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Chi c’è dietro la musica da record di ‘Mare fuori’ (spoiler: Stefano Lentini)

Una lunga chiacchierata con il compositore e produttore artefice della colonna sonora e di tutte le hit, da ‘’O mar for’ in giù. Il processo creativo, il successo incredibile, il lavoro con Paolillo & Co. E quello che verrà

Foto: Rai

Ci sono delle canzoni che entrano nell’immaginario collettivo quasi per osmosi, riuscendo a toccare delle corde fondamentali, tali da renderle iconiche in un attimo. Chi non ha ascoltato almeno una volta ’O mar for, theme song del caso televisivo nazionale più importante degli ultimi anni, Mare fuori (qui il nostro commento ai primi episodi della nuova stagione, oggi arrivano su RaiPlay tutti gli altri, ndr) non ha probabilmente contatti con il genere umano da molto tempo. Dal palco di Sanremo (come accaduto anche quest’anno) sino nelle cuffie e nelle case di tutti gli italiani, ha serpeggiato questa canzone cantata ormai in ogni dove.

Ma questo è un fattore determinante per tutta la serie. Da Ddoje mane, scritta ed interpretata con Raiz, all’evoluzione emotiva di Cardiotrap (Domenico Cuomo), e ancor prima nel racconto di Chiattillo (Nicolas Maupas) e Naditza (Valentina Romani), così come nella formazione del personaggio di Crazy J (Clara), la musica è sempre stata una fonte narrativa costante per tutta la storia. Ma chi è l’artefice di tutto questo?

Stefano Lentini, compositore eclettico e di lungo corso, che ha collaborato alle musiche del film candidato a due premi Oscar The Grandmaster di Wong Kar-wai e ha poi firmato le colonne sonore di serie Rai tra cui La porta rossa e Studio Battaglia, ha creato un mondo sonoro a sé stante non facendosi condizionare da fattori esterni che potevano influenzare musicalmente un prodotto televisivo rivolto a un pubblico giovane. Soprattutto ha saputo intravedere una grande fucina di talenti musicali all’interno della serie come Matteo Paolillo, autore insieme a Lolloflow e di O mar for e Origami all’alba, così come di Clara, autrice di Origami all’alba e la scorsa settimana i big con Diamanti grezzi, di cui Lentini ha prodotto il brano tratto dall’ultima stagione di Mare fuori, Ragazzi fuori, facendo sì che gli stessi attori diventassero parte integrante del progetto compositivo.

Nonostante si ritenga più un motivatore che un creatore effettivo dei talenti musicali nati da Mare fuori, Lentini ha saputo portare una modalità di lavorazione cara alla scuola di Hollywood, dove composizione e scrittura delle canzoni procedono di pari passo, creando un connubio perfetto tra musica composta e canzoni, quasi mai realizzato in un prodotto nazionalpopolare nostrano.

In occasione dell’uscita degli ultimi episodi della quarta stagione e della colonna sonora originale, abbiamo incontrato Stefano Lentini, e abbiamo parlato con lui di tutto il mondo sonoro che contraddistingue Mare fuori. Dalla sacralità della musica all’interno dell’IPM alla sua funzione salvifica, e come dalla quarta stagione si sia effettivamente partiti da zero senza appoggiarsi più su ciò che la musica aveva già rappresentato nelle precedenti stagioni. Perché il coraggio di un prodotto televisivo è insito anche nella forza di sapersi rinnovare sempre.

Stefano Lentini. Foto: Ivan Bertello

Cosa ti aspettavi dalla musica di Mare fuori quando hai iniziato a lavorarci nella prima stagione?
Volevo superare la musica di genere, tentare di oltrepassare i cliché e riuscire a raccontare una storia drammatica in modo originale. L’approccio che abbiamo avuto rispetto alla musica è stato di grande autonomia e indipendenza. Insieme al regista, volevamo gestire la musica all’interno dell’IPM come un elemento centrale e fortemente caratterizzante, un vero e proprio protagonista della narrazione. Per questo non abbiamo mai considerato l’idea di utilizzare dei brani preesistenti e tanto più di affidarci a stili musicali mainstream: nel 2019 c’era l’ossessione per la trap. La colonna sonora doveva essere originale nel vero senso della parola. Dalla prima riunione che facemmo con Carmine (Elia, regista della prima stagione, nda) e Roberto (Sessa, il produttore di Picomedia, nda) emerse una parola che da un lato mi stimolava, dall’altro faceva paura per la sua complessità: bisognava creare qualcosa di “memorabile”. Per tentare di riuscirci l’unica via è rischiare, creare un’estetica specifica, non affidarsi ad alcuna emulazione. E così abbiamo deciso di procedere “inventando” il linguaggio musicale di tutta la serie: quello classico del pianoforte di Filippo e Naditza, quello del rap dei ragazzi del carcere e quello della colonna sonora extra-diegetica. È stata una scommessa, un tentativo, perché devi pensare che questo lavoro è sempre un tuffo nel mistero, non sai mai se alla fine ce la farai. Il motore della creazione della colonna sonora è sempre stato questo, ma ovviamente prevedere che ciò potesse dar vita a un fenomeno virale è qualcosa che era fuori dalla mia immaginazione.

La sigla ’O mar for, che hai prodotto e firmato insieme a Lolloflow e Matteo Paolillo, ha rappresentato sin dal principio l’elemento fondante e virale di Mare fuori, arrivando anche sul palco di Sanremo. Come avete ragionato in questo senso? Nasce prima della serie stessa? Ed è una cosa che vi aspettate fin dalla prima stagione? È raro trovare una serie italiana che abbia una theme song così esplicativa della storia stessa anche rispetto alla funzione di quello che è la sigla oggi, cioè una cosa che il più delle volte tendiamo a skippare.
Ti voglio rispondere citando Umberto Eco. Quello che stiamo facendo oggi quando interpretiamo il successo di Mare fuori è un lavoro ex-post. Quando Eco scuote il mondo pubblicando Il pendolo di Foucault parla proprio di questo: della capacità e del limite degli esseri umani di rintracciare le conferme della propria realtà nello stesso panorama in cui guardano, facendo corrispondere delle prove arbitrarie alle coincidenze del reale. Ognuno di noi, quando guarda un oggetto, lo analizza con i propri strumenti e tende a rintracciare solo le conferme delle cose che già conosce. Quindi interpretare il successo di Mare fuori guardando agli esiti del fenomeno virale ha poco senso per me. Ma se torniamo al 2019, a quando nacque effettivamente la serie, la storia e le sue sfumature sono molto peculiari. Mare fuori già esisteva come soggetto e sceneggiatura, le musiche avevano già una forma, poi ci giunse un provino di due ragazzi, uno dei quali un giovane attore sconosciuto e alle prime esperienze. Non era il provino di due artisti noti. Non era un prodotto discografico con le spalle solide di una major. L’atto di indipendenza è stato semplicemente parlarne con Carmine e dire: “Ok, ci crediamo, il pezzo è bello anche se totalmente sconosciuto e non ha nessun aggancio con il mercato della musica. Proviamo a creare l’aggancio sulla storia”. Secondo me è questa la forza e il valore che bisogna riconoscere a tutti gli artisti che si mettono in gioco mescolando le carte, rischiando. Riuscire ad individuare il potenziale nelle cose più inaspettate. Questo elemento crea nella musica l’innovazione.

Da lì si passa alla sigla…
L’idea di proporre una sigla in lingua napoletana era qualcosa di completamente folle. Oggi il napoletano va di moda e anche l’industria televisiva sta cercando di allinearsi a questa tendenza, ma cinque anni fa cantare in napoletano era come darsi la zappa sui piedi: in quanti avrebbero capito il significato del testo? Credo che in questo atteggiamento di indipendenza risieda l’unico e autentico potenziale dell’arte come espressione umana. Nella quarta stagione abbiamo deciso di ripartire da zero. La prima cosa che ho fatto quando ho letto la sceneggiatura è stata telefonare a Maurizio (Careddu, uno degli autori, nda) e dirgli: “Qua siamo in pericolo, perché abbiamo avuto un grandissimo successo con la terza stagione e non voglio ripetere ciò che ho già fatto, non voglio inseguire quel successo già confermato, voglio ripartire da zero e trovare una nuova via”. Era d’accordo con me, e questo mi ha liberato dal peso di dover creare nuovamente qualcosa di enorme successo, e mi ha fatto risintonizzare solo con la necessità di creare. È sicuramente un rischio enorme perché ovviamente sono dovuto ripartire da nuove visioni e temi. Avevo comunque un solido nucleo musicale alle spalle, un fulcro narrativo ed estetico fortemente identitario, ma ho voluto cercare una nuova via. Soprattutto mi interessa sempre che la colonna sonora possa esistere in maniera autonoma dalla serie. È questo che amo di questo lavoro: creare un’opera nell’opera. Mi piace pensare che la colonna sonora possa esistere come un concept album che sappia raccontare tutto della storia.

Da compositore, come vivi il rapporto costante tra la creazione di temi sonori che possano accompagnare i personaggi nella loro evoluzione e la composizione di canzoni originali che allo stesso tempo si legano strettamente alla narrazione? Come convivono questi due aspetti in te?
Quando inizio a lavorare sulla musica è come se volessi riscrivere il film dal suo principio. Quindi la prima cosa che faccio, in genere, è scrivere una suite che possa raccontare tutti gli elementi che conosco di quella storia. Questa prima fase mi porta ovviamente a scontrarmi con un limite e a sentire che manca qualcosa, così ho bisogno di creare una nuova suite che mi permetta di toccare altri contenuti che nella prima stesura mi erano sfuggiti. E vado avanti così finché non ho in mano tutta la storia musicale della serie. Le canzoni si annidano nel mezzo. Arrivano dalla necessità di raccontare qualcos’altro di ancora più specifico, e allora a quel punto ho bisogno della voce, del canto, delle parole. Questa necessità si sviluppa a macchia d’olio e mi porta a produrre cose molto diverse tra loro. Successivamente, tutta questa produzione porta alla creazione di un’ensemble musicale complessa che posso guardare con occhio più distaccato, e lì seleziono il materiale più consono e sviluppo determinati aspetti su cui non ero tornato in precedenza. L’approccio generale è questo, è la creazione un insieme costante.

L’elemento che mi ha sempre colpito di Mare fuori è la congiunzione tra la figura del compositore e il produttore stesso delle canzoni originali, elemento molto raro da ritrovare oggi: il lavoro è suddiviso solitamente tra compositore e music supervisor. Penso che la serie diventi anche un acceleratore di talenti che possono con la propria musica uscire fuori dal prodotto stesso.
Quando abbiamo iniziato a coinvolgere i ragazzi all’interno della scrittura delle canzoni, abbiamo chiesto che ci inviassero alcuni testi e musica a cui avevano pensato, scoprendo che c’era veramente un materiale molto interessante. Abbiamo replicato un po’ quello che l’AR fa in musica, ma riportandolo sul set. È totalmente vero ciò che dici, e ovviamente non è una cosa che abbiamo inventato noi: se ad esempio pensi ai film della Disney, le canzoni fanno parte in maniera solida della colonna sonora e possono diventare conseguentemente delle hit. Ce ne siamo resi conto successivamente che stavamo replicando ciò che avviene a Hollywood. Penso che questo processo sia nato principalmente dalla necessità e dalla voglia di sentirsi liberi rispetto a ciò che si compone. Quando Chiattillo metteva le mani sul pianoforte non volevo sentire Rachmaninov ma la sua musica. Quindi una sorta di Rachmaninov ma pensato assolutamente per lui e in continua connessione con la sua storia, in ogni snodo narrativo.

La musica in Mare fuori è presente sin dalla prima sequenza, dove vediamo Filippo durante un concerto. Anche all’interno dell’IPM la musica sembra essere l’unico elemento di espiazione e redenzione per i ragazzi. Pensi che la tua composizione possa avere anche un fine sociologico ed educativo? L’educazione musicale in qualche modo può essere l’espressione di una nuova via?
Questo per me è un tema delicatissimo e mi piacerebbe poter dire che la musica a priori salva, ma se guardo la realtà, non è così. La musica ha un grande potere di rinascita, salvifico, catartico. Ti può dare tanto facendoti scoprire una nuova realtà, metterti in discussione, farti crescere, portarti a provare emozioni che uniscono e celebrano l’essere umano nelle sue virtù più elevate. Non è un caso che tutte le religioni umane usino la musica nei propri rituali. Ma allo stesso tempo la musica può anche creare dei contesti di distruzione, perché nel nome di una certa tipologia di musica, o in una logica di gang, di gruppi in lotta, di valori assoluti da imporre, essa può fomentare l’odio e la violenza. Per cui non credo che l’arte a priori salvi. Penso sia anche un atto di onestà umana, intellettuale e spirituale riconoscere che questo sia un tema controverso. Hitler ascoltava musica classica, gli storici credono che fosse un intenditore ed era un appassionato di Wagner tanto da elevarlo a compositore del regime. Anche questo penso debba far riflettere. Non possiamo dare per scontato che la musica, in quanto arte, sia un miele che, spalmato ovunque, salvi le coscienze. Secondo me il punto non è cosa fai, ma come lo fai, sempre, in ogni contesto, e vale anche per la musica. La musica può farti crescere, può farti diventare una persona migliore, e dall’altro lato la musica che diventa accademismo e ideologia diventa noiosa e castrante. Tanti odiano la musica perché gli è stata imposta da piccoli. Tornando alla serie, gli sceneggiatori hanno deciso di rendere la musica il linguaggio salvifico di questi ragazzi, e ciò è sicuramente l’elemento che abbiamo abbracciato tutti. Naditza, ad esempio, riesce a scoprire il suo talento pianistico; Filippo si mette in discussione, capisce di non essere così speciale come la madre gli aveva fatto credere; Cardiotrap scopre di saper scrivere canzoni e lo scoprirà ancora di più in quest’ultima stagione insieme a Crazy J; ma anche Edoardo in un momento speciale di contatto con le sue emozioni scrive quella poesia meravigliosa creata da Gianna Caiazzo che è poi diventata la canzone O core mio.

Ti senti un po’ il “creatore” di tutti questi artisti che stanno crescendo all’interno di Mare fuori?
Creatore mi sembra una parola grossa (ride), sicuramente posso considerarmi un motivatore, nel senso che ho sicuramente dato spazio alle idee dei ragazzi aiutandoli a svilupparle all’interno di un processo musicale. Questo fa parte del mio lavoro quotidiano, ed è quello che faccio anche con la mia musica. Prendere un’idea e portarla sempre più in alto, adattarla, arrangiarla e produrla, così da conferirle un suono specifico e una conseguente identità. Fa parte proprio del lavoro di creazione della colonna sonora perché, come sentirai, questa composizione ha un suono molto specifico, di cui tra l’altro sono stra-soddisfatto forse come non mai nella mia vita. Questa quarta stagione è il coronamento sonoro di un sogno, ti direi di un sogno trentennale. Mi sento di aver raggiunto una qualità di realizzazione a cui ho sempre aspirato, e lo devo alle decine di persone con cui ho potuto lavorare, musicisti eccezionali, collaboratori, arrangiatori, solisti, la spettacolare Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e tutti i tecnici del suono che hanno saputo mettere il loro talento a disposizione di questo progetto.

Ascoltando l’intero lavoro che hai composto, si ha davvero la sensazione di entrare in un’opera sinfonica continua, che hai suddiviso in più movimenti corrispondenti alle stagioni. Come hai concepito il progetto nella sua interezza? Vedi anche tu in Mare fuori un’opera sinfonica?
È proprio così, perché come ti dicevo parto sempre da una suite, che nel tempo per me è diventato proprio un elemento cadine di ogni produzione, perché mi permette senza vincoli di tempo e genere di raccontare qualcosa. Per cui è la parola chiave con cui inizio a scrivere. Quando mi arriva una sceneggiatura e devo buttare giù un’idea sonora, non mi pongo la questione del tema musicale, non mi pongo la questione del genere, inizio semplicemente a scrivere e utilizzo un elemento che mi permette di collegare tutti gli elementi che per me hanno un senso. Nel caso specifico di Mare fuori, sono partito dalla suggestione dolorosa della vita in carcere. Appena ho letto la sceneggiatura della prima stagione e ho compreso che si trattava di una storia incentrata su dei ragazzi che vivono una realtà sospesa nel tempo, in un carcere minorile ispirato a quello reale di Nisida, è partito tutto da lì. Per cui la prima cosa che volevo rappresentare erano le mura, le finestre chiuse del carcere, quel senso continuo di oppressione. È proprio da questo incipit che ho scritto la Suite delle mura (Caro mare), uno dei primi brani che ho composto. Poi successivamente è nato il tema Canto dei canti. Mettendo insieme il tema della prigione, la Suite della mura e i temi dei protagonisti che sono nati successivamente, piano piano si iniziava a delineare un orizzonte musicale che raccontava tutta la storia. Ma a un certo punto è arrivata un’altra esigenza: la speranza. Dopo aver raccontato la drammaticità della storia avevo bisogno anche di toccare il coraggio di Carmine e la voglia di uscire dalle logiche del sistema criminale in cui è nato, e così è nata Ddoje mane con Raiz. Il nucleo si basa principalmente su un giro di pianoforte che ha preso vita con un arrangiamento molto dettagliato. Tic Toc (Non è andata così) è nata invece sull’idea di qualcosa di molto più cupo, più dannato. Lo sviluppo di tutti questi elementi alla fine crea una sinfonia, come l’hai definita tu, anche se per me forse rimane ancora una suite, o per meglio dire una suite sinfonica.

Nel processo sinfonico che hai sviluppato c’è la presenza perenne delle voci, la cui funzione sembra rivelare l’aspetto sacro della storia, così come del mare nella sua funzione ciclica e di tempo sospeso. Questi due aspetti così fisici come entrano nel tuo processo lavorativo per Mare fuori?
È stata un’intuizione di Carmine Elia. Quando eravamo proprio agli inizi della produzione mi ha fatto ascoltare un brano del compositore francese Gabriel Fauré in cui c’era una voce bianca accompagnata dall’orchestra, e mi ha detto: “Pensavo che forse dovremmo associare alla drammaticità degli eventi qualcosa che racconti anche la sacralità di un’anima dannata. Sono tutte anime, anche quelle dei criminali, e se proviamo a raccontarle anche sotto un altro punto di vista non facciamo solo il dramma nel dramma”. Lì per lì ho avuto un po’ di difficoltà ad associare Fauré alla musica che avevo già iniziato a scrivere. Anzi, ti dico la verità, la mia prima reazione è stata quella di non capire, non mi convinceva quest’idea. Poi ho scollegato Fauré dall’input che mi aveva dato il regista, e mi sono detto: “Proviamo a sacralizzare l’evento spirituale di quello che sta succedendo. Proviamo a guardare quest’anima dannata dall’alto, come un coro greco”. Lì è nata l’idea del coro di voci bianche. Siamo partiti in primis da Child, che ascoltiamo per la prima volta quando Carmine commette il suo primo omicidio, uccidendo Nazario Valletta, e così è nata l’idea di sviluppare un coro che potesse dare voce a queste anime. Nella quarta stagione il coro ritorna prepotentemente, diventando di nuovo protagonista e svolgendo un ruolo davvero importante. E parte di questa magia la devo all’impegno e alla dedizione dei Piccoli Cantori di Pozzo di Gotto diretti da Salvina Miano, con i quali ho lavorato in studio in maniera indimenticabile.

Per te la funzione del coro, da un punto di vista strettamente musicale e legato alla tragedia greca, ha uno scopo di salvezza o accusatorio?
Per me è un coro ambivalente. È un coro che può accusare, ma può allo stesso tempo salvare. Ad esempio, il brano con cui si apre la colonna sonora della quarta stagione è basato su una poesia sumera, la prima poesia conosciuta dal genere umano che risale a più di 4000 anni fa. Il testo incarna un omaggio all’antica dea mesopotamica Inanna, “sovrana di tutti i me”, e la cosa meravigliosa di questo inno, rivoluzionario dal punto di vista spirituale, è che non si riferisce alla dea del bene o del male, come siamo abituati a pensare avendo un’idea cristallizzata della realtà, ma è colei che è la madre delle cento e più sfumature dell’essere umano. I sumeri avevano declinato il genere umano in 100 modi, e all’interno di queste sfumature c’era tutto il possibile. Avevano una visione della realtà molto più realistica rispetto a quella che ci spinge a vedere le cose costantemente in due poli. Questa concezione mi ha colpito tantissimo e l’ho voluta utilizzare come elemento narrativo, come forma di consapevolezza da attribuire alla voce del coro. Questa dea è la signora di tutti i me e ti permette di comprendere le molteplici sfaccettature che ti rappresentano, così come il rapporto con il male.

Giulia (Clara) e Kubra (Kyshan Wilson) in una scena della quarta stagione. Foto: Rai

Come vedi questo progetto nei prossimi anni? Dove si potrà spingere ancora? Cosa potrà ancora raccontare nelle successive stagioni?
Parte sempre tutto dalla sceneggiatura, dalle visioni future che avranno gli sceneggiatori. Ovviamente ho parlato con loro e conosco a grandi linee quello che accadrà, ma allo stesso tempo so che devo attendere di leggere per capire quali saranno gli effettivi sviluppi futuri. Mi serve come nuova energia per ripartire, per capire cosa c’è in gioco. Sono sfumature che mi consentono di andare in direzioni che stupiscono anche me, in quanto del tutto inaspettate. Ad esempio, mi ricordo quando lessi l’arrivo di Kubra nella seconda stagione: quel personaggio mi colpì molto, e in qualche modo mi misi al lavoro subito su di lei, anche se non era l’elemento portante della stagione. Mi serve partire da piccole cose e credo che questa serie stia lavorando come agisce la musica stessa, creando un tunnel in una zona nebulosa che ti faccia vedere un panorama nuovo. Penso che stiamo facendo proprio questo. Siamo sempre in zone nebulose da bucare e andare ad esplorare.

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