La pioggia di incassi, di premi e riconoscimenti. E titoli di giornale, ogni giorno. E menzioni speciali. C’è ancora domani non ci ha soltanto stupiti: ci ha travolto. Siamo andati tutti al cinema a vederlo, cosa ormai rara. Ne abbiamo parlato tutti. Anzi, no: ne stiamo parlando ancora tutti. Anche per il drammatico intreccio con la realtà, con la cronaca della violenza spropositata che forse ora cominciamo finalmente a guardare in faccia: quella di genere, ovviamente. Ma assieme a Paola Cortellesi (con questo film alla sua prima regia), chi l’ha scritto questo film che risuona così forte in ogni angolo del nostro Paese? Furio Andreotti e Giulia Calenda, che da anni collaborano con l’attrice e regista: da Scusate se esisto! e Gli ultimi saranno ultimi ai due Come un gatto in tangenziale, fino alla serie Petra. Li abbiamo incontrati.
Furio Andreotti: L’altro giorno calcolavo che sono quasi 25 anni che io e Paola lavoriamo insieme. Ci siamo conosciuti che lei era giovanissima: io allora avevo una piccola compagnia teatrale – la Compagine, c’erano anche Claudio Santamaria, Libero De Rienzo, Lucia Ocone, Gabriele Mainetti – e l’avevo notata mentre interpretava una piccolissima cosa, e avevo subito pensato: “’Mazza quanto mi piace!”. L’ho poi conosciuta personalmente e ci siamo innamorati artisticamente uno dell’altra, senza mai più separarci. Abbiamo quindi incrociato la nostra carriera teatrale con quella di Massimiliano Bruno. A un certo punto, Paola ha cominciato a manifestare il desiderio di scrivere per il cinema, perché voleva mettere la sua passione per la scrittura e le sue idee dentro un film, cosa che non aveva ancora fatto. L’agente di Paola, Gianni Antonangeli, molto bravo e soprattutto intelligente, ha compreso che per avviare questo nuovo corso ci voleva una persona che avesse delle caratteristiche umane speciali, e soprattutto adatte a me e Paola. Perché nel cinema c’è una componente umana molto importante, molto più di quello che si possa pensare, soprattutto rispetto a quella che serve per lavorare in tv. Gianni ha avuto questa grande intuizione di portarci Giulia Calenda: letteralmente un appuntamento al buio, nel senso che lui ci ha detto “Venite nel mio studio che ci prendiamo un tè”, un vero blind date. E lei ci ha subito conquistati. Dotata di grande esperienza, il cinema è nel suo Dna, aveva voglia di lavorare a nuovi progetti. E da parte nostra c’era la massima disponibilità a imparare a scrivere con un tocco umano come il suo, che ci ha colpito tantissimo. Da quel primo incontro nasce Scusate se esisto! (2014, regia di Riccardo Milani, nda).
Giulia Calenda: Sì, Scusate se esisto! è il primo film che abbiamo scritto assieme. Questo aspetto che ha sottolineato Furio, ovvero la componente umana, quasi affettiva, è molto importante nel nostro gruppo: ma è importante in generale. Io e Furio ci interroghiamo tantissimo sulle differenze tra maschile e femminile, in ogni occasione: è molto significativo, ad esempio, che se una donna crea un gruppo di lavoro, lo fa circondandosi di persone a cui è legata affettivamente. Questo, nel film di Paola, è particolarmente evidente: ed è la componente che ha segnato la differenza nella qualità della scrittura prima, e del film successivamente. Antonangeli, quando ci ha presentato, aveva evidentemente percepito questa potenzialità prima di noi. Condividere un soggetto è una magia; scrivere assieme e avere la stessa voce è una magia. Io sento che quando lavoro con Furio e Paola sono più brava, perché loro tirano fuori il meglio di me e io spero di tirare fuori il meglio da loro. E un’esperienza umana e lavorativa così uno se la tiene stretta.
FA: Se ripenso a C’è ancora domani, mi tornano in mente qualche insalata di riso, qualche zucchina dell’orto di Paola, e “aspetta che ho portato i pasticcini”: questo mondo qui. Quando con Giulia abbiamo scritto Come un gatto in tangenziale (2017, regia di Riccardo Milani, nda) ho il chiaro ricordo di quando assieme a Giulia compravamo alla rosticceria sotto casa i pomodori col riso, tutti i giorni. Sembra quasi sia questo il giusto contesto in cui poi esplodono le idee.
GC: Questo aspetto del cibo non è marginale: proprio perché scrivere assieme significa vivere dentro un’intimità necessaria. Sai quanti fatti nostri ci sono nei film? Siccome noi tre siamo prima di tutto amici, appena ci vediamo cominciamo a parlare dei figli, delle suocere, di cazzate di ogni tipo. E partono subito degli “oddio”, “ma che ridere”, “questa la dobbiamo mettere dentro il film!”.
FA: Anche dentro Petra (la serie Sky cominciata nel 2020 per la regia di Maria Sole Tognazzi, nda) o in Nata per te (2023, regia di Fabio Mollo, nda), cioè nella scrittura più drammatica, opera la stessa alchimia interpersonale. Se ti matchi umanamente, hai modo di alzare il livello della scrittura.
Come potete definire il nostro mestiere? Ad esempio, che differenza c’è tra scrivere un soggetto o invece trarre una sceneggiatura da un testo scritto da qualcun altro?
GC: C’è ovviamente una grande differenza tra lavorare ad un soggetto originale e uno invece non originale. Può capitare di lavorare su un film tratto da un libro, con un regista che ti porta un’idea molto forte, e in questo caso tu devi aiutarlo ad articolarla, a renderla cinematografica.
FA: Ad esempio, ci è capitato di lavorare ad un remake con Favino (Corro da te, 2022, di Riccardo Milani, nda): in questo caso, hai a disposizione un attore così forte, così bravo, che ti diverti a pensare a come utilizzare al meglio tutta questa potenzialità espressiva. Esistono tante e differenti tipologie di elaborazione di un testo. E scrivere un libro, come ci è capitato recentemente con Il treno dei bambini (ora in lavorazione, regia di Cristina Comencini, nda), è cosa ancora diversa: ecco, lì forse la responsabilità la senti ancora di più.
GC: In quest’ultimo caso si tratta di pura scrittura. La sceneggiatura invece è una scrittura con gli occhi, anche se oggi molti romanzi sono scritti in una modalità che possiamo definire cinematografica, sembrano già concepiti per essere trasposti su uno schermo. Lo sceneggiatore traspone visivamente, al servizio della storia, sposa la causa completamente: non deve avere il problema di dire “questa cosa è mia”, altrimenti è meglio che cambi ruolo e diventi regista.
FA: Tu sceneggiatore, quando ti immagini una scena, puoi dare delle indicazioni, ma non troppo precise, se non sono utili alla storia, altrimenti sconfini nelle competenze della regia. A noi talvolta capita, quando visioniamo un film tratto da un nostro lavoro di scrittura, di notare un risultato lontanissimo rispetto a quello che ci eravamo immaginati. È una cosa molto bella, che la tua storia sia diventata qualcos’altro. Come giustamente sosteneva Giulia, non devi soffrire nel lasciarla andare per la sua strada. Per spiegare quest’importante aspetto del nostro lavoro, io cito spesso un aneddoto, non ricordo più chiaramente da dove l’abbia tratto, scritto da un famoso sceneggiatore. Raccontava che il regista insisteva sempre con lui, incoraggiandolo: dài, passa sul set! Ma quando vieni? E alla fine, quando ci andava, lui sceneggiatore si sentiva come uno spermatozoo il giorno del battesimo: fondamentale per la genesi, ma nessuno vuole sentire parlare di lui quando nasce il bambino. Io sul set mi sento proprio così, quasi fuori contesto: tutti che ti bloccano, che ti spostano, ma scusi lei chi è? non ti riconosce nessuno, ti scansano. Lì ci sono cento persone che lavorano al film da mesi e tu sei uno sconosciuto. Tu hai dato origine alla storia, hai fornito il tuo spermatozoo, e il film diventa un bambino che avrà una sua vita, qualcuno gli sceglierà i vestiti che magari non sono quelli che avevi pensato te, ma è necessario che sia così. Se sbrocchi su questo, meglio che tu passi alla regia: sono tanti gli sceneggiatori che hanno fatto questo salto. Compresa Paola, perché forse ad un certo punto soffri talmente questo passaggio che pensi “No, questo film lo faccio io”.
GC: Ricordo che noi abbiamo visto la prima volta C’è ancora domani in una piccola sala di montaggio, ed era esattamente come lo avevamo pensato. Io e Furio ci siamo voltati, in lacrime. Era senza musiche, senza niente, ancora provvisorio. E noi in lacrime, cosa che non succede mai! Era esattamente come lo avevamo concepito. E questo ci ha dato idea della coesione tra noi e dell’umanità che avevamo condiviso nel momento della scrittura.
FA: Di C’è ancora domani non riesco a dire esattamente chi ha pensato quella cosa o quell’altra. Ho soltanto l’immagine distinta di Paola sul suo terrazzo che aveva chiarissima in mente quest’idea: “Vorrei iniziare un film con una che si becca uno schiaffo solo per aver detto buongiorno”, tutto qua; e noi che pensiamo: sì, certo, è “una cosa”. E tutto il resto è una specie di massa di cazzate, flusso di coscienza, spunti folli, idee fantastiche. Cose che poi si passano al setaccio, e diventano un film. Ed è verissimo che eravamo scioccati da questa prima visione di C’è ancora domani: dalle facce degli attori, dalle inquadrature, da tutto quello che aveva messo in scena, Paola era riuscita a tirar fuori il racconto preciso di quello che ci eravamo detti. C’è da dire che quando scrivi assieme al regista, è lui stesso che ti permette di scrivere facendoti già partecipe della sua visione. Paola è anche la persona più corretta del mondo: quando provava con gli attori magari ci chiamava e ci diceva “Abbiamo provato la scena e ci sembra che questa frase suonerebbe meglio così, possiamo provare?”; e tu dicevi. “Ma Paola, certo!”. In questo Paola crede moltissimo nella scrittura, perché è una sceneggiatrice e quindi la rispetta sino in fondo.
GC: A volte, quando parlo con altri registi che ti chiamano dal set, ricordo loro che bisogna avere fiducia nella scrittura: se è scritto in quel modo c’è un motivo. Soprattutto nelle serie dove c’è una lunga continuità: abbi fiducia che questa cosa qui ha un senso!
Paolo Mereghetti conclude la sua recensione del vostro film con una frase che mi ha abbastanza sorpreso, sottolineando il significato politico del sorprendente finale: “Non tanto per regalare un possibile colpo di scena al film, ma per allargare verso una dimensione non più solo individuale ma finalmente collettiva e sociale”. Mereghetti, io ti amo tantissimo da sempre e quindi ecco, perdonami, ma io non ho avuto bisogno di arrivare al finale per pensare che questo film riguardasse la dimensione collettiva e sociale, e quindi politica.
GC: Tanta gente si è riconosciuta nel racconto, ci si è ritrovata, ha potuto identificare elementi della propria storia. E questo è molto politico.
FA: È di per sé questa la forza del cinema: fare politica non facendo politica. L’altro giorno con un amico ragionavamo sui femminicidi, e pensavamo a quale ci avesse colpito di più e del perché. E io ho pensato per esempio alla tragica storia della ragazza incinta, perché quella sembra un’apoteosi: ammazzare una donna incinta di otto mesi. E in qualche modo, giorno dopo giorno, ci si abitua – brutto riconoscerlo – al racconto di questo reiterato abominio: all’incirca ogni tre giorni una donna viene uccisa da una mano amica. Il cinema allora, come tutta l’arte, ha il potere di raccontare questa cosa in un altro modo. Magari ti colpisce di più il film di Paola che la notizia del femminicidio che magari scrolli rapidamente sull’homepage del quotidiano di turno. Adesso, non è che noi abbiamo la pretesa di aver fatto arte, per carità, però in generale la rielaborazione attraverso un altro medium può risultare molto interessante e più potente.
GC: Il nostro film tira fuori l’argomento, lo mette in piazza: questo secondo me è importantissimo. Anche perché tantissima gente subisce violenza e non lo comunica. Uno degli aspetti che amplifica questo problema dell’abuso è provare vergogna. La vergogna di subirlo, di sentirsi in colpa, il pensiero di averlo in qualche modo provocato, meritato. Il pensiero che questo riuscito frutto del nostro lavoro è lì nelle sale è emozionante, importante, perché è l’idea che poi una spettatrice può uscire e parlarne con un’amica. Se io fossi una donna che ha subìto qualcosa di simile ad un abuso, che è poi uno spettro molto ampio di violenza, anche verbale come uno stillicidio, penso che mi farebbe tanto bene vedere questo film, penserei che non sono sola, che non è un problema soltanto mio.
Ecco, io non sono una giornalista: intervisto solo persone che mi piacciono, a cui sono in qualche modo grata, che mi emozionano. In questo caso, il mio ringraziamento va a voi che avete creduto ed elaborato quell’idea dello schiaffo di Paola, al fondamentale contributo dei pomodori col riso della rosticceria, e a quel pensiero che le donne creino gruppi di lavoro basati sull’affettività, contro quella retorica del dire sempre che le donne insieme si fanno del male a vicenda e basta. Perché l’affetto senza stima e rispetto non dovrebbe esistere. E nemmeno il contrario: senza stima e rispetto profondi, non ci si dovrebbe unire in nessuna progettualità, nemmeno nel lavoro.