A testimoniare la superiorità culturale dell’Europa sugli USA basterebbe un solo indizio: loro hanno i Kardashian, noi abbiamo i Gainsbourg. Provocazioni a parte, la famiglia composta da Jane Birkin, Serge e Charlotte Gainsbourg, Kate Berry e Lou Doillon ha battezzato e stravolto cinema, arte, fotografia, moda, musica, regia.
Ho incontrato Charlotte Gainsbourg a Milano, in occasione della presentazione del suo primo lavoro da regista Jane by Charlotte, che sarà in sala in Italia da giugno, e dell’anteprima di uno dei suoi ultimi film da attrice, che invece sarà al cinema dal 21 aprile: Gli amori di Suzanna Andler.
Questa chiacchierata si è rivelata più intima del previsto, tanto che ho ragionato a lungo se tenere alcune cose solo per me o riportarle. Alla fine ho scelto la via della trasparenza totale rispetto a quanto ci siamo dette perché, come dirà Charlotte Gainsbourg nel corso dell’intervista, pur se ci illudiamo di sapere già tutto su di loro, ci sono ancora molti «giardini segreti e segreti di famiglia».
L’incontro con Charlotte conclude idealmente un ciclo di confidenze iniziato con Lou Doillon e proseguito con la bellissima chiacchierata con Jane Birkin, che mi ha fatto sentire un’amica di famiglia.
Jane by Charlotte è un documentario che parla del rapporto con tua madre, ed è per questo molto intimo. Trovo però che abbia anche dei tratti universali, che ne pensi?
All’inizio ho deciso di lavorare a questo documentario in una maniera quasi egoista, l’ho girato pensando a me e a mia madre. Poi ho iniziato a mostrare il film in Paesi in cui sia io che mia madre siamo meno conosciute, perché in Francia, in fin dei conti, ci conoscono tutti, e per questo sono di natura più curiosi nei nostri confronti. E ho capito che questa storia parla a tutte le madri e le figlie, e non solo: anche alcuni uomini mi hanno detto di aver chiamato le loro madri subito dopo aver visto il film.
Ti è sembrato di parlare in maniera particolare alla tua generazione? Molti si sono costruiti un futuro e hanno messo le basi del loro successo viaggiando e allontanandosi presto dai propri famigliari…
Non ho pensato a una generazione in particolare, ma è vero che al giorno d’oggi siamo donne che lavorano. Ovvio che prima di tutto ci sono i nostri figli, ma il lavoro è molto importante, non siamo di certo più le donne che restano a casa.
Da dove è nata l’esigenza di girare questo documentario su una donna così conosciuta come tua madre?
L’esigenza di fare il documentario è nata in me qualche anno fa, mentre lei era in tour con la Symphonique. Aveva scelto di cantare al pubblico esclusivamente le canzoni di mio padre che parlavano della loro storia d’amore. Mi sembrava di sentire parlare i miei genitori su un palcoscenico, è stato molto emozionante per me. Allora le ho chiesto il permesso di andare a filmarla mentre cantava in Giappone, ma non volevo che la presenza di mio padre si percepisse più di così.
In effetti la luce nel film è tutta per tua madre. Anche quando andate insieme nella casa di Rue de Verneuil (quella di Serge Gainsbourg), non parli se non per delle contingenze della presenza-assenza di tuo padre, come se volessi tenere solo lei al centro. È una mia impressione?
La casa di Rue de Verneuil è molto importante per me, la presenza di mio padre è palpabile, ma avevo voglia di mostrare la personalità di mia madre. Non volevo utilizzare dei filmati d’archivio di trasmissioni televisive, di momenti della loro storia d’amore, per parlare di lei, volevo mettere al centro solo Jane, e intendo Jane come è oggi. Mia madre ha un carattere fuori dall’ordinario, ma molto spesso, da quando è morto mio padre, si è nascosta dietro il “genio”. Pensava probabilmente che il suo ruolo fosse quello di trasmettere l’eredità musicale di mio padre, ma nel farlo si è un po’ dimenticata di sé stessa.
A proposito della casa di tuo padre, so che hai intenzione di aprirla e renderla museo.
Sì, siamo quasi pronti, ma non ho ancora una data di apertura. Da quando mi sono trasferita a New York ho capito con la distanza che avevo bisogno di allontanarmene. Dovevo aprirla al pubblico o venderla, perché volevo anche dare un segnale ai miei figli: non bisogna restare così ancorati al passato, bisogna saper lasciar andare.
Nel film, invece, Jane racconta che fa fatica a separarsi dagli oggetti: la tua è quasi una reazione opposta?
Quando mio padre è morto, ho conservato anche dei post-it dove lui aveva annotato qualcosa e gli scontrini del ristorante dove aveva mangiato. Ogni cosa sembrava avere un significato, sembrava portare con sé un pezzettino di memoria. Non so in cosa si traduca questo comportamento: è per la paura di buttare un oggetto che potrebbe avere un significato o forse è il tentativo di congelare tutto nel tempo per fingere che lui non sia mai morto? Ho avuto talmente tanta difficoltà con il lutto che ho reagito così. E anche quando è morta mia sorella (Kate Barry, figlia di Jane Birkin e del compositore John Barry, morta di sospetto suicidio nel 2013, nda) ho conservato le sue cose per anni senza riuscire a toccarle. Non so come fanno le persone, è molto personale, ci sono anche dei casi in cui all’improvviso si decide di gettare via tutto. Mi è capitato di fare un film, L’albero, dove invece il mio personaggio reagiva alla morte improvvisa del marito buttando tutto.
Cosa innesca questi meccanismi?
In generale, è la morte di qualcuno che mi è caro a gettarmi nella confusione e rendermi difficile capire cosa fare anche con gli oggetti. Ho un aneddoto a questo proposito: quando ci siamo trasferiti a New York, mia figlia piccola aveva 3 anni, la grande già 12 e mio figlio 16. Siamo ritornati in Francia sei anni dopo e ho spedito a Marsiglia tutti i ricordi dell’infanzia dei miei figli, perché pensavo di prendere casa lì. Tutti quei ricordi legati all’infanzia dei piccoli sono andati perduti in un incendio.
Com’è successo?
Sfortuna. C’è una poesia molto celebre che dice “Objets inanimés, avez-vous donc une âme?” (“Oggetti inanimati, avete quindi un’anima?”). Abbiamo tutti un rapporto particolare con gli oggetti, che mi appassiona. Mi piacerebbe capire di più di queste dinamiche, sicuramente ci sono tanti libri in proposito…
Il docufilm è stato girato tra Bretagna, Parigi, New York. Anche i luoghi hanno delle anime e raccontano una storia?
I luoghi sono popolati dai ricordi, che abitano le mura come fantasmi. Sono nata a Londra, e da bambina ci sono tornata tantissime volte per stare con i miei nonni. La casa di Chelsea rappresenta per me la mia infanzia, ma da quando i miei nonni sono morti non ci vado più, preferisco andare in hotel, perché la casa non è più abitata. Quindi, per rispondere: sì, i luoghi, e le case soprattutto, sono carichi di ricordi.
Mi diceva prima che tutto è partito dal Giappone…
Abbiamo iniziato in Giappone, ma la prima parte non è piaciuta a mia madre e ci siamo fermate per due anni. Quando abbiamo ripreso, avevo voglia di seguirla a New York per dare una scansione dei luoghi legata anche alla nostra famiglia. Il Giappone avrebbe potuto rappresentare Kate, New York mi serviva per parlare di me, la Bretagna poteva raccontare Lou. Volevo esplorare tutti questi luoghi e anche andare in Inghilterra per rintracciare le sue origini, ma la pandemia non mi ha permesso di tenere fede a questo programma.
Come ne è uscita?
Ci siamo dedicate solo a noi, tra Parigi e la Bretagna. Ho portato con me anche mia figlia piccola e abbiamo parlato durante le registrazioni di Alice, la mia seconda figlia che non era lì con noi, perché includere anche loro era importante per me. Ogni volta però un luogo ha provocato delle domande alle quali sembrava logico rispondere parlando di un determinato argomento.
Questa è la tua prima esperienza come regista: di un documentario, questa volta, ma ti ha fatto venire voglia di dedicarti alla regia di un progetto di fiction?
Non so ancora, ma devo ammettere che mi ha dato la voglia di ricominciare. Anche se sono stata così legata a questo argomento che per me sarebbe difficile trovare qualcosa di altrettanto interessante oltre a mia madre. Non è stata un’avventura semplice, è durata quattro anni, è stata molto faticosa, perché non avevo una vera e propria sceneggiatura, ma avanzavo a piccoli passi e non ero certa di avere tutto ciò di cui c’era bisogno. A un certo punto, la mia montatrice mi ha detto che aveva bisogno di altro materiale. Allora mi sono lanciata alla ricerca di altre idee: ho utilizzato la videocamera, le foto… Non mi è sembrato di fare un vero e proprio film come regista, ma di mettere insieme delle idee che avevo: quella di fare delle foto a mia madre, e di proiettare dei video su di lei, ma la costruzione si fermava lì. Nonostante questo, per me il film è conclusivo, non so non so se è riuscito, ma di sicuro è conclusivo. Ho avuto anche un po’ la fortuna della debuttante. Mi piacerebbe ricominciare, ma non so se saprei scrivere una sceneggiatura e fare un altro film come regista.
In realtà il cinema è il tuo pane quotidiano…
Ci sono talmente tanti registi che ammiro, che scelgono ogni dettaglio con cura e che utilizzano la camera come un vero strumento espressivo. Per me la camera è stato uno strumento per dire a mia madre: “Ti voglio bene”.
Parlando di cinema, sei in Italia anche per presentare anche Gli amori di Suzanna Andler, un film in cui si respira molto teatro.
Sì, una vera pièce teatrale.
Potrebbe essere una porta anche verso il teatro, che hai incrociato solo una volta tanti anni fa?
Ho avuto la fortuna di ritrovare Benoît Jacquot più volte, e abbiamo voglia entrambi di continuare a lavorare insieme. C’è un legame d’affetto molto forte tra noi. Mi ha proposto di fare Suzanna Andler a teatro a Venezia. Non so se questo piano andrà veramente in porto, ma adoro questo testo.
Un testo di Marguerite Duras che Benoît Jacquot in un primo momento non voleva realizzare proprio per il suo legame di amicizia con la scrittrice, poi ha cambiato idea e te lo ha proposto. Com’è stato lavorare su quest’opera?
Non conoscevo benissimo Marguerite Duras, anche se avevo già letto Il dolore. Ma poi mi sono rifatta e ho iniziato a leggere molti suoi libri. Non mi sentivo capace di recitare in questo ruolo, perché è talmente teatrale, ha una voce così specifica… Benoît mi ha convinta. Mi ha messa a mio agio e mi ha spinta a trovare la mia voce nel testo. Alla fine avevo l’impressione di non parlare attraverso un personaggio, ma di parlare in prima persona.
Per una coincidenza con ciò che dicevamo a proposito dei luoghi, in effetti nel film la casa di vacanza ha un ruolo peculiare…
Sì, ha contribuito anche la situazione in cui ci trovavamo. Abbiamo fatto le prove per due o tre giorni e girato tutto il film in una settimana. C’era una troupe molto piccola, dormivamo in quattro proprio nella casa. Io alloggiavo all’ultimo piano con una vista sul mare incredibile, il capo operatore si occupava anche di farci da mangiare. Ho adorato questo personaggio.
C’è un’attenzione particolare anche sullo stile: questo minidress nero pieno di cristalli, gli stivali neri, il taglio di capelli. Lungi da me fare come David Bowie canta in Space Oddity: “You’ve really made the grade / And the papers want to know whose shirts you wear”. Mi piacerebbe sapere però qualcosa in più della scelta dei costumi.
Benoît è venuto a New York e mi ha convinta a fare questo film. Nei giorni successivi gli ho inviato delle foto di Mia Farrow con dei look che mi davano un’idea di “piccolo uccellino ferito”, molto anni ’60. Avevo in mente anche gli abiti di Catherine Deneuve in Bella di giorno. Era una direzione che avevo in mente per il mio personaggio. Allora ho chiesto a Anthony Vaccarello, designer di Saint Laurent, se gli interessasse occuparsi dei costumi del film. Ha accettato molto volentieri, e tra l’altro in quel periodo stava proprio disegnando degli abitini che sembravano adatti al ruolo. A questo si aggiunge la pelliccia molto borghese. Convivono nel personaggio e si vedono già nei costumi due anime: quella molto femminile, ma anche quella fragile.
Proprio in questi giorni ho sentito, in un’intervista a Laetitia Casta per Vogue France, che le era capitato qualcosa di simile con Yves Saint Laurent e il suo spettacolo Clara Haskil al Théâtre du Rond-Point, è una tradizione che continua…
Davvero? Mi sembra sempre molto bello quando un ruolo viene studiato nei particolari e c’è un legame anche con la moda, penso anche a Audrey Hepburn con Givenchy. Sono molto amica di Anthony Vaccarello e gli chiedo spesso, così come mi capitava con Nicolas Ghesquière quando disegnava per Balenciaga, di vestirmi per quando vado in tour con la mia musica.
La musica, a proposito: abbiamo delle novità su questo versante?
Avevo cominciato ad avere delle idee durante la mia ultima tournée, mi ci è voluto molto tempo prima di concretizzarle e poi, quando la pandemia è iniziata, ero isolata a New York e ho scritto dei testi che ora però mi sembrano così vecchi… Non so come fanno i registi ad affezionarsi tanto ai loro soggetti e a lavorarci anni prima di vederne la realizzazione senza stufarsi. Ho bisogno di fare le cose in maniera rapida e spontanea. E ora, quando ascolto i pezzi che avevo già preparato, sento l’esigenza di rielaborarli. Sono al lavoro, comunque!
E ti manca il palcoscenico?
Sì. All’inizio, quando ho inciso l’album con gli Air, non mi piaceva esibirmi. Quando ho lavorato con Beck, anche se mi ha aiutata moltissimo, odiavo salire sul palco. Da quando sono stata in tour con Conan Mockasin le cose sono cambiate, ma solo con Rest, l’album di cui ho firmato i testi, visto che lo avevo scritto per mia sorella, mi sentivo legittimata davvero a essere lì. La scenografia era studiata per proteggermi, ero nel mio elemento, non mi sembrava di “fare finta”. Quindi ho capito che, se trovo il modo di mettere me stessa a mio agio, mi piace moltissimo stare sul palcoscenico. Adoro l’idea di avere la fiducia degli spettatori, che sanno cosa vengono a vedere. Non li tradisco.
Il pubblico vedrà il documentario che mostra molti aspetti intimi della famiglia, mi chiedo però: con tutto quello che già sappiamo di tutti voi, è ancora possibile mantenere qualcosa di segreto? Tenere uno spazio privato per sé?
Mi è stato chiesto spesso dall’uscita del film come mai una persona pudica come me abbia scelto di mostrare tutto questo sullo schermo. In realtà non rivelo nessun segreto: il pubblico sa che mia madre ha perso sua figlia Kate, o anche che è stata poco bene. Ho ancora dei giardini segreti, ci sono ancora dei segreti di famiglia.
Nella tua famiglia il talento è prevalentemente al femminile. Oltre a te e a tua madre, ci sono Kate, Lou…
E anche mia nonna. La mamma di mia madre era un’attrice! E ho sempre vissuto con questo sentimento di forza solidale tra ragazze. Siamo tre sorelle: un clan, si potrebbe dire. Anche se mio padre è stata una figura così emblematica e mia madre è stata la sua musa, io non ho mai pensato che le donne fossero meno in grado di fare delle cose, perché lei ci ha tenuto a sottolinearlo sempre. Anche nella famiglia di mio padre, di origine ucraina, mia nonna era molto forte. Questa figura, molto potente nella mia memoria, mi è sempre rimasta impressa.
Anche tu sei stata musa di suo padre: quanto è stata importante Lemon Incest per te?
Mio padre mi ha fatto un regalo importante, mi ha donato Lemon Incest. È stato un grande scandalo, e inoltre mio padre parlava sempre di me, mi ha messa sotto i riflettori da subito. Per fortuna ho avuto una carriera da attrice, per dimostrare che non ero solo sua figlia: ho potuto difendermi con il mio lavoro. All’inizio però non ho dovuto confrontarmi con la domanda scomoda per antonomasia: “Sono all’altezza del genio dei miei genitori?”. Ho iniziato a 12 anni senza farmi delle domande ed è stata una fortuna, altrimenti più tardi sarebbero sorti magari dei dubbi. Sono felice se i miei figli continueranno la tradizione senza porsi tante domande, perché è vero che ti guardano all’inizio come il “figlio di” o il “nipote di”, ma è sicuramente più facile cominciare una carriera in un settore artistico. Certo è che poi si è soggetti ad attacchi più feroci per lo stesso motivo.
La scena finale di tua madre al mare, con la tua bellissima dichiarazione d’amore, mi ha riportato alla mente anche I 400 colpi di Truffaut…
Sì, la scena sulla spiaggia fa pensare anche a me in qualche modo ai 400 colpi.