Problema: vuoi tornare su Canale 5 a fare serie tv, ma lì tutti ti bollano ancora come “il Cesaroni” (ecchepalle). Cosa fai? Facile: vai da Francesca Fagnani a Belve, fai credere a tutti che sei lì mosso da uno slancio sado-narcisistico come chiunque altro, mentre in realtà, sotto sotto, stai architettando la promozione del secolo. Ecco, così ha fatto – almeno nel nostro scenario fantatelevisivo – quel geniaccio di Claudio Amendola. Il Gladiatore di Roma – anzi, “de la Garbatella”, che fa pure più curriculum, fìdate – ha usato mamma Rai per promuovere il suo ritorno a Mediaset. Si è presentato su Rai 2 e, in 30 minuti, ha conquistato i presenti con il suo graffio e l’irresistibile sorriso un po’ paraculo un po’ sex symbol, ha tenuto testa a Fagnani per poi uscire da viale Mazzini con lo status di belva addosso. Esattamente quello che gli serviva per essere credibile, su Canale 5, nei panni del più fetente rappresentante di un certo universo maschile: il patriarca, termine oggi assurto a sinonimo di “ma guarda ’sto str…!”. Sull’analogia semantica Amendola conferma: «Esatto, è così», ridendosela anche un po’. La nuova serie si intitola proprio Il patriarca, e va in onda dal 14 aprile su Canale 5, prodotta da CamFilm.
Quindi tanti cari saluti ai Cesaroni?
Be’, sì. Qui cambio decisamente registro, il che è un po’ una costante della mia lunga (e vetusta) carriera: una volta so’ cuoco, nartra criminale, ho fatto tanta commedia e pure molti film drammatici. Insomma, ho sempre spaziato tra ruoli diversi. Però sono convinto che i Cesaroni se lo guarderebbero, Il patriarca, tutti riuniti sul divano…
Be’, dopo “il trattamento Belve”, anche solo per coerenza non avresti potuto scegliere un ruolo meno dark.
Diciamo che se stesse per andare in onda I Cesaroni, a Belve forse non ce annavo…
Ma toglimi una curiosità: com’è stato farsi torchiare dalla Fagnani? C’è chi, durante l’intervista, si agita, chi supplica “oddio, questo taglialo!” e altri che, alla fine, si pentono e vanno dall’analista. Tu in quale casistica rientri?
In realtà io non avevo mai visto Belve, per cui non capivo perché il mio agente continuasse a chiedermi: “Ma sei sicuro?”. Io gli dicevo: “Ma che è? Perché me lo chiedi ancora? Sono interviste e lei mi sembra una forte, facciamola”. Poi, una volta che sono arrivato in studio, tutti quanti mi guardavano come se stessi andando al patibolo: i redattori, la troupe… e io mica capivo ’sta cosa. Mi hanno allora mostrato i commenti social: la gente si stupiva della mia partecipazione, pure loro mi chiedevano “Sicuro? Ma come mai?”, quindi ho deciso di giocarci su, rispondendo: “Mo’ vi aggiusto io”. Battuta a parte, devo dire che mi sono davvero divertito. Secondo me, a Belve la chiave è non essere ipocriti, altrimenti la mazzata che ti dai sui piedi è doppia. Francesca Fagnani è una giornalista molto onesta nel porre le domande.
Veniamo a Il patriarca. Interpreti un imprenditore, Nemo Bandera, che ha costruito il suo impero, in Puglia, a colpi di illeciti e compromessi. Onestamente, questo particolare non mi ha sdegnata e nemmeno stupita, come se la corruzione fosse prevedibile nel momento in cui si parla di imprenditoria al Sud. Siamo ormai tutti disillusi o sono solo io a essere un po’ stronza?
Secondo me il punto non è tanto la disillusione. Il fatto è che oggi la criminalità ha cambiato aspetto: ha una facciata onesta, imprenditoriale, di grandi investimenti, i figli dei boss studiano all’estero e tornano con lauree importantissime e prendono in mano aziende che nel frattempo sono diventate floride. Non a caso il nuovo crime non è per forza ambientato nei tuguri e nelle basse periferie, e anche questo si vede bene nella fiction.
Uno dei più clamorosi scandali di corruzione si è consumato in Europa: alcuni europarlamentari italiani avrebbero preso fior fior di mazzette dal mondo arabo. Davanti a uno scandalo di tali dimensioni, da dove si parte per ricostruire?
Eh… non resta che pregare, se hai fede. La chiave a questo punto sono le nuove generazioni. La soluzione è cercare di crescere dei figli che siano migliori di noi, intellettualmente ma pure onestamente.
In che senso “onestamente”?
Noi italiani abbiamo un enorme problema: fatichiamo a rispettare le regole, consideriamo peccati veniali quegli errori per i quali, altrove, si finisce in galera per anni. Andiamo avanti con i “seh, vabbè, dài, che sarà mai?”. Se l’Europa ci considera poco affidabili è perché da sempre abbiamo trovato l’escamotage per aggirare le regole.
Oggi sembra che il riscatto politico passi per le donne: hanno effettivamente la schiena più dritta?
Secondo me sì. Le donne hanno qualcosa di ancestrale che le rende più oneste: forse è l’istinto materno, anche per chi non ha poi figli; o magari il fatto stesso di essere state per anni sopraffatte dagli uomini le rende più inclini alla giustizia. Quando si subiscono dei torti, la vittima può diventare un serial killer, ok, ma in generale l’inclinazione è quella di non replicare ciò che si è vissuto.
Quando dici queste cose pensi alla Meloni o alla Schlein?
A nessuna delle due: faccio proprio un discorso ampio, di genere. Sarebbe sbagliato ragionare in termini di schieramento politico, perché davvero nelle donne c’è un’inclinazione maggiore alla giustizia e un’elevata capacità di assumersi le responsabilità. Lo vedo anche in altri ambiti: quando le donne sono brave a comandare, stai sicuro che funziona tutto bene.
Ma la sinistra è viva, è morta o bisogna iniziare a valutare l’eutanasia?
Bisogna trovare un rospo.
Prego?
Un rospo che la baci. Il principe ormai non se trova più. Ce vo’ quindi un rospo che baci la sinistra e la svegli.
Hai in mente qualcuno?
No, però confido molto in questo risveglio. Nel PD ci sono ancora dei nodi da sciogliere, e a un certo punto si arriverà alla resa dei conti delle due anime. Tra l’altro questo grande successo della destra, che cresce negli anni, ha risvegliato chi si è assopito a sinistra: sentendosi dire che l’Italia è un Paese di destra, qualcuno ha detto “Aspetta un attimo, dài, vediamo: magari famo metà e metà…”. Ora si tratta di esserci e di fare. Personalmente mi aspetto che due donne così in contrapposizione come la Meloni e la Schlein possano comunque trovare una quadra in nome di un bene più grande. Se ci fossero degli argomenti di assoluto valore nazionale, mi aspetto che riescano a dialogare. Il grande errore commesso finora è stata infatti la faziosità: ormai la politica è diventata alla stregua del tifo calcistico, per cui non si è mai obiettivi, c’è sempre un rigore che non c’era o un arbitro che ti ha trattato male.
Torniamo alla fiction. La scena iniziale ci svela subito che Nemo Bandera è malato di Alzheimer e, al minuto 2, lui chiede al suo braccio destro di ucciderlo nel momento in cui non ricorderà più i nomi dei suoi parenti. Lo sai, vero, che in questa società politicamente corretta l’associazione dei malati di Alzheimer alzerà le barricate contro di voi?
Probabilmente sì, anche se le parole hanno un peso a seconda di chi le dice. Nemo Bandera è una persona scomoda: è il patriarca. Claudio Amendola non lo direbbe mai.
La serie affronta il tema del fine vita anche attraverso la storia della prima moglie di Bandera. Qual è la tua posizione in merito all’eutanasia?
Come ho detto molte volte, non sono credente ma darwiniano, quindi non nutro quelle remore morali che il discorso implica. Sono per il diritto di poter scegliere la propria fine. O meglio, non approvo l’eutanasia per chi è in salute perché se hai il coraggio, uccìdete: fallo da solo. Se però parliamo di casi eclatanti di malattie come quelli che hanno fatto scalpore, allora sono favorevole.
Oggi è invalsa la vulgata del malato guerriero. La malattia è davvero qualcosa a cui si può dichiarare guerra?
Un paio di anni fa abbiamo vissuto il viaggio, durato un anno e mezzo, di una persona molto cara che si era ammalata di tumore al pancreas. Questa persona è stato un vero leone: ha combattuto ed è migliorato. Però è durato poco: il tumore si è ripresentato ed è morto. Tuttavia, lui ha fatto bene a reagire perché quei mesi in più sono stati belli. Se invece ti arrendi e ti spegni, è un po’ come morire prima.
Ti spaventa di più la morte o la malattia?
La malattia. La morte è il finale: una volta che è arrivata, non ci pensi più. La malattia invece comporta tanto dolore, anche per gli altri che ti stanno vicino e che ti vogliono bene.
A proposito di malati, il cinema non se la passa per nulla bene. La tua diagnosi?
Io non faccio film da un po’, ma mi pare che i numeri siano ancora sconfortanti, anche perché in altri Paesi i mercati vanno meglio. Probabilmente paghiamo lo scotto di fare sempre gli stessi filoni: quando ogni tanto qualcuno imbrocca un film, se ne fanno sette-otto uguali. E poi ancora non ci siamo affrancati da quelle “due camere e cucina” che ci hanno sempre rimproverato. Per farla breve, il cinema è ancora una zona Ztl.
Ztl?
Be’, insomma… un ambiente molto salottiero, fatto di rapporti e di agenzie.
La nomination di Ficarra e Picone ai David di Donatello può fare sperare in un cambiamento?
Sono felicissimo per loro, perché mi piacciono molto entrambi. Non posso però notare che hanno preso la candidatura per un film di Andò (La stranezza, nda)…
Dici che se fosse stata una loro commedia, nessuno se li sarebbe filati?
Mmm, non lo so…
Morale: lunga vita alle serie tv?
Lo dici a me che ho iniziato a fare tv nell’81 e, da allora, non ho mai smesso? Certo. Tra l’altro il gotha del cinema mi ha sempre rimproverato di fare troppa tv, poi a un certo punto te giri intorno e ti ritrovi a fare serie tv proprio con quelle persone che ti criticavano perché facevi la tv…
Il karma sa essere spietato.
Eh, sì. Mi sento come il famoso cinese sulla riva del fiume…
Però non hai ancora fatto una serie tv per le piattaforme di streaming. Non dirmi che ti snobbano pure loro come il cinema.
Sono un volto molto generalista: sono quello della porta accanto, ed effettivamente ho moltissimi progetti per Rai e per Mediaset. Però io sto comodo così.
Nel Patriarca curi anche la regia. Ma non è più faticoso girare e recitare? Oppure è un modo di tutelarti?
Il doppio ruolo mi gratifica molto, e soprattutto non perdo tempo.
In che senso?
Questa è una piccola polemica, divertente, che faccio. Spesso ti capita di trovare dei registi che se la prendono con troppa calma: un sacco di straordinari, mille inquadrature ripetute cento volte, per poi non vederle nemmeno in montaggio.
Con te invece due ciak e tutti a casa?
Ma sì, perché so perfettamente che, se hai detto bene la battuta prima, posso usarla e metterla sulla faccia di questo secondo ciak. La tecnologia ti dà la possibilità di essere molto più sciallo.
Ma tutto quel discorso di far ripetere la battuta a un attore fino allo sfinimento perché solo quando l’attore è stanco abbassa le barriere e la dirà in modo vero…
Se stanno facendo una sega. Ma di quelle a quattro mani!
Veniamo a te. A Belve hai parlato dei tuoi problemi di cocaina precisando che ne sei uscito da solo. Davvero non hai chiesto aiuto a nessuno?
Sì, perché lo spavento che ho preso è stato molto forte ed è stato come un click. Mi sono reso conto che non ero lucido e pronto per mio figlio: per fortuna era una cosa piccola ma, se fosse stata più grande… la paura che ho preso è stata liberatoria. Ora la droga non mi attrae nemmeno più, mi dà persino fastidio vederla nei film. Per fortuna la mia era una dipendenza mentale, non ancora fisica.
Perché hai iniziato?
Per gioco. E per due o tre volte è stato pure divertente, poi il periodo di euforia scema.
Di recente a Roma hai aperto il tuo secondo locale di ristorazione: Cucina de coccio, che si aggiunge a quello di Valmontone. Non è che sia però il periodo più consigliato per gli investimenti: perché hai addirittura bissato?
Ci sono un paio di cose a cui noi italiani non rinunceremo mai: il cibo e la bellezza. Due settori che non conoscono crisi. In più ho aperto in un punto nevralgico di Roma, tra Via del Corso e Via Ripetta, dietro a Piazza Augusto Imperatore. È stata una mossa molto ponderata e soppesata. Poi, sì: è un periodo difficile e i problemi di gestione del personale sono reali. Quanto si è detto sul reddito di cittadinanza ha un grande fondo di verità.
Le persone rifiutano il lavoro perché hanno già il reddito?
No, però te dicono: vengo, ma me paghi in nero perché c’ho il reddito. Detto questo, il reddito (o similari) è una misura fondamentale per chi è in difficoltà, ma è anche vero che ha destabilizzato molto il mercato.
A Roma stanno prendendo piede l’amatriciana light e la carbonara vegana. Commenti?
Va benissimo: basta non mangiarle.