Ci siete? Pronti? Seguitemi. Boys & girls, liberate la testa da qualsiasi immagine e osservate attraverso i miei occhi il cielo più azzurro, più infinito che abbiate mai visto. Il silenzio è interrotto improvvisamente dal rumore assordante di un motore Merlin della Rolls-Royce, che, con un colpo di cloche-pedali, spinge i 700 cavalli di uno Spitfire Mark I della Royal Air Force inglese verso la sagoma minacciosa di un Messerschmitt Bf109 della Luftwaffe, l’aviazione tedesca. Rata-ta-ta, un mitragliamento improvviso, i traccianti che perforano il cielo, seguiti da un cabrare improvviso, mentre inquadro l’aereo nazista nel mirino. VROOM… rollando a destra non mi accorgo dello Stuka che mi segue dietro, che ra-ta-ta-ratatta, mi colpisce e abbatte, facendomi finire nelle gelide acque del Canale della Manica.
Mi tolgo il casco ed esco dalla carlinga dell’aereo, dopo aver goduto della VR Experience che ci viene offerta all’evento stampa di Dunkirk, organizzato con tanto di props cinematografici (il famoso molo), costumi originali e persino due Spitfire scala 1:1 situati nel Barker Hangar dell’aereoporto di Santa Monica. Dove, fra gli altri, mi ritrovo a intervistare Christopher Nolan e la sua banda di ragazzi: il musicalmente famoso Harry Styles, Fionn Whitehead, Barry Keoghan e Jack Lowden, a cui fa da chioccia il il premio Oscar Mark Rylance. Assente giustificato il distaccamento britannico: Tom Hardy, Kenneth Branagh e Cillian Murphy. Il film racconta l’evacuazione, realmente avvenuta, della spiaggia di Dunkerque, quando una flottiglia di centinaia di barche (a motore e vela, yacht e pescherecci), per lo più guidate da civili, sotto massiccio bombardamento della Luftwaffe, riuscì a portare in salvo attraverso il Canale le truppe degli alleati: 338mila soldati inglesi, belgi e francesi intrappolati sulla spiaggia. Se si fossero arresi, il futuro dell’Europa sarebbe stato ben diverso da quello che conosciamo. Dunkirk è stato scritto e prodotto da Nolan e dalla moglie Emma Thomas, con Joshua Levine, consulente storico e autore del libro omonimo.
C’è il caso che sia il miglior film di guerra di sempre (io l’ho adorato, è fantastico, una celebrazione di eroismo collettivo); c’e chi lo definisce il miglior film di Christopher Nolan; chi ancora, geloso, dice che non ha dialogo, che la musica è sincopata e non c’è alcun attore importante. Rivolgo queste domande a Christopher Nolan, seduto tranquillamente davanti a me, mentre l’hangar è pervaso da un… tic toc, tic toc… lo stesso ritmo dell’orologio che scandisce il tempo di Dunkirk, il tempo che avanza senza tregua e regola l’attimo tra la vita e la morte, il tempo della soffocante attesa, quello della colonna sonora da thriller composta da Hans Zimmer, che Nolan accosta agli effetti psicoacustici della scala Shepard, che dà allo spettatore l’illusione che la ripetizione angosciante salga e scenda all’infinito, come in un dipinto di Escher.
Il soggetto del tempo nei tuoi film è sempre esplorato in modo diverso: eterno in Interstellar, reversibile in Memento, che si avvolge su se stesso in Inception, mentre in Dunkirk è pura suspence. Perché il tempo è così importante, per raccontare una storia?
In Dunkirk si raccontano tre storie parallele, una vissuta in mare (l’evacuazione con le barche), una in terra (l’assedio alla spiaggia), e l’altra in cielo (la battaglia degli aereoplani). Tutte hanno uno specifico senso temporale: a volte vediamo cosa succede nel futuro, altre ritorniamo al passato. Per esempio, la sequenza aerea è vissuta dal pilota nel corso di un’ora, mentre quella sulla spiaggia si svolge nell’arco di una settimana. Difficilmente, quando racconto una storia, lo faccio in senso cronologico. In questo caso volevo creare un ritmo diverso da tutti gli altri film di guerra. Il bello del cinema è proprio la possibilità di dare al pubblico un senso soggettivo del tempo, diverso per ogni sequenza: permette di vivere esperienze temporali articolate secondo la propria percezione. Due ore di film possono raccontare un giorno o centinaia di anni. Questa è la struttura che avevo in testa sin dall’inizio del progetto.
Non è un film di guerra: racconto una situazione paradossale, per creare il massimo della suspense
È il tuo primo film basato su fatti realmente accaduti. Che storia volevi raccontare?
Come regista di suspense-action-thriller cercavo di immaginare una situazione senza via di uscita, paradossale. Volevo raccontare qualcosa di più importante, non solo una storia di guerra, ma quella di persone normali che hanno vissuto un’esperienza straordinaria. Centinaia di migliaia di ragazzi intrappolati in balia del nemico, che avevano solo due scelte disperate: arrendersi o essere sterminati. La fine del film è lontana da entrambe le opzioni, e questo significa che la storia si è sviluppata in modo straordinario. Non è un film storico o di guerra, per me è un suspense-thriller. Avrei potuto descrivere quello che è realmente accaduto, ma ritengo che il cinema non sia una questione di autenticità, ma di responsabilità morale verso i protagonisti. Quando ho fatto Batman avevo il fiato dei fan sul collo, mentre questo era un caso diverso: c’è chi ha rischiato la vita per il futuro del mio Paese, mi sono sentito in dovere di ritrarre le loro storie nel migliore modo possibile.
Non si vede mai il nemico, manca l’aspetto crudele e sanguinoso della guerra. Perché?
Abbiamo guardato tanti film per cercare di capire che storia volevamo raccontare. Steven Spielberg ci ha prestato la sua copia personale di Salvate il soldato Ryan, ancora straordinario dopo quasi 20 anni. Ma è già stato fatto, e io volevo raccontare un altro tipo di tensione. Cercavo l’apprensione di Hitchcock: suspense significa rimanere incollati allo schermo, mentre l’horror ti distrae, perché il sangue tende a fare allontanare lo sguardo. Io volevo invece fare appassionare il mio pubblico.
Nel film la musica è più importante dei dialoghi. Hai sempre pensato fosse l’elemento essenziale per guidare attraverso lo sviluppo della storia?
Sì. La sceneggiatura è stata scritta seguendo il fulcro del pensiero filosofico di Pitagora: armonia è un’arte come il suono, la parola, la poesia e la danza. Ho lavorato con David Julyan, che ha composto anche la musica di The Prestige, con cui abbiamo creato suoni nuovi, basandoci sullo Shepard Tone, creando l’illusione di essere sempre all’apice. La storia dell’orologio di mio nonno – navigatore di un Lancaster, sepolto in Francia – è stata fondamentale per costruire quel suono angoscioso, che Zimmer è riuscito a inchiodare perfettamente. Abbiamo costruito una struttura molto complicata, su vari livelli, che non ero mai riuscito a creare prima.
Com’è stato scelto Harry Styles?
Ha fatto un’audizione come tutti, si è meritato la parte, ha molto talento. Ero alla ricerca di ragazzi, non volevo 30enni che interpretassero dei 18enni come quelli che si sono ritrovati sulla spiaggia. Quando lo abbiamo scelto non sapevo che fosse così popolare tra i teenager, è stato mio figlio a dirmi che era famoso e che lo sarebbe diventato ancora di più, perché aveva appena inciso un album solista. Mi ricordo che quando scelsi Heath Ledger per la parte del Joker, molti mi chiesero se ne fossi sicuro. Uno degli aspetti più importanti del mio lavoro è scoprire quando qualcuno ha delle potenzialità per diventare un attore, soprattutto se ha poca esperienza. Nessuno pensava che David Bowie fosse una buona scelta per il ruolo di Nikola Tesla in The Prestige. Invece fece una performance straordinaria.