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Claudia Gerini: «Se fossi andata in America avrei vinto più premi e sarei molto più ricca»

Alla Festa di Roma con i Manetti Bros. (‘U.S. Palmese’) e nel docufilm su Califano (‘Nun ve trattengo’), presto in sala con ‘Il corpo’ e in tour con un’orchestra d’archi. L’attrice sembra non fermarsi mai e ci spiega la sua vita rock and roll, tra passioni, nostalgie e un rimpianto: la critica italiana. E non stupitevi se la vedete ballare in un locale di Ibiza...

Foto: Dirk Vogel

Claudia Gerini è «materiale infiammabile». Non solo perché è cintura nera di taekwondo, quindi occhio ai malintenzionati. Oppure quando ammette, nonostante sia madre di due figlie di 20 e 15 anni, che oggi si sente più rock and roll che mai, dal momento che va «a ballare al DC10 di Ibiza con il mio compagno». O ancora, da «bassista mai sbocciata» che però suona «solo in occasioni bombastiche» – cioè «di fronte un pubblico dal milione in su» – mentre ci racconta della passione che spazia da Claudio Baglioni a John Coltrane fino ai Massive Attack. Per questo, senza demonizzarla, la trap non riesce a considerarla «musica che ti possa far emozionare o viaggiare con la mente». Poi ci sarebbe il cinema, dove la sua filmografia è composta da oltre 70 film (gli ultimi sono U.S. Palmese dei Manetti Bros., presentato alla recente Festa di Roma e in uscita nel 2025, e Il corpo di Vincenzo Alfieri, che invece arriverà nelle sale il prossimo 28 novembre), senza contare la regia (Tapirulàn è del 2022), il doppiaggio, i videoclip, il teatro e la tv. E sicuramente abbiamo dimenticato qualcosa.

Come ha fatto a realizzare così tanti progetti e far sì che il telefono non smettesse mai di squillare? «Non essere presuntuosi e provare a rischiare». Sintetica e inappuntabile. In questa intervista, dove sprizza joie de vivre in ogni risposta, ci ha spiegato anche la sua infanzia bucolica in mezzo alla natura, i genitori inclusivi, gli irresistibili scherzi di Gianni Boncompagni, la nostalgia per la sperimentazione del passato, che se ha un problema di salute chiama prima Carlo Verdone del Pronto Soccorso, la battuta fulminante di Franco Califano al primo incontro (“Ahò, ma come ha fatto Zampaglione a pija’ una figa come te?”) e come mai, nonostante ruoli iconici e il successo di pubblico, si senta sottovalutata dalla critica: «Sono convinta che se la mia carriera l’avessi deviata in America avrei vinto più premi e sarei anche molto più ricca».

Claudia, se chiudi gli occhi qual è il primo ricordo da bambina?
Da piccola stavo spesso a casa dei miei nonni, un pochino fuori Roma. In un quartiere che quarant’anni fa si stava ancora sviluppando. Era molto verde, con una casa con tanti campi intorno. Avevamo tre cani, due gatti, il vigneto, il piccolo orto di mio nonno. Il primo ricordo è proprio in quel vigneto di uva fragola, che era di pochi filari, solo per noi. La prima è questa immagine nel verde che andavo a prendere l’uva fragola per mangiarla, dolcissima, me la spremevo in bocca togliendo la buccia.

Poi, giovanissima, sei entrata nel mondo dello spettacolo. Già a 13 anni, nel 1985, vinci il concorso di bellezza Miss Teenager. C’è qualcuno che ti ha spinto verso questo ambiente, oppure è qualcosa che è partito da te?
È partito da me, ce l’avevo dentro il cuore. I miei genitori non facevano parte del mondo dello spettacolo, nonostante mio padre fosse un grande appassionato di cinema. Una vera enciclopedia dei film. Se gli dici un titolo anche degli anni ’50 sa tutto, chi l’ha girato, chi l’ha interpretato. Anche se non era il suo mestiere, perché aveva un lavaggio di auto. Mia mamma ha di suo una grande verve, è bravissima nelle imitazioni. Forse lei mi ha tramandato la capacità di osservare, benché fosse un’impiegata. Ho cominciato con la danza, avevo una gran voglia di imparare e il desiderio di far parte dello spettacolo da quando ero bambina.

E i tuoi genitori cosa ne pensavano?
Hanno avuto me e mia sorella molto giovani, per cui erano ancora liberi, spensierati, andavano a ballare con gli amici, la loro comitiva comprendeva donne, uomini, gay, quindi era già particolarmente inclusiva. Da questo humus sono uscita io, che mi definisco performer, attrice, ballerina, cantante. Anche se poi i primi successi sono arrivati con le commedie.

Il papà critico cinematografico ad honorem come giudica la figlia attrice?
Oltre a essere il mio fan numero uno dice sempre che sono molto naturale, autentica, che sembra che io non reciti mai. Mi sembra il complimento più bello per un’attrice.

Foto: Dirk Vogel

Il tuo primo incontro importante nell’avvicinarti allo spettacolo è stato quello con Gianni Boncompagni. Non vorrei tornare, come hai già fatto spesso, sulla vostra storia, quanto invece sugli infiniti aneddoti che in tanti raccontano di lui. Ce n’è qualcuno che ti va di condividere e che testimonia con quale spirito prendesse la vita e il lavoro?
Gianni era il classico toscanaccio, gli piacevano gli scherzi. Aveva un’ironia speciale. Si divertiva a vedere la vita sempre dal lato giocoso. Un vero fanciullo. A me non faceva scherzi, però ricordo alcuni episodi assurdi. Uno è di quando andò in tournée con Raffaella Carrà in Giappone. Per l’occasione crearono un plastico dello stadio nel quale si sarebbe dovuta esibire e, prima dello spettacolo, cominciarono a spiegarle da dove sarebbe dovuta entrare, qual era il palco e poi l’uscita. Raffaella era super professionale, un po’ secchiona, e i giapponesi serissimi. Mentre Gianni, che odiava prendersi sul serio e si annoiava davanti alle spiegazioni troppo lunghe, di fronte a questo plastico cominciò a fingere di credere che Raffaella dovesse entrare in quella miniatura. Con i giapponesi che cercavano di puntualizzare che era solo una riproduzione. Ma lui, facendo il finto tonto, continuava a ripetergli che non ci sarebbe entrata in quel plastico. Una scena da morire dalle risate.

Piuttosto paradossale, soprattutto perché si scontra con l’educazione nipponica.
Infatti, sempre in Giappone, mi ha raccontato che di fronte a degli alberghi di lusso si appostava dietro ai signori che leggevano il giornale e gli faceva dei coppini tremendi sulla testa: “Ueee, Giuseppe…”, come se avesse riconosciuto un suo vecchio amico. Ma quando questi si giravano si scusava, dicendogli di averli confusi per un altro. Siccome i giapponesi sono educatissimi, nessuno si arrabbiava. Un altro scherzo famoso era quello della tosse. Entrava nei negozi con alcuni amici, tra cui Bracardi, dopo aver chiesto qualcosa da vedere, iniziava a tossire e non la finiva più nell’imbarazzo dei commessi. Insomma, delle cazzate da bambino che però testimoniavano una sua innata creatività. Oltre che inclusività.

Non aveva pregiudizi?
No, infatti a Non è la Rai, se ci pensi, c’erano ragazze di tutti i tipi: alte, basse, magre, più in carne e di ogni provenienza. C’era di tutto. Era davvero avanti cinquant’anni rispetto a oggi.

Restando alla tua esperienza a Non è la Rai, tra critiche feroci ed elogi sperticati che ha generato quella trasmissione, non è incredibile come rappresentasse un modo di concepire l’intrattenimento che oggi, probabilmente, risulterebbe troppo provocatorio?
Adesso sono tutti format. Siamo tutti formattati. C’è poco spazio per la creatività. C’è meno sperimentazione, a parte qualche programma di rottura. Ma in generale, dalla tv al cinema alla musica, c’è molto meno coraggio. Anzi, stiamo tornando indietro in questo momento.

Hai un po’ di nostalgia per il passato rispetto a quella libertà di sperimentare?
Eh, come non ammettere che ho nostalgia. Tantissima! Come nella musica, se ne produce anche di buona, però non c’è paragone rispetto a prima. Le mie figlie ascoltano musica del passato, questo sguardo è generale nei giovani che cercano musica di qualità. C’era più potenza nell’esprimersi, meno vincoli commerciali e c’era ricerca attraverso gli strumenti.

Se sentissi le tue figlie ascoltare la trap inizieresti a preoccuparti?
Ascoltano anche la trap di vari artisti. Io pure ascolto la trap, non bisogna demonizzarla. Mi capita di sentire pezzi di Geolier o di Tony Effe, ma non considero quella come musica che ti possa far emozionare o viaggiare con la mente.

Qual è la tua musica preferita?
Ho amato tantissimi artisti. Ho un amore viscerale per Michael Jackson. Sono un’appassionata di big band, amo il rock e il jazz. Ho adorato gli U2, gli Oasis, i Red Hot Chili Peppers e un sacco di altri gruppi. Sono piuttosto onnivora. Spazio da Claudio Baglioni a John Coltrane, compresa la musica elettronica. Ho consumato gli album dei Massive Attack.

La tua passione per la musica ti ha portata a produrre un disco, Like Never Before, nel 2009.
Prodotto dai Tiromancino. Ero appena diventata mamma. Conteneva tutti brani tratti da colonne sonore di film che per me hanno avuto un particolare significato. Ma c’era anche un pezzo scritto da me, che si intitola Niña de luna. Di solito non scrivo, sono una bassista mai sbocciata. L’aspetto buffo è che ho suonato solo in occasioni bombastiche, come a Sanremo con i Negrita o al Primo Maggio con Paolo Rossi. Insomma, suono poco ma lo faccio solo quando ho di fronte un pubblico dal milione di persone in su.

C’è chi ha centinaia di live alle spalle e tutti insieme non arriva al milione di spettatori.
Ai tempi Federico Zampaglione mi prendeva in giro: “Ma non ti vergogni, che neanche sei così brava e ti esibisci di fronte a immense platee?”. Ma io, come in tutto, mi butto.

Il tuo primo successo, come ricordavi, è arrivato con una commedia, interpretando nel 1995 Jessica nel film Viaggi di nozze, diretta da Verdone. Del vostro rapporto avete parlato spesso, ma qual è un pregio e un difetto di Carlo?
Come persona è un uomo stupendo: intelligente, ironico, affettuoso, dolcissimo. E come artista è uno dei pochissimi che sono riusciti ad attraversare tre decadi al cinema cinema come autore, regista e attore. È il più longevo e anche il più versatile di tutti.

E il difetto è quello noto, cioè che forse è un po’ troppo ipocondriaco?
Sì, e che non vuole mai uscire di casa. Nella vita privata è un po’ orso.

Però è anche impegnato nelle ormai famigerate consulenze mediche.
È vero, sarà per quello che, oltre al cinema, esce poco. Io stessa mi affido sempre a lui appena ho qualcosa. Prima chiamo Carlo e poi il Pronto Soccorso. E lui mi smista tra i vari medici.

Nella tua lunga carriera cinematografica, c’è mai stato un momento in cui il telefono non ha squillato?
Anche pensandoci, in realtà no. Sembra incredibile, però dopo Viaggi di nozze no. Ci sono stati periodi più intensi e altri meno, ma il telefono è sempre squillato. Sono convinta che dipenda in parte dalla fortuna, così come dall’atteggiamento rispetto a questo mestiere. Io sono sempre stata aperta a tante cose, non solo al cinema. Al teatro, alla musica, alla tv. Ci vuole molta umiltà e poi, come penso di aver fatto, ho tirato fuori il meglio da quei lavori. Non basta avere il ruolo, è necessario anche saperlo far vivere. Bisogna saper dire di no, infatti la carriera, come è risaputo nell’ambiente, si fa più con i no che con i sì. Però non bisogna essere presuntuosi e provare a rischiare, a uscire dalla comfort zone. Così il telefono suona sempre.

C’è un no che hai detto e che a posteriori ti sei pentita di aver pronunciato?
Ci sono stati dei film che, vedendoli una volta realizzati, li ho considerati carini mentre prima non mi sembravano così validi. Ma non mi sono mangiata le mani per aver detto qualche no.

Hai ammesso che un no ricevuto ti è dispiaciuto: «Ho sofferto quando Paolo Sorrentino in The Young Pope prese Cécile de France e non me». Quando lo vedi glielo rinfacci?
No, assolutamente. Anzi, gli dico che lo stimo molto. Non ho risentimenti. Il risentimento è un file che davvero non ho nel mio “computer”.

La tua filmografia non è solo vastissima, ma anche ricchissima di ruoli importanti. Meno di premi. Pensi di essere stata un po’ sottovalutata dalla critica italiana?
Forse sì. Ci ho pensato, sai? Ma perché l’Italia non è un Paese che ti esalta da questo punto di vista. Danno tutto per scontato. Ti dicono che sei brava e poi sorvolano. Ho avuto tante recensioni positive e ho vinto il David di Donatello come miglior attrice non protagonista (per Ammore e malavita dei Manetti Bros., ndr), ma su un centinaio di film. Non è il numero di pellicole che hai girato che conta. Ci sono attori immensi che non hanno vinto niente. Però dai critici sì, non è che mi abbiano mai esaltato tanto. Quando invece ho lavorato all’estero, seppur in ruoli non da protagonista come in John Wick, mi hanno osannato come se avessi fatto chissà cosa. Sono convinta che se la mia carriera l’avessi deviata sull’America avrei vinto più premi e sarei anche molto più ricca.

Mai dire mai. Sabrina Impacciatore ha trovato l’America, idealmente e materialmente, dopo i cinquant’anni.
Questo è anche un lavoro fatto di opportunità. Sabrina ha trovato questa serie pazzesca (The White Lotus, ndr), dove era incredibilmente giusta per quel ruolo e lei è stata bravissima, quindi giustamente ha ottenuto quello che meritava. In America c’è la vera industria del cinema e se sei brava puoi ottenere moltissimo, anche dal punto di vista della critica. In Italia l’ambiente è più cinico. Non ti portano su un palmo di mano. A me all’estero mi hanno trattato da diva. Qui ho interpretato diversi film e ruoli molto importanti, che se li avessi fatti in America mi avrebbero celebrata.

Sei reduce in questi giorni anche dalla Festa del Cinema di Roma.
È stato un festival interessante, pieno di bei progetti. È sempre molto partecipato, perché è un evento popolare dedicato alla gente. Roma ha bisogno del suo festival e del suo cinema. La commedia dei Manetti in cui ho recitato aspettavo di vederla da un anno e mezzo. E poi ho partecipato come regista al film a episodi 100 di questi anni, prodotto da Luce Cinecittà e Archivio Luce e al documentario su Franco Califano, Nun ve trattengo.

Lavorare con i Manetti Bros., stavolta in U.S. Palmese, ti porta fortuna. Il David di Donatello come miglior attrice non protagonista ti arrivò proprio con il loro Ammore e malavita.
Con i Manetti scatta proprio un click immediato. Con loro si compie un bel viaggio creativo. Mi fanno recitare anche in altre lingue, dialetti compresi. Mi hanno chiamata in un episodio dell’Ispettore Coliandro, dove ero una donna turca. Invece adesso in U.S. Palmese sono calabrese, una poetessa di Palmi che parteciperà all’arrivo del famoso calciatore nella squadra locale. Sono sfide su personaggi originali, mai scontati e divertenti da interpretare.

Claudia Gerini in ‘U.S. Palmese’ dei Manetti Bros. Foto: 01 Distribution

In fatto di divertimento, resterà scolpita fra le sue battute più memorabili quella che hai raccontato nel documentario su Franco Califano quando lo incontrasti insieme al tuo compagno di allora: “Ahò, ma come ha fatto Zampaglione a pija’ una figa come te?”.
Aveva detto proprio così (scoppia a ridere). Franco era stupendo. Sono quattro anni che porto in giro per l’Italia uno spettacolo che si chiama Qualche estate fa, con tutti brani di Califano. Dieci pezzi che interpreto con un quartetto d’archi, il Solis String Quartet, dove letteralmente mi perdo nei suoi pezzi. E quando mi hanno chiesto una testimonianza non potevo mancare.

Abbiamo parlato di Federico Zampaglione. Ma c’è stato un momento particolarmente rock and roll che ha caratterizzato la vostra relazione?
Dipende da cosa intendi. Se intendi sesso, droga e rock and roll, allora direi di no. Però quando eravamo a Los Angeles mentre lui stava mixando un disco ci siamo divertiti parecchio. Anche se devo ammettere di sentirmi più rock and roll adesso con il mio attuale compagno, con il quale vado a ballare al DC10 di Ibiza.

Se uno è rock and roll non smette mai di esserlo?
Ma certo! Se uno ce l’ha dentro, non si può smettere. Non si identifica con un’età. Per carità, non credo che anche a novant’anni andrò a ballare al DC10, però non è detta l’ultima parola. Ci sono dei posti per i ragazzini, e li lasciamo a loro, ma in generale ce ne sono altri dove tutti possono ballare a qualsiasi età. Per me è un’esplosione di gioia, essendo ballerina di natura. Tanto è vero che festeggio ogni anno i miei compleanni in maniera eclatante. Sono una di quelle che non riescono a stare senza organizzare un big party, anche se non è cifra tonda. Mi piace festeggiare perché è una scusa per ballare. Bisogna continuamente rimanere curiosi e meravigliati della vita. È quello che ci permette di essere sempre giovani, anche se non a livello biografico. Molti vanno in pensione prima, con la testa più che con il corpo.

E poi tu ti sai difendere, essendo cintura nera di taekwondo. Ti è mai capitato di mettere in pratica le arti marziali per difenderti o perché qualcuno ti aveva fatto arrabbiare?
Non posso! Per vari motivi. Prima di tutto perché le cinture nere non devono fare a botte, siamo pericolosi. Se ti esce un calcio in un punto particolare, in più con uno stivale di un certo tipo, puoi fare tanto tanto male. E poi perché ti immagini se menassi qualcuno che putiferio scoppierebbe sui social? Mi sono capitati dei diverbi, o di essere rapinata un sacco di anni fa, ma se arrivano con un’arma gli do subito tutto. La prima cosa che ti insegnano le arti marziali è di essere molto calma e non fare del male agli altri di cui potresti pentirti.

Però che si sappia: se qualche malintenzionato ti incontra a ballare al DC10 di Ibiza, Claudia Gerini sa difendersi anche da sola.
Esatto! Sono materiale infiammabile…

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