Sarà che il pubblico lo conosce soprattutto come Jackson “Jax” Teller, il motociclista duro dal cuore tenero della serie tv Sons of Anarchy, e sarà anche che il suo accento inglese non è particolarmente marcato, ma uno tende a dimenticarsi che Charlie Hunnam non è un biondo ragazzone californiano, ma è nato – nel 1980 – a Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. (Biondo ragazzone comunque lo è).
E infatti, parlando con lui al telefono da Los Angeles, dove vive, qualcosa dei modi spicci ma fraterni del biker che ha impersonato per sei anni dev’essere rimasto – se non altro perché si rivolge al sottoscritto chiamandomi “my man”, cosa che in effetti mette a suo agio.
Il suo ultimo film è Triple Frontier, in uscita il 13 marzo su Netflix. Diretto da J.C. Chandor (Margin Call, All Is Lost) e scritto dal regista insieme a Mark Boal (The Hurt Locker, Zero Dark Thirty), è un film che ha rischiato di non uscire mai – inizialmente doveva essere diretto da Kathryn Bigelow, poi è caduto in un cosiddetto development hell e per il cast si è parlato nel corso del tempo di nomi come Tom Hanks, Johnny Depp, Will Smith, Channing Tatum, Tom Hardy, Mahershala Ali, Mark Wahlberg. Nove anni dopo, i cinque protagonisti sono diventati Charlie Hunnan, appunto, Ben Affleck, Oscar Isaac, Garrett Hedlund e Pedro Pascal. Poteva andare peggio.
Triple Frontier – al netto di una dose di patriottismo inossidabile che non ti aspetteresti da parte di un autore come Boal, che sembra giustificare le azioni di questa band of brothers anche quando i guai che li sommergono sembrano meritarseli tutti – è un onesto heist movie con ambientazione esotica, niente di nuovo sotto il sole (tropicale), ma quasi rassicurante nella sua trama semplice e un po’ anni ‘70. Racconta di cinque veterani dei corpi speciali che decidono di derubare un boss della droga sudamericano, con la solita cascata di guai che deriva sempre da questo genere di decisioni.
Che cosa spinge i personaggi di Triple Frontier a imbarcarsi nell’impresa rischiosa che costituisce il plot del film? È senso di fratellanza, amicizia, patriottisimo, avidità…?
Direi un mix di tutte queste cose. La fratellanza è un aspetto fondamentale della vita militare. C’è un libro splendido che si chiama Tribe, di Sebastian Junger. La sua tesi affascinante è che gran parte dell’alienazione del ritornare alla vita civile, così come la sindrome post-traumatica, spesso derivano dal senso di non appartenere più a una comunità, a un sistema egualitario e co-dipendente. Qualcosa che non è facile replicare nelle società moderne.
Quindi, per tornare al film, due aspetti mi hanno interessato. Il primo è questo appartenere a una comunità con aspetti tribali. Il secondo è rappresentato da ciò che succede quando smetti di colpo di operare ad alto livello – quando le tue abilità smettono di essere ritenute utili. Succede per i soldati e in particolare per i corpi d’élite, che si ritrovano in pensione ancora giovani. Ma è qualcosa che riguarda anche gli sportivi professionisti.
Qual è questa frontiera multipla a cui allude il titolo?
Da un lato è un film di azione-avventura: c’è un elemento più evidente di machismo, di cameratismo. Ma a un livello più alto il film pone domande filosofiche: questa frontiera, che è anche un luogo geografico preciso, può essere vista come il confine che separa il patriottismo dall’avidità, la vita civile da quella militare, l’amicizia dall’interesse personale.
Avete girato nella giungla e in montagna, in condizioni atmosferiche difficili tra pioggia, fango e freddo. È stata dura?
Onestamente, credo che i colleghi attori e i registi siano un po’ troppo… delicati. Io sono nato per stare all’aria aperta, quindi quando sento parlare di condizioni atmosferiche inclementi o ambienti difficili in cui si è stati costretti a girare, mi scappa un po’ da ridere. Non c’era niente di particolarmente ostile nelle location dove abbiamo girato il film, anche se vedendolo uno può avere questa impressione. La cosa peggiore che abbiamo dovuto affrontare è stato il fango. Ci siamo trascinati dentro un mare di fango. E pioggia torrenziale. Ma se alla fine di una giornata un po’ di fango è tutto quello che hai dovuto affrontare, io non la definirei una giornata cattiva.
È un film particolare, con almeno tre protagonisti, se non cinque. Com’era l’alchimia tra di voi sul set?
È inevitabile che si creino dei gruppi. Per la maggior parte della mia vita adulta sono stato amico di Garrett Hedlund, quindi era normale per noi stare insieme. Poi io e lui ci siamo trovati incredibilmente bene con Ben Affleck, quindi abbiamo passato molto tempo insieme. Oscar (Isaac) e Pedro (Pascal) si conoscevano già bene prima di questo film, quindi stavano perlopiù insieme per conto loro. C’erano due gruppi, insomma. È stato chiaro fin da subito come ognuno di noi poteva contribuire al film, a seconda delle rispettive personalità. È stato tutto naturale. L’alchimia era buona, se me lo chiedi.
Tempo fa hai rivelato di stare lavorando a una sceneggiatura ispirata a un articolo di Rolling Stone, su un improbabile tizio texano che era diventato un boss del cartello messicano della droga.
Sì, ma purtroppo quel progetto non è andato in porto, come spesso succede. Cerco di portare avanti in parallelo il mio lavoro come producer e sceneggiatore, ma non è facile perché quando parto per andare a girare un film devo abbandonare tutto. In questo momento sto lavorando a un altro script, da circa un anno, anzi appena mettiamo giù il telefono torno al computer. Devo consegnarla la prossima settimana! Andando avanti, vorrei che la scrittura fosse un aspetto sempre più importante della mia carriera.
Pensando agli ultimi film di cui sei stato protagonista, soprattutto Civiltà perduta e Papillon, si potrebbe dire che ti stai specializzando in film d’avventura ambientati in luoghi esotici.
Già. Ma non è tanto una questione di generi. Credo che la mia evoluzione come attore e come uomo scorrano parallele, in una specie di viaggio verso l’accettazione – anzi, l’accettazione radicale – di chi sono davvero. In altre parole: quando ero più giovane avevo la tendenza a evocare un alter ego rispetto a chi sono realmente, mi esaltava l’idea di entrare nei panni di un’altra persona, e di conseguenza tirare fuori una versione “aumentata” di me stesso… Oggi quello che mi interessa è trasportare la vera essenza di chi sono nei ruoli che interpreto. È la consapevolezza che forse sono abbastanza interessante da non dovere sforzarmi di essere qualcun altro. Quindi oggi cerco di portare la mia verità nel lavoro che faccio. Qualunque esso sia.