C’è un aspetto particolare della faccia di Claire Foy: cambia di continuo, con alti e bassi che passano su di lei come una tempesta che si avvicina in fretta. Con una sola occhiata riesce a trasmettere instantaneamente la caratura emotiva dei suoi personaggi. È una qualità che la rende una delle più affascinanti attrici della sua generazione. Ma lei non lo ammetterà mai. «Non so se è il suo aspetto british o che altro, ma la sua modestia è straordinaria», dice Damien Chazelle, che l’ha diretta nel biopic su Neil Armstrong, First Man. Ed è vero: ai complimenti per l’Emmy vinto a settembre, risponde con timidezza che il suo discorso era terribile, la sua padronanza un disastro. «Mentre camminavo sugli scalini pensavo di continuo, “Darai il peggio di te, Claire. Sarà terribile”», dice, con la faccia pallida che arrossisce al pensiero. «“E poi salirai lì sopra e penserai che non dovresti essere lì, che sei una persona terribile, che ti odieranno tutti”», sorride, ma non sta scherzando.
Nonostante questa profonda consapevolezza, Foy ha una risata facile – acuta – che esce spesso mentre beviamo un tè in un hotel di Manhattan a metà ottobre. Gli altri clienti stanno sfoggiando quella impassibilità tutta newyorkese, fingendo di non notare che c’è una celebrity tra di loro. O, più probabilmente, non hanno collegato questa morettina alla stoica Regina Elisabetta che interpreta in The Crown. È stata quella performance, una prova incredibile di emozioni non verbali, a catturare l’attenzione di Chazelle. «Credo che possa fare di tutto», dice con fervore. «Ha il fattore Meryl Streep. È un camaleonte». Forse la sua natura è da collegare alla sua infanzia: a 13 anni, Foy, nata a Stockport e cresciuta nel Buckinghamshire, venne colpita da artrite giovanile. A 17 anni, i dottori le trovarono un tumore benigno dietro l’orecchio. Un’operazione riuscita, ma che cambiò per sempre la sua vita. «Fin da quando sono giovane ho capito che il tuo corpo ti può abbandonare», dice. «Ha condizionato la mia vita, ma allo stesso tempo è stata una benedizione, perché capisci quanto è bello vivere. Ho voglia di fare cose finché sono viva». Sorride.
In First Man, Foy interpreta la moglie dell’astronauta, Janet. Sarebbe potuto essere un ruolo da gregario, ma l’attrice riporta il film sulla terra, trasformando le vicende che si svolgono dentro casa – dove lei e Neil (Ryan Gosling) non sono tipi famosi, ma genitori devastati dalla perdita inspiegabile di un figlio – in avventure al pari dei viaggi spaziali. Foy, che è già in odore di Oscar per la sua performance, ha passato ore ad ascoltare interviste di Janet e ha lavorato con due coach vocali per trasformare il suo accento brit in una parlata del Midwest. Janet è morta lo scorso giugno, a 84 anni, prima che Foy abbia avuto la possibilità di parlarle di persona. «Pensavo di poterla conoscere un giorno, quindi quando è morta ho avuto una strana sensazione», dice. «Non l’ho mai incontrata ma in un certo senso la conoscevo. Mi sono emozionata molto».
Prima delle riprese, Foy e Gosling, assieme ai due attori che interpretano i loro figli, sono andati in una sorta di campeggio per famiglie, un paio di settimane passate insieme per otto ore al giorno, provando di continuo, filmati da Chazelle. La chimica tra di loro è stata così immediata che parte di quelle sessioni sono finite direttamente nella versione finale. Chazelle dice che a ogni take Foy stupiva tutti: «Quando finivamo mi ritrovavo sempre senza fiato. Il mio direttore della fotografia aveva le lacrime agli occhi. Ma lei saltava su con il suo accento brit e diceva che era da buttare via. Si scusava».
Recentemente, Foy si è trasformata nella ragazza con il dragone, Lisbeth Salander di Millennium – Quello che non uccide. Sono passati sette anni dall’ultimo adattamento dei libri di Stieg Larsson su un’hacker con una violenza alle spalle, che vendica le donne che sono state stuprate. Per usare un eufemismo, i tempi sono maturi per riportare un’antieroina come Lisbet sul grande schermo. «Quando stavamo girando è arrivato il movimento #MeToo, ed ero felice», dice.
Con scene in motocicletta, combattimenti e un sacco di pistole puntate in faccia, il ruolo di Foy è il più fisico della sua carriera, oltre che un’opportunità che le è piaciuta non poco. «Dovevo essere nelle mie gambe, piuttosto che nella mia testa», dice. «Ho amato molto gli allenamenti e le lotte. Ho preso a ginocchiate un sacco di palle! Mi ha cambiato la vita, adesso so di non essere fisicamente incapace come pensavo». Ma apprezza anche il fatto di poter interpretare il ruolo di una che fondamentalmente è un’antisociale. Lisbeth è profondamente sbagliata. «Lo fa per le donne», dice Foy. «Lo fa per punire gli uomini. Ma non appoggia niente, nessun movimento! Fa il contrario di ciò che la società vorrebbe. Guarda nei computer degli altri e vede i loro segreti. Non giudica nessuno, fa sesso con chi vuole, quando vuole».
È sicuramente ben lontano dai personaggi di Buckingham Palace. «Per me, interpretare la Regina è molto faticoso«, dice. «Mi ritrovo molto di più nella vita di Lisbeth, alla fine». E quando si parla di famiglia, si mette sull’attenti. Mentre accenniamo brevemente a sua figlia, tre anni e mezzo, avuta con Stephen Campbell, mette le mani avanti e interrompe con classe il discorso. È molto più felice quando parla di cosa ci potrebbe essere dopo. «Voglio sfidare me stessa, mettermi in posizioni rischiose, dove non so cosa potrebbe arrivare», dice. «Mi piacerebbe continuare a scioccare le persone. Forse farò ancora più parti complicate. Così la gente si chiederà che problemi ho».