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Come Josh O’Connor ha imparato a non preoccuparsi e a fare lo stron*o

Non è detto che il suo Patrick sia il cattivo di ‘Challengers’, ma di certo è il ruolo che gli ha fatto abbandonare i personaggi timidi e impacciati a cui era abituato. Grazie anche alla “cura Guadagnino”: «Mi maltrattava, ma è stato davvero utile». Lo abbiamo intervistato

Foto: Anthony Prince Leslie

È una giornata di aprile ingannevolmente calda a New York e O’Connor, che ha un aspetto più radioso di quanto non avrebbe chiunque si fosse svegliato prima dell’alba, è chinato sul telefono per condividere con noi la musica che sta ascoltando in questo periodo. È da qui che gli è venuta l’idea del “fucking off“, il testo centrale di Fuck Off World del cantante blues irlandese Mick Flannery: “Fuck off world / Fuck off politics / I’m going in the woods with a stick / I’m going by the stream just to sit“. Tra gli altri brani che O’Connor ha in programma per la giornata ci sono il violoncellista sudafricano Abel Selaocoe e le armonie taiwanesi a otto voci di David Darling & The Wulu Bunun. «Questa roba è pazzesca», dice O’Connor mentre fa scroll, indicandomi i preferiti in una lunga playlist. Ma è il lamento di Flannery, simile a Walden, che parla di un mondo in cui il capitalismo e i social media sono messi a tacere dalla serenità della natura, a incantarlo e divertirlo, soprattutto perché rappresenta l’esatto contrario della sua vita attuale. «Lo stavo ascoltando quando ero a Sydney per il press tour e pensavo: “Wahhh!”», scherza, con finti singhiozzi che gli scuotono le spalle su e giù. «”Voglio solo andare nei boschi con un bastone!”».

Sebbene l’impulso sia comprensibile, è del tutto antitetico alla promozione di un grande film con tre talenti dell’ultima generazione, un regista acclamato dalla critica e un ménage à trois erotico a sfondo tennistico. O’Connor è protagonista, insieme a Mike Faist e Zendaya, di Challengers, diretto da Luca Guadagnino, un dramma a rotta di collo su tre tennisti professionisti coinvolti in un triangolo amoroso che attraversa anni e carriere. L’ex stella del tennis Tashi Duncan (Zendaya) sta allenando il marito Art Donaldson (Faist) nella carriera dei suoi sogni, che invece lei ha dovuto interrompere per colpa di un infortunio prematuro. Ma quando si mette sulla loro strada l’ex amico e compagno di campo Patrick Zweig (O’Connor), si scatena una lotta per il potere che minaccia di mettere in subbuglio tutte le loro vite. La sceneggiatura di Justin Kuritzkes fluttua nel tempo e nei punti di vista, trasformando ogni interazione personale in un’avvincente partita di tennis con l’aiuto di una colonna sonora pulsante e ricca di bassi firmata Atticus Ross e Trent Reznor. È una vera e propria gioia per gli spettatori, e un progetto che ha portato O’Connor a doversi imbarcare, per contratto, in un massiccio tour promozionale che ha toccato una decina di metropoli in tutto il mondo. O’Connor sa che parte della recitazione consiste nel promuovere il proprio lavoro. Solo che non crede di essere molto bravo a farlo.

Mike Faist, Zendaya e Josh O’Connor in ‘Challengers’ di Luca Guadagnino. Foto: Warner Bros.

«”Monotono” sembra scortese, ma c’è qualcosa di monotono, soprattutto nelle conferenze stampa. Nell’era dei “contenuti”, tutti hanno bisogno di risposte a domande del tipo: “Chi è il migliore a tennis?”, “A chi si ispira questo personaggio?”», dice, schioccando velocemente le dita (solo uno dei gesti che diventano una costante nella nostra conversazione: una mano che si avvicina alla nuca mentre rimugina su una domanda; un colpetto ansioso all’orecchio quando teme di essere scortese; una scrollata di spalle quando l’eccitazione gli illumina gli occhi). «Quindi diventa un po’ stancante, anche se capisco perché funziona cos’. Non so se sono in grado di esprimere in modo sintetico, con una didascalia o un’immagine rapida, quello che i giornalisti desiderano».

Dato che O’Connor fatica a riassumere in breve il suo lavoro e la sua carriera, interveniamo per dargli una mano. Figlio di un’ostetrica e di un insegnante di inglese, è cresciuto nella bucolica contea del Gloucestershire, a due ore a ovest di Londra, ed è stato un assiduo frequentatore del teatro, ossessionato in particolare da Shakespeare. Durante il periodo in cui ha frequentato la St Edward’s School (un’altra ex allieva degna di nota è FKA twigs), ha preso parte a numerose produzioni scolastiche. Un altro periodo di formazione alla Bristol Old Vic Theatre School lo ha invece portato a fare provini che gli hanno fruttato diversi ingaggi televisivi, e che hanno fatto sì che O’Connor diventasse quello che lui stesso definisce un «attore da strapazzo».

È stato il suo ruolo nella storia d’amore queer acclamata dalla critica La terra di Dio – God’s Own Country (2017) a far conoscere O’Connor al pubblico e ai produttori cinematografici, che improvvisamente hanno chiesto a gran voce di vederlo di più. Quando O’Connor è entrato nel cast del period drama di Netflix The Crown, dove interpretava un giovane e insicuro principe Carlo, ha cementato la sua immagine di attore abile nel ritrarre con tenerezza sia l’idealismo adolescenziale che una sorta di rabbia interiore, arrivando a occupare un posto unico tra gli altri attori di spicco della sua generazione. Laddove Austin Butler porta l’intensità del Metodo e Barry Keoghan la cattiveria, O’Connor infonde a tutti i suoi personaggi un’incontenibile fanciullezza, anche quando sono uomini adulti. Bello in modo non convenzionale, con gli occhi blu e le orecchie a sventola, è capace di essere vulnerabile e allo stesso tempo pungente, una contrasto che si adatta perfettamente a un antieroe triste come Carlo. In Challengers, però, getta quella pudicizia fuori dalla finestra.

«Patrick potrebbe essere in qualche modo la sfida più difficile che ho affrontato», osserva O’Connor, «perché le sue qualità sono caratteristiche che non riconosco necessariamente in me stesso: la sua natura è roboante e diretta. Visto dal di fuori, è così sicuro di sé e così a suo agio con sé stesso che all’inizio quasi non riuscivo a capirlo». O’Connor ha riconosciuto a Guadagnino il merito di averlo fatto uscire dal suo guscio, così come al costumista di Challengers Jonathan Anderson (che è anche il direttore creativo della maison Loewe). «[Jonathan] mi ha fatto indossare dei pantaloncini cortissimi», dice, «e non puoi indossare dei pantaloncini cortissimi ed essere un po’ timido. Devi essere credibile».

In Challengers, il personaggio di O’Connor è presentato come un selvaggio contrappunto alla rigidità di Tashi e Art nel loro ménage coniugale iper-strutturato. Dove Art si defila, Patrick spinge. Quando Tashi sputa insulti mirati a ferirlo, Patrick sorride e ne chiede ancora. Quando Art gli muove un colpo basso, Patrick si congratula con lui per essere una serpe con l’orgoglio negli occhi. Patrick è sia rivale che un compagno di squadra.

O’Connor ha dichiarato che una delle cose che lo hanno attratto di questo ruolo è stato il modo in cui il rapporto tra Art e Patrick oscilla da una competizione bambinesca a un’intimità quasi sensuale e palpitante. Sebbene gli spettatori tendano a uscire dal film alla ricerca disperata di un cattivo (e il Patrick di O’Connor è un bersaglio molto facile), lui preferisce che si concentrino su quello che è un suo desiderio: che tutti e tre i personaggi trovino un modo per stare insieme dopo i titoli di coda.

«Non so come sarebbe», commenta. «Non credo che loro sappiano prevedere come sarà il loro futuro. È quello che stanno cercando di capire. C’è qualcosa tra Art e Patrick. Non solo sono attratti l’uno dall’altro, ma Tashi è attratta dall’idea di loro due insieme. Penso anche che, per quanto riguarda il tennis, lei sappia che la versione migliore di Art e di Patrick è quando si affrontano».

Il più grande successo di O’Connor in Challengers sta nel modo in cui questo gentile ragazzo british riesce a fondersi perfettamente con il personaggio di un americano stronzo e presuntuoso. Per la cronaca, nessuno in questo film detiene una posizione di superiorità morale. Ma mentre i combattimenti di Tashi e Art sembrano ruotare intorno al dovere contro il desiderio, Patrick si inserisce con decisione nella tensione, divertendosi in situazioni che lo mostrano come il cattivo di turno. Per O’Connor, questo ha significato un corso accelerato di movimento, lezioni di tennis e ma anche su come diventare un cazzone, tutte cose in cui riconosce di non essere particolarmente bravo. E qui entra in gioco Guadagnino.

Prima dell’inizio delle riprese del film a Boston, spiega O’Connor, il cast e la troupe hanno trascorso alcuni giorni insieme «solo per allenarci e provare». O’Connor, alle prime armi con il tennis, era in difficoltà. «Un giorno Luca è venuto a una delle nostre sessioni di allenamento e ha visto il modo in cui stavo giocando», racconta. «Non ero nel personaggio, perché stavo solo imparando a giocare, ma allo stesso tempo sbagliavo a “tenermi” troppo quando non ottenevo un punto: ero troppo imbarazzato, e solo perché non mi sentivo abbastanza bravo. Lui mi ha preso da parte e mi ha detto: “Smettila. [Patrick] non si imbarazza mai”. Mi riprendeva in ogni momento di insicurezza, di dubbio, di ansia o di paura. Veniva da me e mi metteva una mano sulla schiena, mi tirava giù le spalle e mi metteva il petto in fuori, mi maltrattava. Ma è stato davvero utile».

Sebbene O’Connor sapesse che Challengers sarebbe stata un’esperienza nuova e non facile, il fatto che lo stesse girando proprio nel mezzo delle riprese di un altro film – il solare La chimera di Alice Rohrwacher – non ha reso le cose più semplici. La chimera segue lo smarrito tombarolo Arthur mentre cerca tra le colline italiane sia tesori nascosti che la sua amata scomparsa. Il ruolo era stato scritto per un uomo più anziano, ma O’Connor, grande fan del lavoro di Alice Rohrwacher (c’è una lettera mai ricevuta da qualche parte nella loro storia) ha convinto la regista con il suo provino. O’Connor dice che «mi è sembrato un atto del destino». E continua: «So che sembra ridicolo, ma mi sono sentito come se quel ruolo fosse stato scritto per me. Era qualcuno che non sapeva dove e come esistere. Era combattuto tra questa vita e le persone che si era lasciato alle spalle, aveva a che fare con la spiritualità e la casa, l’amicizia e l’amore, e tutte queste domande irrisolte. Arthur si sentiva come tutto ciò che volevo esplorare in me stesso».

Josh O’Connor in ‘La chimera’ di Alice Rohrwacher. Foto: Simona Pampallona

E subito dopo essersi trasformato in Arthur nella campagna italiana, è dovuto partire. «Vivevo nel mio camper e mi lavavo in un lago in Italia, e poi, una settimana dopo, ero in questo bellissimo appartamento sopra il Four Seasons a Boston a giocare a tennis», dice O’Connor ridendo. «Mi piaceva la dualità di questa situazione. Ma mi ha messo a dura prova».

La possibilità che Challengers possa catapultarlo in stratosfere di celebrità ancora più alte fa sì che O’Connor sia oggi un po’ preoccupato per l’impatto che tutto questo avrà sulla sua vita. Quando gli chiedo come si sente ad affrontare un press tour che probabilmente si concluderà con un numero maggiore di persone che conoscono il suo nome, O’Connor sprofonda completamente nella sua poltrona.

«È un pensiero terribile», osserva con un sorriso ironico. «Non è una cosa popolare da dire, ma come avrai capito, tutto questo non mi riempie di entusiasmo. Capisco che per un attore vale il fatto che più sei conosciuto, più è probabile che tu venga visto dal regista X o dal regista Y. Se consideriamo la recitazione come un business, è una buona cosa. Ma io non vedo la recitazione come un business. Quindi questo nuovo spazio in cui mi trovo mi fa sentire molto vulnerabile».

O’Connor vivrà in quello spazio per il prossimo futuro. Ma dopo il tour promozionale di Challengers, avrà una breve pausa e la possibilità di fermarsi un po’, a casa sua. L’anno scorso ha comprato una casa e si è trasferito in campagna, vicino a dove è cresciuto. Ha un giardino. Vuole un cane. Ha già in mente di costruire uno stagno insieme a suo fratello e di riempirlo di pesciolini e soprattutto di rane. Dopo la nostra chiacchierata, avrà una piccola pausa anche nel corso di questa giornata, che utilizzerà per andare al negozio Adidas a comprare scarpe da ginnastica e costumi da bagno. E poi, naturalmente, altre interviste. La foresta e il bastone devono aspettare. Almeno per ora.

Da Rolling Stone US

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