«Qualcuno diceva che nel cinema noi donne possiamo essere o madri, o mogli, o streghe. Bene: io scelgo la strega». E l’ha fatto davvero. Caterina De Angelis ha rinunciato a quello che poteva essere un suo diritto per nascita (se sei bella, giovane e figlia d’arte, nel nostro cinema puoi pretendere tutti i ruoli da eroina che vuoi) per abbracciare il lato oscuro della forza. Succede in L’amore, in teoria, il film di Luca Lucini, nelle sale con Vision Distribution dal 24 aprile, dove De Angelis interpreta Carola, una – lasciatecelo dire – stronza micidiale. Come zerbina lei gli uomini innamorati, nessuno mai. Per non parlare della friendzonata arcobaleno che rifila al malcapitato protagonista Leone (Nicolas Maupas) dopo soli 7 minuti dall’inizio del film. Poi, certo, il ruolo non è mica tagliato con l’accetta: Carola ha la sua evoluzione, le proprie fragilità, e alla fine quasi la perdoni. Però di base resta una stronza. Esattamente quello che lei ha sempre sognato di essere al cinema.
Meglio un ruolo da bad girl che da santa?
Fin da bambina restavo ipnotizzata dai cattivi dei cartoni animati. Prendi Ursula o Crudelia De Mon: dài, sono pazzesche! I villain sono scritti molto meglio degli eroi, perché sono più tridimensionali: sono personaggi “rotti” e fallibili, proprio come noi. Ci somigliano. Poi, quando sono passata ai film, questa fascinazione è esplosa perché di solito a interpretare gli antagonisti ci sono sempre attori bravissimi. Quindi sì: voglio essere la strega della favola.
In fondo, è anche più divertente…
Sì, mi sono divertita molto a interpretare Carola. Che poi, al netto della caricatura, le mie scene sono anche dei momenti di cinema-verità: ognuno di noi, da piccolo, ha sfruttato l’attenzione degli altri per colmare le proprie fragilità. Ammettiamolo.

Caterina De Angelis con Nicolas Maupas in In una scena di ‘L’amore, in teoria’. Foto: Federico Vagliati
Nel film si vede una generazione di giovani anche molto impegnata, politicamente parlando: scioperano, scendono in piazza, si battono per il clima. Anche tu eri così?
Certo. Ero l’imbucata numero uno di tutti gli scioperi di Roma.
In che senso, scusa?
Quando ero in Italia – poi sono andata a studiare in Cornovaglia e a Londra – frequentavo una scuola privata inglese dove il clima, per fortuna, era sempre molto sereno. Da noi non si scioperava mai, quindi… andavo alle manifestazioni degli altri. In particolare avevo un’amica che studiava al Tasso, sempre a Roma, che è una realtà animata da idee politiche molto forti. Mi sono fatta tutte le loro manifestazioni: bellissimo!
E oggi? C’è una causa per cui scenderesti subito in piazza a protestare?
Una sola?!? Direi centomila. Però, se proprio devo scegliere, è la lotta contro gli allevamenti intensivi. Sono una “malata” degli animali.
Però la dieta vegana l’hai mollata…
Non mi definirei una “carnivora di ritorno”, perché mangio poca carne. L’ho fatto per ragioni di salute – non riuscivo a bilanciare bene la dieta ed ero sempre stanca – e anche perché ho capito che ci sono mille modi per combattere gli allevamenti intensivi. Il primo, che potremmo fare tutti, è prestare attenzione alle etichette e scartare le carni di provenienza dubbia.
È vero che da bambina sognavi di fare la veterinaria?
Sì. Ma è stata una fase. Poi c’è stata quella della scrittrice – un sogno che in realtà coltivo ancora – e poi quella della “cantante famosa”. Non cantante pop, rock, ma famosa: questa qualifica faceva parte del cd.
La fama prima del genere?
Ero piccola, avevo 13 anni, ed ero impazzita per Hannah Montana. Mi ero davvero convinta che sarebbe bastato mettermi una parrucca bionda per diventare una cantante famosa, come lei. In quale genere, era del tutto secondario…
Quando hai capito che volevi fare l’attrice?
Qualche anno dopo sono passata da Hannah Montana ai film: un mondo che mi ha stregata. Adoravo andare al cinema. All’inizio pensavo più alla sceneggiatura, che ho infatti studiato all’università. Sono arrivata quasi per caso a fare l’attrice: avevo fatto delle foto, sono andate bene, Laura Muccino (nota direttrice di casting, nda) mi propose un corto, poi c’è stata la serie tv Vita da Carlo di Carlo Verdone. Sono rimasta ammaliata da questo mondo e così ho deciso di studiare. Mi sono iscritta alla Silvio D’Amico.
Lo sai, vero, che avresti potuto benissimo imparare sul campo?
Il motivo per cui ho scelto di studiare è diverso da quello per cui sto continuando a farlo. All’inizio mi sono iscritta alla Silvio D’Amico perché volevo svolgere questo mestiere nel modo più limpido e pulito possibile. Non volevo avere strade diverse o più corte, tant’è che ho finito per fare il percorso più lungo: tra laurea e accademia, sono a quota sei anni di formazione. Ora continuo a studiare perché mi rendo conto che è un’esperienza che mi arricchisce, come artista e come persona. Prima ero più debole e dipendevo di più dal giudizio degli altri: se mi dicevano “Non vali niente, sei solo la figlia di…”, vacillavo perché non avevo alle spalle il percorso che ho oggi. Ora invece ho un’opinione di me stessa che regge a prescindere da quella degli altri.

Caterina De Angelis in ‘Vita da Carlo’ di Carlo Verdone. Foto: Gianfilippo De Rossi/Amazon Studios/Filmauro
Avendo come mamma Margherita Buy, sicuramente ti eri fatta un’idea di come potesse essere questo lavoro. Era corretta, oppure l’hai dovuta rivedere?
Mia mamma ha sempre vissuto e parlato del suo mestiere come se fosse un lavoro qualunque, da ufficio. Andava sul set, poi tornava e stava con noi. Punto. Tutta l’onda lunga che lo circondava – le foto, i party, le interviste – non ci arrivava. Ora che sono entrata anch’io in questo universo mi rendo conto di quanto mamma sia forte: quello dell’attrice è un lavoro complesso, dove sei costantemente in competizione e in discussione. Non basta avere delle competenze. Sei sempre in balìa delle scelte degli altri.
E quanto all’onda lunga? A te piace cavalcarla o la tieni fuori dalla tua vita, come mamma?
Mi spaventa molto questo mondo dove l’attrice e la “ragazza-immagine” si sovrappongono.
Verdone come ha reagito quando ti sei presentata al provino per Vita da Carlo?
Non mi ha riconosciuta. L’ultima volta che mi aveva visto ero ancora bambina. Gli ho svelato io la mia identità, una volta che mi ha presa. Lavorare con lui è stato bellissimo: più che elargire consigli, lui mi ha dato un grande esempio. Ad ogni ciak faceva sempre qualcosa di leggermente diverso: si divertiva ancora, coniugando rigore e improvvisazione. Un modo di recitare che ti tiene vivo e che vorrei copiare.
Hai fatto anche un film, Volare, diretta da tua madre. Com’è andata?
È stato facile perché il ruolo era piccolo e di fatto interpretavo… me stessa. Non c’è stato quindi bisogno di discussioni o direzioni particolari. Eravamo totalmente sulla stessa lunghezza d’onda, anche perché abbiamo scritto insieme la sceneggiatura.