: Mia madre, Tre piani e Il sol dell’avvenire. Per approcciarlo gli hai bucato le ruote della macchina come fa Caterina con Mia?
(Ride) A 17 anni, per puro caso, un giorno torno da scuola, accendo la tv e su Sky Cinema parte un film con i titoli di testa blu e una musica particolare. Lo vedo tutto e rimango completamente folgorata. È un momento che ricordo in maniera distinta. Quel film era Bianca. Da lì ho iniziato a vedere tutti i film di Nanni e poi molti altri film: ho scoperto il cinema. L’anno dopo leggo su Internet: “Nanni Moretti cerca una liceale per il suo nuovo film”. Stava preparando Mia madre e cercava chi potesse interpretare la figlia di Margherita Buy. Mi presento e faccio il primo provino con Manuela De Santis, che poi sarebbe diventata anche la casting di Quasi a casa. Mi richiamano: “Nanni Moretti vuole incontrarti per un secondo provino”. E già questa, per me, era follia. Torno lì e lui mi chiede: “Ma tu vuoi fare l’attrice nella vita?”. E io – non so da dove prendo questo coraggio – lo guardo negli occhi e gli rispondo: “No, io voglio fare la regista”. Non mi ha scelto per il ruolo, però mi ha richiamato per fare da assistente sul set.

Invece Francesco Bianconi quando ha scoperto che nel tuo film gli avrebbero sputato addosso?
(Ride) Per me era molto importante metterlo subito in chiaro, però mi vergognavo, quindi delegavo gli altri: “Avvisate Francesco, mi raccomando, avvisatelo”. Ero terrorizzata che sul set potesse annoiarsi, invece si è divertito molto.

Maria Chiara Arrighini con, a destra, Francesco Bianconi. Foto: Alberto Novelli/Sacher Film/Vivo Film

Per la colonna sonora hai scelto Coca Puma: avete lavorato alla buona vecchia maniera, costruendo insieme tutto l’ambiente musicale del film.
Ed è stata una delle parti più belle. Ho conosciuto Costanza mentre stavo ancora scrivendo il film, così lei ha iniziato subito a leggere, prendere appunti e buttare giù idee. E poi mi ha fatto il grande regalo di prestare a Caterina due suoi pezzi che amavo molto, Porta Pia e Lupo Volkswagen.

Ero sicura di trovare nel tuo film scene ballate e perfino coreografate. Perché sei così ossessionata dalla musica?
Non lo so, è una cosa di cui non riesco a fare a meno nella mia vita, e di conseguenza in quello che spero sarà il mio cinema. Io cammino e sento la musica in testa, anche se non c’è. Tempo fa un mio amico mi ha detto: “Esiste al mondo una cosa più bella del cibo?”. “Sì, andare a un concerto di musica dal vivo”. È una patologia, lo sai…

Lo sai, io costruisco cose e poi le distruggo per il gusto di musicarle.
Appunto. Al liceo avevo una band, suonavo la batteria. Quando poi ho capito che mi piaceva il cinema, bingo! Perché la musica non sempre include il cinema, ma il cinema include sempre la musica.

Una delle migliori scene è quella in cui Mia canta Almost Home, un brano che Lou Doillon ha composto per il film.
Ed è incredibile, perché se ascolti bene il testo, a un certo punto Lou canta: “Ora che non ci sei più e mi manchi, io sono libera”. Non ne abbiamo mai parlato, ma immagino che stesse pensando alla mamma. Sentire un pezzo del genere sulla storia che avevo scritto mi ha messo i brividi.

Ti giocavi molto, con quella scena. Avevi idea di quale brano ti avrebbe proposto?
No. La verità è che Lou è riuscita ad entrare nel progetto davvero a ridosso delle riprese, e io avevo così paura dei tempi che le ho proposto di fare una cover. Avevo in mente IknowhowIfeel dei Parcels, e Lou mi ha risposto: “Ma che pensi, che hai chiamato me e mi fai cantare la canzone di qualcun altro?”. Mi sono sentita una deficiente totale. È come chiamare Madonna per farle cantare un pezzo di Lady Gaga. Ma che cazzo dici, Carolina, ma come ti permetti? Lou non mi ha detto “come ti permetti”, ha detto solo: “Anche se c’è poco tempo, io scrivo un pezzo”. E il fatto che in pochi giorni sia nata quella canzone è un miracolo.

Lou Doillon in una scena del film. Foto: Sacher Film/Vivo Film

Insomma, con quante persone hai litigato per fare questo film?
(Ride) Sei troppo intelligente per mentirti. Non capisco come fa la gente che non litiga a non litigare. La verità? Con Lou è stata una litigata sventata, perché con lei è impossibile arrabbiarsi. Ho litigato con Nanni, con il direttore della fotografia – ma facendo pace venti minuti dopo. E anche con Costanza… grossa lite.

Avevano ragione loro o avevi ragione tu?
Sempre io.

A Caterina viene rimproverato di essere “troppo semplice” e di fare musica “troppo semplice”. È come se la semplicità fosse un difetto, ed è triste perché va davvero così, mentre spesso la complessità viene esaltata a priori.
È proprio questo. È quello che mi dico da sola e che mi sono sentita dire. La prima volta mi si è spezzato il cuore, l’ho preso come un insulto: “Sì, il tuo corto è buono, però è un po’ semplice”. Questa parola, da quel giorno, me la porto appresso come una condanna. L’ho subìto e volevo che anche il mio personaggio lo subisse. Chi vuole e sa essere complicato lo faccia, è fantastico. Ma chi vuole provare a stendere le cose in una maniera più aperta, con meno sovrastrutture, ha il suo modo di vedere il mondo. Prendere quello che hai dentro e provare a restituirlo allo spettatore in maniera immediata, significa toglierti un pezzo di cuore e metterlo in mano agli altri. Ed è difficilissimo.

Quasi a casa è un film ideato, scritto e diretto da te. Qual è la battuta che più racconta Carolina?
Chi lo ha visto mi sta dicendo che si è commosso su Caterina che chiede: “Quando comincia la vita vera?”. Però se tu mi domandi quale battuta sono io, allora io non sono quella. Perché la me superficiale è Caterina che dice al telefono: “Pietro, la canzone è troppo semplice, io stasera mi ammazzo, baci”. Invece la me più complessa è in una battuta di Mia: “Pensavo di aver visto qualcosa in te, ma forse mi sono sbagliata”. E sento di abitare in quella battuta, per qualche motivo.

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