Il maggio del 1985 è stato un buon momento per essere un giovane attore di successo. C’erano registi come John Hughes che mettevano l’adolescenza in un modo che parlava direttamente al pubblico dei teenager. Gli Studios erano improvvisamente felici di fare film che si rivolgessero al redditizio gruppo demografico che va dai 14 ai 24 anni, e che dava da lavorare a un sacco di produzioni. Film corali come Breakfast Club, uscito nel febbraio dell’anno prima, sono stati la vetrina perfetta per tanti talenti under 30. Non è una coincidenza che uno dei film più attesi della stagione successiva, St. Elmo’s Fire, sia stato interpretato da tre membri del cast del successo precedente, oltre che dalle due star della teen comedy Class, uscita nel 1983, e da una nota attrice di General Hospital che veniva indicata come la prossima It girl. Insomma, si aveva la sensazione che sarebbe stata un’estate bellissima.
E soprattutto, si aveva un gruppo di coetanei con cui condividere questa fortuna, un gruppo di attori seriamente impegnati nel loro mestiere e pronti a vivere tutti i vantaggi della celebrità. Si aveva la sensazione che il mondo intero fosse a portata di mano.
Arriviamo a giugno, precisamente al 10 giugno 1985, e improvvisamente l’essere un attore giovane e sexy non sembra più così magico come lo era il mese precedente. Il New York Magazine aveva pubblicato una storia di copertina su quel gruppo di amici e colleghi che dipingeva questa nuova generazione di star del cinema come ricca e viziata; erano solo un gruppo di celebrità a cui importava ben poco se non passare le notti in discoteca. Come se non bastasse, il giornalista che aveva scritto il pezzo aveva dato a tutti loro dei soprannomi accattivanti e pieni di giochi di parole. Lo chiamò “Brat Pack” (letteralmente: “branco di monelli”, ndt). Quella definizione finì per avere una grande risonanza. Sembrava un gioco, finché non lo è stato più.
Andrew McCarthy era stato citato solo di sfuggita in quell’articolo, ma il peso di quel pezzo – e l’utilizzo di un termine così sprezzante e poco lusinghiero– gli è rimasto impresso per anni. «Siamo stati etichettati in un modo che non ci piaceva», dice, seduto in un caffè dell’Upper West Side di New York. «In un certo senso, ci è stata immediatamente bloccata la traiettoria della nostra carriera. O almeno è così che ci è sembrato. La grande ironia del Brat Pack è che, nel momento in cui quel soprannome è diventato un’etichetta, è finito. Perché le persone che ne facevano parte non volevano più esservi associate, e tutti quelli che facevano questo tipo di film corali con un cast di giovani attori non volevano più fare “i film del Brat Pack”».
«Alcuni di noi sono riusciti a scrollarsi di dosso quella storia e sono andati avanti», aggiunge. «Altri non ce l’hanno fatta».
McCarthy fa parte del secondo gruppo, e per molto tempo ha avuto la sensazione che quel termine avesse contribuito a far sì che la sua carriera subisse quella che lui considerava una flessione. Tuttavia, ha continuato a recitare, ha iniziato a lavorare sempre più spesso dietro la macchina da presa ed è diventato un prolifico scrittore di libri di viaggio con diversi titoli all’attivo. Quando gli è stato proposto di scrivere qualcosa sul periodo trascorso sotto i riflettori negli anni Ottanta, McCarthy ha subito risposto di no: perché mai avrebbe voluto tornare a quel momento doloroso? Poi ci ha ripensato e, nel 2021, ha pubblicato Brat, un’autobiografia sul suo legame con quell’epoca, quei film tanto amati e quella definizione rimasta così celebre. «Ho pensato: “Ok, l’ho fatto. L’ho superato”», ricorda. «Pensavo di aver finito».
Avendo finalmente fatto pace con l’essere un membro del Brat Packer, McCarthy cominciò a chiedersi: come si sentiranno gli altri membri di questo gruppo riguardo a quel periodo della nostra vita? Da solitario – «Non sono un attore che frequenta gli altri attori, non ho nessun amico stretto in questo settore», confessa con una risata – la star di Bella in rosa ha improvvisamente sentito il desiderio di conoscere il punto di vista dei suoi vecchi colleghi sul buono, il brutto e il cattivo di essere al centro di quella meteora di gloria e successo. Il risultato è Brats, un documentario (disponibile su Disney+) che segue il regista/guida turistica mentre viaggia attraverso gli Stati Uniti, chiacchierando con ex membri della “banda”, registi e fan come Malcolm Gladwell a proposito del fenomeno noto come Brat Pack. È un po’ un diario di viaggio da road-movie, un po’ una passeggiata accidentata tra i ricordi e un po’ una grande catarsi collettiva.
«È buffo, perché non ne avevo mai parlato con nessuno all’interno di quella cerchia, loro non ne avevano mai parlato [in pubblico]… e noi eravamo quelli che l’avevano vissuto!», racconta. «Ma l’anno scorso ho compiuto 60 anni e ho pensato molto a quella citazione di Eugene O’Neill sul fatto che il passato è il presente e anche il futuro, e allora… Mia moglie dice che le persone hanno bisogno di una comunità, altrimenti saremmo tutti fottutamente soli, disconnessi dalla realtà. Il mio rapporto con quei film si è evoluto nel tempo, anche se sono vecchi di decenni, e all’improvviso ho voluto sapere quale fosse il rapporto di tutti gli altri con questi film. Io ho scritto del mio “viaggio” in quella parte della mia vita e carriera. Qual è stato il loro?».
McCarthy fa una pausa, come se si fosse perso nei suoi pensieri. «Sarebbe stato facile fare un film in cui il Brat Pack fosse solo una cosa meravigliosa che la gente ricorda con nostalgia», dice dopo qualche secondo. «Ma io volevo fare qualcosa di più personale».
Era anche fermamente convinto che dovesse essere un documentario, perché «il Brat Pack esisteva davvero solo su pellicola. Non esistevamo nella vita reale. Sentivo che c’era questa generazione di attori della mia età, e che c’era un nuovo modo di rappresentare l’adolescenza sullo schermo, un modo che non c’era mai stato prima. Ma era più un’idea che una cosa reale».
In Brats, McCarthy riesce a catturare una gamma di conversazioni impressionante. Emilio Estevez parla timidamente di come quell’etichetta abbia cambiato la percezione che l’industria aveva di lui; quando McCarthy gli chiede se avrebbe voluto che non fosse mai successo, il lungo silenzio prima di rispondere la dice lunga. «Il mio montatore insisteva nel voler tagliare quella pausa», dice il regista, «ma io continuavo a dire: “Lasciamolo seduto lì. Guardiamolo mentre pensa. Questo è il film”». Demi Moore, che McCarthy chiama affettuosamente “Obi-Wan”, parla di quel primo assaggio di celebrità con un senso di calma Zen. Ally Sheedy ridacchia quando McCarthy ammette di essersi preso una cotta per lei. Rob Lowe non potrebbe essere più entusiasta di ricordare quei tempi, e spinge McCarthy a raccontare la notte in cui finirono a casa di Sammy Davis Jr.: “Il Rat Pack (così era stata soprannominata la “banda” di Frank Sinatra, Dean Martin & Co., ndt) ha incontrato il Brat Pack!”.
Il fatto che alcuni attori riuniti sotto quell’etichetta si siano rifiutati di parlare della loro esperienza nel Brat Pack non fa che sottolineare quello che McCarthy dice essere il motivo per cui ha voluto realizzare Brats. «La loro assenza ti dice qualcosa, in un modo davvero meraviglioso», osserva McCarthy. «La sola menzione del Brat Pack suscita un’ampia gamma di emozioni fortissime e diverse, quindi quella vale quasi come prova del nove per tutto il film». Parlando con Jon Cryer, McCarthy afferma che la sua collega in Bella in rosa, Molly Ringwald, ha detto subito grazie, ma no. Judd Nelson ha inizialmente accettato di partecipare, poi ha cambiato idea.
«C’è una scena all’inizio in cui mi vedete al telefono mentre dico a una persona: “No, non dirmelo ora, conservalo per la macchina da presa!”». McCarthy racconta. «Quella persona era Judd che mi stava richiamando. Mi ha detto: “Sì, mi piacerebbe partecipare”, e poi si è lanciato in un monologo di 20 minuti su cosa significasse [il Brat Pack] per lui. Io continuavo a dire: “Basta, basta, devo filmare tutto questo, Judd!”. Abbiamo continuato a cercare un momento per farlo, poi alla fine mi ha richiamato e mi ha detto: “Non sono sicuro di poterlo fare adesso”». McCarthy gli dà comunque l’ultima parola, alzando il pugno come fa Nelson in Breakfast Club. «Nella mia mente, questa è l’immagine definitiva del Brat Pack. È il potere del “Noi!”».
E, in quella che è forse la sequenza più forte del documentario, McCarthy siede con David Blum, il giornalista che ha scritto il famigerato articolo di New York Magazine e che ha coniato il termine Brat Pack. Il regista dice di aver affrontato ogni conversazione per il film con «zero aspettative e nessuna scaletta: la mia era un’esplorazione, mi interessavano le reazioni e i sentimenti sinceri delle persone». Questo vale doppio per Blum, osserva, perché sarebbe stato troppo facile che decenni di rancore condizionassero la loro chiacchierata. «Quando l’ho chiamato la prima volta, mi ha chiesto: “Qual è il tuo obiettivo? Mi stai dando la caccia?”. E io gli ho risposto di no, perché volevo davvero sentire la sua versione dei fatti. Volevo fare esattamente quello che lui non ha fatto per noi».
Tuttavia, quando Blum inizia a lamentarsi del fatto che un critico cinematografico aveva detto cose cattive su di lui in una puntata di Donahue, si possono praticamente vedere gli occhi di McCarthy sgranarsi. «Ho pensato: “Davvero, amico? Davvero?!”», racconta. «Come a dire: “Ok. Ora capisce come ci siamo sentiti noi”». Quando l’intervista termina, McCarthy si chiede ad alta voce se Blum ritiene, a posteriori, che avrebbe potuto essere un po’ più gentile nel suo pezzo. Il giornalista risponde: «Eh, bastoni e pietre (dal detto inglese: “Bastoni e pietre possono rompere le mie ossa, ma le parole non possono farmi male”, ndt).
«Mi ha fatto restare a bocca aperta», ammette McCarthy ridendo. «È per questo che ho tenuto accesa la cinepresa anche quando l’intervista era finita. Ricordo che a un certo punto gli ho detto: “Sei come il quinto Beatle. Non puoi sfuggire nemmeno a questo”. Lui ha risposto: “Spero di non essere ricordato solo per questo”. E poi ha detto: “Sembri proprio uno del Brat Pack in questo momento!”. È l’unica volta che l’ho visto punzecchiarmi. Ma è vero. Anche lui è stato perseguitato da quell’articolo per tutta la sua carriera, tutta la sua vita. Anche lui non ne può più. Ho pensato che fosse interessante».
Ciò che ha sorpreso McCarthy più della reazione di Blum, tuttavia, è stato scoprire il suo genuino affetto per l’uomo che ha reso la sua vita un inferno. In realtà, l’uomo che si definisce un solitario, quello che non parlava con alcuni dei suoi “fratelli” del Brat Pack da più di trent’anni, è rimasto scioccato dall’affetto che provava per tutte le persone che un tempo aveva associato a un periodo traumatico della sua vita. Scrivere Brat è stato il primo passo per fare pace con quel periodo della sua vita. Girare Brats e condividere i rimpianti degli altri, i ricordi del passato e la loro Brat-itudine condivisa gli ha fatto fare un passo ulteriore. McCarthy oggi non si offende più per quel nomignolo. Anzi, sta iniziando a volergli bene.
«Per tanto tempo ho odiato quella parte del mio passato», confessa. «E ora sono arrivato a pensare che invece sia una delle più grandi fortune della mia carriera. Il bello è che si è trasformato in un termine iconicamente affettuoso, che mi fa dire: wow, sono il simbolo della giovinezza per un’intera generazione? Com’è successo? E tutto questo è davvero fantastico, sai?».