«Ho pianto almeno due volte guardando Another End», dico a Gael García Bernal. «Anche io», mi risponde lui, mentre si toglie la montatura con le lenti leggermente oscurate e mi guarda con quegli occhi verdissimi. Il fatto è questo: Gael García Bernal è uno dei migliori attori contemporanei. Butto lì qualche titolo a sostegno della tesi: l’inizio del nuovo cinema messicano con Amores perros e Y tu mamá también – Anche tua madre, La mala educación di Almodóvar, I diari della motocicletta ma anche L’arte del sogno di Gondry, poi Mozart in the Jungle (sì, gliel’ho chiesto), No – I giorni dell’arcobaleno e Neruda di Larraín, Coco della Disney e ultimamente Old e Cassandro (per cui avrebbe stra-meritato almeno una nomination all’Oscar: glielo dico, mi ringrazia; ai premi ci torniamo).
Eppure, quando ti trovi sul divano della biblioteca di un albergo milanese a chiacchierare con lui te lo dimentichi, è uno con cui prenderesti volentieri un caffè. «Espresso», chiede con gentilezza. «Un po’ d’acqua frizzante e da mangiare frutta, grazie», aggiunge, sempre in italiano. È stanco, ma chiacchiera, ride e non si risparmia: «Scusa se continuo a muovermi, sto cercando di trovare la posizione, faccio soft yoga perché mi fa male il collo. Sarà l’età, o il jet leg», sorride. È arrivato il giorno prima da Città del Messico, ha già fatto attività stampa a Roma, ora a Milano. E in questi giorni accompagnerà il film di Piero Messina, Another End appunto (in sala dal 21 marzo, starring anche Renate Reinsve e Bérénice Bejo). Gael interpreta Sal, un uomo che ha perso la compagna in modo tragico e decide di affidarsi a una nuova tecnologia che promette di alleviare il dolore del distacco riportando in vita, per breve tempo, la coscienza e i ricordi di chi se n’è andato, impiantati nei corpi di persone che accettano di essere in qualche modo dei tramite.
Il pitch di Another End potrebbe somigliare a un episodio di Black Mirror, ma l’approccio di Piero esce dal genere. È un film d’autore, e non è definibile: sci-fi, romantico, mélo. Cosa hai pensato quando hai letto la sceneggiatura e poi quando hai visto il film?
È diventato qualcosa di molto più grande e complesso. In tanti nelle recensioni hanno parlato di Black Mirror, quella serie però è affascinata dalla portata della tecnologia e dal modo in cui influenza le nostre vite, mentre il nostro film no. Parla di amore e morte, e per questo è una storia d’amore, è un film romantico. Cosa succede quando mescoliamo amore e morte? Sono domande esistenziali molto profonde. Parafrasando Carl Sagan, l’amore è l’unico modo in cui possiamo sostenere la nostra esistenza che, davanti alla vastità del cosmo, è minuscola. È l’unica cosa per cui valga la pena vivere, dà un significato a tutto. E mi piace anche il fatto che Another End contraddica quello che oggi la cultura dell’intrattenimento definirebbe “romantico”: un ragazzo incontra una ragazza (oppure un ragazzo incontra un ragazzo, eccetera) e succede qualcosa. Ma il concetto stesso di romantico implica la morte, perché ci sono delle domande che restano senza risposta. L’amore è così bello che il fatto che possa finire con la morte, be’, è straziante.
Messina ha detto che ti ha scelto perché portavi una sorta di passione, di empatia, in qualcosa che forse altrimenti sarebbe stato un po’ più freddo. Come hai lavorato con lui?
Ci sono molte cose che i registi vedono, c’è un punto di vista esterno che preferisco non conoscere (ride). Però abbiamo corso un rischio con il personaggio: ruota tutto intorno a Sal e al suo dramma, ma lo abbiamo reso meno dolente possibile. Ci abbiamo fatto molta attenzione perché non poteva lamentarsi tutto il tempo. Sì, quando ti colpisce una tragedia ti chiedi “Perché? Perché? Perché?”, ma allo stesso tempo prima o poi devi anche pensare a cosa ti riserva il futuro, devi andare avanti.
Mi è piaciuto molto il fatto che il film non abbia una morale, dice semplicemente che siamo umani e che in qualche modo dobbiamo sopravvivere.
Sì, e credo che sia bello. In realtà nella stragrande maggioranza di quello che mi piace fare non c’è una morale.
Te lo chiedo perché spesso di questi tempi il messaggio diventa anche più importante, è come se venisse prima del film.
Oh sì, e quello è la morte di tutto, la morte dell’arte. Non penso mai ai film come messaggi, ma ci sono anche delle sfumature. Credo che i bei film si pongano sempre una domanda e rispondano sempre con una sorta di tesi, ma poi si facciano subito altre domande. Come in questo caso. Another End pone un’interessante contraddizione filosofica: alla fine il corpo non è poi così importante? Risponde, ma poi quella domanda apre a nuove domande. Quando ero più giovane odiavo i film che vogliono per forza veicolare un messaggio. E lo penso ancora, ma adesso c’è una sfumatura in più, è giusto sporcarsi le mani. Perché ci sono dei progetti a cui ho lavorato che definirei nichilisti: “Questo film non è questo, non è quello, non è quest’altro”. E allora cos’è? Niente. Bisogna osare. Se guardi una partita di calcio e non tifi per nessuna squadra, perché la segui? Qualcuno dovrà pur vincere.
E infatti tu sei sempre in qualche modo politico quando scegli un film, un ruolo. Cito Iñárritu: “È una qualità fondamentale che distingue Gael dagli altri attori”.
Che carino Iñárritu…
Quindi non posso fare a meno di chiederti – e so che è un domandone – cosa pensi del dibattito a Hollywood su La zona d’interesse e quello che ha detto Jonathan Glazer agli Oscar.
È un domandone, ed è anche una questione molto delicata. Io sono sempre stato “impegnato” e forse, per il modo in cui sono stato educato e anche per il contesto in cui sono cresciuto, esercitare semplicemente la libertà di parola in un certo senso era sufficiente per essere “politici”. Ma, allo stesso tempo, il potere del cinema ci ha dato l’opportunità di essere catalizzatori di qualcosa che sta accadendo, di denunciare qualcosa o di creare un’estetica per raccontate l’irraccontabile, come fa La zona d’interesse. Jonathan Glazer ha fatto un capolavoro per parlare di ciò di cui non possiamo parlare per l’orrore tremendo che rappresenta. Intrinsecamente è un film molto politico, molto critico, ma allo stesso tempo è scritto in modo superbo e girato e recitato meravigliosamente. È magnifico.
Ed è anche un film sulla memoria, non quella personale, come Another End, ma quella collettiva.
Glazer ha creato un’estetica per parlare della cosa più tremenda che gli esseri umani possano fare, ovvero finire per sterminarsi. È straordinario quello che ha fatto. E penso anche che il fatto di essere ebreo gli abbia dato ovviamente un’idea, un quadro molto più completo e anche doloroso. Fondamentalmente racconta cosa succede dall’altra parte del muro. E, come sai, c’è un muro tra Messico e Stati Uniti. C’è quella stessa indifferenza, quella tendenza a sminuire: “Non è nulla, è solo un muro”. Ma un muro è qualcosa che divide, è un’imposizione orribile. Ovviamente non sto facendo nessunissimo confronto, sarebbe sbagliato e di cattivo gusto. Dico solo che Glazer è riuscito a parlare poeticamente di quell’indifferenza, di quella divisione. Ed è per questo che vale davvero la pena, qualunque cosa possa fare il cinema anche per colmare i vuoti del discorso, perché la letteratura e la politica spesso non ci arrivano.
Sei tra i pochissimi al mondo che riescono a stare in equilibrio tra due mondi completamente diversi: da una parte il Messico, l’America Latina e i film più indipendenti, dall’altra Hollywood o comunque titoli più commerciali. Come ci riesci?
È bello avere “problemi” di questo tipo, e poi ci sono altri posti, come l’Italia (sorride). Ma no, sul serio, non mi sarei mai aspettato di fare cinema. Quando ero bambino adoravo guardare film, ma non avrei mai pensato che li avrei girati. Per tanti motivi, ma soprattutto perché in Messico era impossibile immaginarlo. I miei sogni erano tipo vincere la Coppa del Mondo, scoprire qualcosa o mettere in piedi una rivoluzione… e poi quando il cinema è arrivato a me ero sorpreso, felice e grato. All’improvviso pensi che, wow, fare film è fantastico. Per tantissime ragioni, tipo viaggiare e farti tanti amici, conoscere posti nuovi e soddisfare la tua curiosità. Quindi quando sono stato chiamato in qualche altro Paese per girare, ho fatto le valigie e sono partito. Ed è così che sono stato in Argentina, Brasile, Spagna, Inghilterra, Italia, Francia, e a volte negli Stati Uniti. E quella curiosità c’è ancora, adesso con la famiglia però è tutto un po’ più complicato, dev’essere un progetto speciale. Ma fin dall’inizio sapevo che non volevo mettere freni a quel tipo di libertà. Andare immediatamente negli Stati Uniti, ad esempio, avrebbe significato battere una strada che molte persone avevano percorso prima di me, e forse anche scendere a compromessi troppo presto. Alla fine preferisco di gran lunga lavorare a progetti come No – I giorni dell’arcobaleno con Pablo Larraín, che è un film che hanno visto e vedranno molte persone, anche i miei figli… è come se fosse un’eredità. Che poi, se ci pensi, che film ha vinto l’Oscar quell’anno?
Così su due piedi non me lo ricordo.
(Ridiamo) Vedi? Non lo sappiamo, è difficile. Chi ha vinto il premio come miglior attore tre anni fa? E chi se lo ricorda. Non è il riconoscimento, ovviamente, è il film che sopravvive. No non ha vinto nessun premio importante, ma è un bellissimo film. Se La zona d’interesse non avesse vinto l’Oscar sarebbe comunque un grande film.
Ok, è arrivato il momento: devo chiederti di Mozart in the Jungle, che è una delle mie serie preferite di sempre. Dimmi che farete un’altra stagione o un film-sequel.
Sì, hai ragione (entra l’ufficio stampa a dirci che il nostro tempo è finito). Stavamo parlando di Mozart in the Jungle (spiega in italiano). Mi manca, e dobbiamo assolutamente fare qualcosa perché mi si è spezzato il cuore quando ci hanno detto che sarebbe finita così, ci stavamo già preparando per la stagione successiva, per il gran finale, avremmo spaccato. Rodrigo mi è entrato davvero dentro, mi manca perché è un po’ la persona che voglio essere: un genio che non ha filtri. Quando giravamo avevo a disposizione tre mesi in cui potevo dire tutto quello che pensavo, era fantastico (ride), ci divertivamo tantissimo. È stato davvero bello anche in Giappone, dovevamo andare in India per l’ultima parte. Spero che presto riusciremo a fare qualcosa con Roman (Coppola), Jason (Schwartzman) e magari Monica (Bellucci), era stato incredibile girare a Venezia insieme a lei. Vedremo…