Ride di gusto, Gianni Di Gregorio, parlando di Lontano lontano (dal 18 giugno su RaiPlay). Forse perché intuisce di aver fatto il suo film migliore. Di aver trovato l’ispirazione giusta – quella del suo primo film, Pranzo di ferragosto (2008) – e di essere però andato oltre. Tanto da finire in un articolo del Guardian molto ripreso dagli addetti ai lavori del nostro cinema, anche per via della definizione che gli danno gli inglesi: “il Larry David italiano”. Tra il serio e il faceto, spiega il perché di questa maturità narrativa e visiva raccontando questo on the road da fermo. «Non me lo sono mai chiesto perché in questo film sembro – o forse sono – più sicuro e consapevole, mi ci fa pensare la tua riflessione. La verità è che non si soffre di più invecchiando, come troppi pensano e dicono, ma di meno. Si sanno dire più cose e capire meglio altre, sei più libero e hai meno remore. E questo artisticamente funziona. Raggiungi un senso di pacificazione con gli altri e con te stesso, che è fondamentale per una visione d’assieme, per andare dove vuoi. E nella maturità questo meccanismo funziona di più, dà bei risultati».
Insomma, può diventare adulto anche un classe 1949, soprattutto se nel suo esordio – a quasi 60 – si dipingeva ancora come un figlio, anche piuttosto succube. Si può, se si ha la capacità di rimanere bambini e con quel viso che è allo stesso tempo antico nei lineamenti e infantile nei sorrisi e nelle espressioni. Di Gregorio qui è attore – protagonista che fa da generosa spalla a due fuoriclasse come Giorgio Colangeli ed Ennio Fantastichini, al suo ultimo film – e regista. Ma, a differenza del passato, trova uno sguardo largo, non gira attorno a se stesso, pur nuotando sempre in quel microcosmo romano che prova ad abbandonare per un Eldorado defiscalizzato durante tutto il film. Eppure qui l’unico vero viaggiatore, altro che questi «vecchietti velleitari, pensionati e romani» è un migrante. «Non sono Clint Eastwood, che in The Mule rivendica di aver sempre detto e fatto quel che gli pareva. Io di paure ne ho sempre avute, ma ora mi rendo conto che sono molte meno, o non mi toccano. Ho più empatia con gli altri, riesco a guardarmi intorno a sentire di più il dolore e la gioia attorno a me».
Per questo, attraverso questi uomini sconfitti e (in)dolenti alla ricerca di un giusto rifugio dalle proprie miserie capitoline fatte di precariato economico e una comunità che si sfalda, Di Gregorio per la prima volta si fa politico, sociale. E, senza tradire la sua poetica – fatta di vino bianco, sguardi obliqui, romanità burbera e figure maschili fragili e guascone –, non si tira indietro di fronte alle crepe dell’attualità. «È nata con la storia la voglia politica del racconto, ma c’era in me l’intenzione, ero sconvolto di quanti pensionati volessero partire per andare all’estero. Nelle mie ricerche, durate parecchio, in fila alle poste e ai giardinetti, uno su due, tra quelli che avevano smesso di lavorare, mi confessavano questo sogno di andare all’estero. E non ho avuto paura, ho voluto raccontarlo con più onestà possibile, questo desiderio fatto di necessità e rivalsa. È il mio film più politico, hai ragione. Me ne sono reso conto mentre stendevo la sceneggiatura. Mi stavo divertendo tanto a scriverlo, sentivo la forza della commedia in questa storia. Ma poi vedevo alla tv le notizie sugli sbarchi, ne ero sconvolto, la realtà mi ha investito con tutta la sua violenza, era più grande di me e del film, ed è nato il quarto personaggio, il ragazzino africano, l’unico vero viaggiatore. È stato importantissimo per me. Non c’è ideologia in Lontano lontano, semplicemente una riflessione sul mondo».
C’è anche uno sguardo su una generazione che è stata falcidiata dal Covid, e che in quest’opera che è figlia di un tempo che ora sembra lontano – senza distanziamenti sociali, con il quartiere e l’amicizia che sono anche gesti di affetto e condivisione, in cui si può anche regalare la propria doccia a chi è più sfortunato di te – appare come è sempre stata negli ultimi anni: emarginata. Anche prima di questo virus maledetto, non abbiamo fatto abbastanza per i nostri vecchi. E Di Gregorio, con il garbo e la sincerità che lo contraddistinguono lo dice. Dal suo Professore, che si rammarica di una pensione risicata dopo aver tirato su a «latino e greco centinaia e centinaia di giovani», al personaggio di Roberto Herlitzka, che si fa docente di Economia e tiene una lezione su come siamo messi e su come una seconda vita alle Azzorre potrebbe risolvere molto, perché questo Paese non si meritava la nostra prima vita, figuriamoci la nostra terza età. Ora li abbiamo lasciati morire, ma prima li abbiamo costretti a sopravvivere. Anche per questo il buon Gianni ci ha messo tanto tempo a costruire Lontano lontano. «Cinque anni. Ci ho messo tanto a scriverlo, a interrogare persone, a imparare dalle vite altrui. Ora ce l’ho nel cuore, in qualche modo per me questo lavoro è un punto d’arrivo». Tre ragazzi invecchiati, sodali e compagnoni, perfettamente integrati nel raccontare tre romanità vicine ma diverse, linguisticamente, esteticamente, persino nei movimenti, cercano una seconda possibilità per inseguire un sogno, ma senza volerlo realizzare. Perché basta immaginarlo e sapere che è possibile, per poi rimanere nella propria tana, quartiere, bar San Callisto che alla fine, col broncio, il credito te lo fa, perché i figli di Roma e di Trastevere non si lasciano soli, magari si mandano a fanculo, però una mano ai poveri diavoli come te la dai sempre. Come quella doccia occupata tutte le sere da chi una casa non ce l’ha, Giorgetto che si arrabbia ma si conserva gli elefantini di giada che l’ospite gli regala e, quando ci scappa un avanzo di sacchetto di frutta – il suo pranzo e cena, perché con 420 euro di minima giusto fruttariano puoi diventare –, glielo dà. O chissà, magari lo compra proprio per lui.
E poi c’è Ennio Fantastichini, qui cialtrone e malinconico, al meglio di sé, attore sopraffino che dà tridimensionalità al personaggio di Attilio – il più stereotipato all’apparenza, il più sfaccettato alla fine – e a tutta l’opera. «Una profondità, un’energia pazzesca Ennio. Nessuno di noi sapeva che stesse male, neanche lui, c’era solo quell’affanno che non se ne andava e che non a caso, in alcuni frangenti, ho pure lasciato anche nel montaggio finale». Proprio all’ultimo, quest’attore meraviglioso ha regalato le sue prove più belle degli ultimi anni. Qui, in Lontano lontano e nello splendido La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu. «Un uomo, un interprete magico, Ennio è stato il motore di tutto e tutti. Ti racconto una cosa. Giorgio era ispirato al Vichingo, un uomo che ho amato come un fratello, realmente esistito. Era un ruolo di aria, evanescente, fatto di suggestioni, e Colangeli l’ha riempito meravigliosamente. Quello che non sapevo è che pure per Attilio Ennio si è ispirato a un amico scomparso, un fricchettone con la moto a cui era legatissimo. Senza saperlo Lontano lontano era – no: è – una combinazione d’amore e sentimenti, di ricordi e affetti. Non parlo solo di cinema, ma di umanità. A un certo punto, avevamo puntato sul tavolo tanto di noi stessi, ben al di là dell’aspetto professionale». Poi, mentre il film prendeva corpo, la tragedia: Ennio Fantastichini muore. «Ricordo quel giorno, eravamo tutti distrutti. E quanto mi dispiace che non abbia rivisto il film. Vorrei essere capace di saper raccontare la sua tensione morale, la sua etica, la sua generosità, il suo cuore grande e potente come quel fisicone. Con questo dolore, però, mi porto dietro un bellissimo ricordo: l’abbraccio del figlio Lorenzo, che l’anno scorso prese, al Festival La Valigia dell’Attore alla Maddalena, il premio Volonté assegnato postumo al padre. Quando ha visto il film, mi ha stretto e mi ha detto: “Mi hai fatto il più bel regalo nel farmelo rivedere così”. Una frase, un gesto che mi porterò dentro sempre».
E mentre noi ci godiamo questo gioiello su RaiPlay, lui ha deciso di non voler «aspettare altri sette anni perché ne vediate un altro. Ora vorrei farne un altro subito, appena sarà possibile tornare sul set. Ho un’idea pazza, che confesso per la prima volta qui: ho voglia di mostrare una storia sull’amore alla mia età, anzi a qualunque età. Io le donne di solito le sogno, al massimo le sfioro. Non ho mai pensato di essere in grado di capirle, figuriamoci di raccontarle, mi spavento solo a pensarlo questo film. Ma io, che intorno alle donne ci giro sempre, devo entrare e mettermi alla prova in un mondo infinito e interessantissimo. Il loro». Certo, con le norme anti-Covid sarà difficile anche solo sfiorarle fisicamente, caro Gianni. Ma siamo sicuri che troverai il modo. In fondo, ci hai saputo raccontare tre irresistibili viaggiatori le cui colonne d’Ercole si stagliano al capolinea degli autobus di Tor Tre Teste.