C’era una volta Sergio Leone (e c’eravamo noi) | Rolling Stone Italia
Interviste

C’era una volta Sergio Leone (e c’eravamo noi)

Nel libro ‘Che hai fatto in tutti questi anni’, Piero Negri Scaglione racconta il ‘making of’ di una delle imprese cinematografiche più colossali di sempre: ‘C’era una volta in America’. Ma anche i sogni di una generazione

C’era una volta Sergio Leone (e c’eravamo noi)

Sergio Leone sul set di ‘C’era una volta in America’

Foto: Vittoriano Rastelli/CORBIS/Corbis via Getty Images

Ci ha messo diciotto anni, Sergio Leone, a realizzare il suo ultimo film. Tanti ne sono passati da quando C’era una volta in America è stato pensato a quando è stato presentato come evento speciale a Cannes 1984. In mezzo, una sceneggiatura passata per tante mani, il produttore (e i soldi) che non si trovavano e molte alte traversie, prima di poter vedere sullo schermo la storia di Max e Noodles. Piero Negri Scaglione, già caporedattore centrale di Rolling Stone nei primi anni dopo la sua (ri)apertura in Italia, ha scritto Che hai fatto in tutti questi anni (Einaudi), un libro denso e leggero, appassionato e rigorosissimo, e ha compiuto un grande sforzo di sintesi per racchiudere in poco più di duecento pagine il “suo” C’era una volta in America.

Dentro ci sono mille curiosità e molto del cinema italiano di quegli anni. Persino una Romina Power che viene presa in seria considerazione per la parte di Eve, ma poi si presenta al secondo provino assieme ad Al Bano e viene scartata; e un Diego Abatantuono che, reduce dai suoi grandi successi commerciali, ospita Robert De Niro nella casa che ha preso in affitto a Porto Rotondo, mettendolo a dormire in stanza con l’amico Ugo Conti. Ma soprattutto c’è l’amore per un’opera che, a più di trentacinque anni dalla sua uscita, non ha ancora svelato del tutto il suo mistero.

Nel risvolto di copertina si dice che quando hai visto il film avevi diciotto anni e ti è sembrato che, pur ambientato in un tempo e in uno spazio lontani, raccontasse una generazione meglio di mille altri. Sui social ho visto che qualcuno, a proposito dell’uscita del tuo libro, ha parlato di “generazione Noodles”. Questa generazione immagino sia la tua. Puoi spiegarmi meglio perché C’era una volta in America la racconta così bene?
È una profezia che si autoavvera, perché la generazione Noodles – il copyright è di Marco Bardazzi, glielo devo – ha visto il film da giovane, intorno ai vent’anni, al cinema o magari in vhs. Sono i quarantenni/cinquantenni di oggi, che hanno interpretato il duo Noodles/Max come due possibili scelte di vita. È la solita storia: i ribelli e gli individualisti sono più affascinanti ma muoiono giovani o finiscono per andare a letto presto, gli integrati fanno carriera ma tradiscono gli altri e se stessi. Il bello è che non credo che Leone avesse previsto questo aspetto. Si è reso conto dell’effetto che faceva sui ragazzi di allora, e lo spiegava dicendo che anche i giovani, la generazione della tv, in realtà avevano un certo gusto per il cinema classico. Ma la questione, a mio parere, è molto più profonda, ha a che fare con l’atmosfera del film, la storia che racconta. La nostra è la generazione del cosiddetto riflusso, la Generazione X, cresciuta con i vecchi (i boomer!) che un giorno sì e l’altro pure ci dicevano quanto erano stati fighi loro e quanto disimpegnati e superficiali eravamo noi. Volevamo pensare al futuro e c’era sempre qualcuno che ci sbatteva in faccia il passato. Che poi era un passato di bombe in piazza e P38, sai che nostalgia. Mi risulta però che ci siano anche tanti trentenni e ventenni che amano il film. Che ricercava una sua classicità, anche nell’immagine, e per questo è invecchiato benissimo.

Cosa diresti a un diciottenne di oggi, classe 2003, che sta per guardare il film su una piattaforma di streaming?
Gli direi di cercare di vederlo tutto di fila. Al massimo, di fermarsi quando Noodles va in galera. Era l’intervallo che consigliava Leone se uno proprio non ce la faceva a non fumare una sigaretta o doveva assolutamente andare in bagno.

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Sempre nel risvolto si dice che il film è uno spaccato di un’epoca e di un Paese, il nostro. Nel libro, però, non mi pare che tu affronti esplicitamente questo concetto.
In effetti ho cercato di raccontare e lasciare che a trarre le conclusioni sia chi legge. Mi fa piacere che tu lo abbia notato, perché per quanto mi riguarda questo libro è un atto di fede nel potere del racconto. C’è un detto talmudico, che ho letto molto tempo fa, non ricordo più dove, che dice: Dio ha creato l’uomo per farsi raccontare delle storie. Io racconto la storia di C’era una volta in America dopo aver fatto tutte le ricerche che mi era possibile fare. Poi sta a te lettore, se ne hai voglia, riflettere sul perché non siamo più in grado di mettere in piedi macchine narrative della portata di quella, perché da decenni noi italiani in particolare sembriamo essere capaci solo di scrivere romanzi ombelicali, film intimisti o commedie mediocri, canzoni così così. Con le dovute eccezioni, naturalmente, e con alcuni segni di una certa inversione di tendenza. I film italiani che sono andati a Venezia quest’anno – che peraltro non ho ancora visto – da quello che leggo in giro mi sembrano significativi in questo senso. In particolare Sorrentino, Mainetti e i D’Innocenzo.

In un articolo sul Corriere della Sera da te citato nel libro, Sergio Leone scrive che “C’era una volta in America sono io”, aggiungendo che il film è anche un giudizio su se stesso. Secondo te cosa intendeva dire?
Questo, in fondo, rimane un mistero, ed è il mistero del film. Parlava di se stesso ragazzino, cresciuto in strada a viale Glorioso? Si identificava in Max o in Noodles? Credo che lui intendesse anche dire che, se nei suoi lavori precedenti era ricorso a maschere (il pistolero, il bombarolo irlandese di Giù la testa, il peone messicano dello stesso film), qui il velo si sollevava, si vedono direttamente i “piccoli fantasmi” che lui diceva di mostrare nei suoi film. E i fantasmi di C’era una volta in America sono quelli di tutti: il tempo che passa, le scelte sbagliate, l’ambizione e la delusione, l’amicizia tradita, l’amore non corrisposto, la violenza, il fallimento, la vendetta, la mediocrità.

Per realizzare il libro hai intervistato moltissime persone, praticamente tutte quelle che hanno contato qualcosa nella realizzazione del film. Immagino che, pur essendo un cultore di C’era una volta in America, tu abbia scoperto un sacco di cose che non sapevi. Qual è stata quella che ti ha colpito di più, quella in grado di modificare almeno un po’ la tua prospettiva sul film?
Mi ha aperto gli occhi l’incontro con Enrico Medioli, il primo tra pari degli sceneggiatori, morto qualche anno fa. L’ho incontrato nel 2010, mi pare, a casa sua a Orvieto. È quello che ha scritto la battuta che tutti ricordano: “Sono andato a letto presto”. Sono tornato da quell’incontro un po’ deluso, mi sembrava mi avesse detto poco o niente, invece mi aveva svelato il segreto del film: su mandato di Leone, ci aveva messo dentro Proust, Shakespeare, Ibsen, la sua enorme cultura letteraria, riuscendo a farlo sembrare un film di gangster. Rileggendo ciò che mi aveva voluto raccontare, ho capito tutto il non detto che c’è in C’era una volta in America, che come tutti i grandi capolavori del nostro tempo ha più strati. Uno può goderselo anche solo arrivando al primo, senza scendere in profondità. Ma se ha voglia di addentrarsi, trova la sua ricompensa.

Cosa pensi del fatto che un critico molto autorevole come Paolo Mereghetti consideri il film tutt’altro che un capolavoro? Sul suo Dizionario dei film gli dà solo due stelle e mezza su quattro (come a Ecce Bombo, per dire) dicendo che “lo sforzo di sei sceneggiatori non ha prodotto nessun personaggio coerente” e che “la durata spropositata non riesce a evitare buchi nel racconto”, accusando il film di “troppo autocompiacimento”.
Prima di tutto devo dire che non sono esattamente un cultore del Mereghetti. Poi che i buchi nel racconto sono il senso stesso del film, se per buchi si intendono le cosiddette ellissi temporali. È la materia di cui è fatto C’era una volta in America. Hemingway diceva che il racconto (breve, ma perfino quello lungo o lunghissimo, in realtà) è come un iceberg, se ne vede solo una minima parte. I grandi narratori moderni sono quelli che hanno grandi buchi nel racconto! “Personaggio coerente”, invece, non so cosa vuol dire. Bisognerebbe chiedere a Mereghetti cosa intende dire e quali sono per lui i personaggi coerenti in altri film.

Nella nota finale, quella in cui racconti un po’ il making of del libro, dici che il film ha contribuito alla tua formazione assieme a Fenoglio e a dei dischi che hai trovato in casa. Quali erano questi dischi?
C’è un disco in particolare che avevo in mente più di altri. Non era neppure un disco: era una cassetta. La storia è questa: ho un fratello più grande di me di nove anni che a un certo punto della vita ha venduto tutti i dischi di rock che aveva per farsi una collezione di jazz. Parliamo di vinili, fine degli anni Settanta. L’unico pezzo rimasto in casa era una cassetta americana di Volunteers, l’album dei Jefferson Airplane. Forse era invendibile. Quell’unico esemplare bastò per cambiare la mia vita. Da lì scoprii la California di fine anni Sessanta, i Doors, poi Neil Young e Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Beatles e gli Stones, i Sex Pistols e i Dead Kennedys, gli Who, i Jam, gli Specials. In parallelo, cominciai a frequentare il cineclub che aveva frequentato mio fratello: lì vidi Apocalypse Now e Il cacciatore, Toro scatenato e tutto lo Scorsese di quegli anni. Nella mia testa, rock’n’roll e cinema sono sempre stati la stessa cosa.

Cosa ti aspettavi prima di vedere il film per la prima volta? Conoscevi già il cinema di Sergio Leone? Eri un suo fan o i tuoi registi di riferimento erano altri?
Non mi aspettavo niente, perché C’era una volta in America è il primo film di Leone che ho visto. Forse non è vero, ma me la ricordo così. Certamente ho recuperato gli altri film dopo averlo visto. Adesso li amo tutti, specialmente C’era una volta il West e Giù la testa, il più sottovalutato, forse proprio per questo mi piace particolarmente. È un film del ’71 che racconta gli anni Settanta italiani prima che accadano.

Nel libro parli di una canzone da te molto amata, Fairytale of New York dei Pogues, collegandola al film. Posto che a nessuno verrebbe in mente di discutere la colonna sonora di Morricone, ti sei mai divertito a pensare a quali canzoni sarebbero potute stare bene dentro al film?
Uno degli aiuto-registi di Sergio Leone mi ha detto di avergli proposto For What It’s Worth dei Buffalo Springfield al posto di Yesterday, secondo me sbagliando. Nel film ci sono due canzoni, Yesterday e Amapola, un brano del 1920 di Joseph Lacalle, e sono perfette anche per i loro difetti, per esempio quel sentimentalismo estremo e un po’ falso di Yesterday che altrove mi infastidirebbe. Qui è giusta, proprio per questo.

La storia del film che si racconta nel libro è anche un grande what if? Basta pensare a Sciascia e Mailer che sarebbero potuti esserne gli sceneggiatori.
Altroché! Questo è uno degli aspetti che più mi hanno appassionato. La storia delle grandi imprese e dei grandi film in particolare è tutta un what if? Ma qui, come è naturale, in una vicenda che copre quasi vent’anni, i possibili scenari alternativi sono praticamente infiniti. Mi ha divertito scoprire che lo stesso Leone ne ha presi in considerazione diversi, senza mai deviare dal progetto iniziale però. Alla fine ha fatto il film che aveva in testa, più o meno, fin da quel 1966 in cui ha letto il libro e – coincidenza per me fatale – sono nato io.

Che domanda faresti a Sergio Leone se una macchina del tempo ti trasportasse a Cannes 1984, alla conferenza stampa della prima del film?
Forse gli chiederei se, in tutti quegli anni, non aveva mai pensato di mollare il colpo… Con la certezza che lui avrebbe clamorosamente mentito.