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Da ‘Veloce come il vento’ a ‘Curon’, Lyda Patitucci è l’action woman italiana

Dietro il nuovo supernatural drama Netflix c'è anche la regista che si è fatta le ossa sui nostri set più contemporanei e sperimentali. E che dimostra che un cinema "diverso" è possibile. Anche da noi

Foto: Netflix

Avete presente le gare automobilistiche di Veloce come il vento, l’assalto al treno in Smetto quando voglio – Masterclass e i combattimenti nel fango del Primo re? Ecco, dietro la maggior parte delle scene action del nostro cinema più contemporaneo e sperimentale come regista di seconda unità c’è lei, Lyda Patitucci. Che oggi esordisce alla regia pura con Curon, supernatural drama italianissimo targato Netflix e ambientato nel paese altoatesino del titolo, dove una donna (Valeria Bilello) torna con i due figli gemelli (Margherita Morchio e Federico Russo) per affrontare il suo passato e scoprire i segreti dietro l’apparente tranquillità del posto.

37 anni, di Ferrara («ci tengo a sottolinearlo, perché è una città molto scollegata dal settore»), Lyda è una sorta di Kathryn Bigelow italiana, una che ha un’idea chiarissima del cinema che le piace e che vuole fare: «Da spettatrice ho sempre avuto questa passione per le storie in cui l’intreccio e l’azione sono protagonisti e dove anche i personaggi sono estremi. Per me è una specializzazione che ha a che fare con una visione anche anti naturalistica, con i generi e con delle componenti che trascendono la realtà. E, inevitabilmente, per metterle in scena devi avvalerti di effetti speciali, collaborare con gli stunt. Per raccontare le storie che amo ho bisogno di questo linguaggio». Il film che ha plasmato questa visione fin da piccolissima è Le avventure del barone di Münchhausen di Terry Gilliam: «Per me rappresenta la magia della creazione, che ti consente di mettere in scena quelle che altrimenti resterebbero solo immagini di fantasia. E poi sono sempre stata una cultrice del cinema d’azione orientale, la cui rilevanza dipende sicuramente dall’importanza delle arti marziali nella loro tradizione, ma che è molto più interiorizzato nelle storie, basti pensare ai combattimenti».

Dopo l’università, il DAMS e un corso di montaggio coordinato dalla Cineteca di Bologna, Lyda si trasferisce a Roma, «ma, non avendo nessun tipo di contatto, era difficile accedere ai set. E in più, in quel momento, non c’erano prodotti che mi interessava davvero conoscere». Così va in Spagna «dove vive una parte della mia famiglia, che mi ha sempre sostenuta tantissimo, e dove ci sono una cultura e una cinematografia di genere». Frequenta l’ESCAC, la scuola superiore di cinema di Barcellona, e finalmente ha accesso a contatti e produzioni. Almeno finché non torna in Italia per girare un film, l’adattamento del romanzo di Matteo Strukul Mila, a cui è parecchio legata: «Consapevole delle difficoltà di un progetto così, ho pensato che fosse utile realizzare un teaser e presentarlo a due società: Indiana (che poi ha prodotto Curon) e Ascent (Groenlandia, la casa di produzione fondata insieme da Rovere e Sibilia, ancora non esisteva)». Il film per ora non è riuscita a girarlo, ma ha portato a un incontro fondamentale: quello con Matteo Rovere: «È un regista e produttore che crede profondamente nella sperimentazione e nell’innovazione. In altri Paesi, come la Spagna, c’è una consuetudine maggiore a un certo cinema d’azione e alla pianificazione a tavolino, e per questo ci sono delle seconde unità strutturatissime e specializzatissime. Matteo ha capito l’importanza di avere qualcuno che, all’interno di un processo complicato come quello della preparazione di un film, si dedicasse soprattutto a questi segmenti, che assorbono tanto a livello di risorse mentali e lavorative. Questo tipo di progettazione è praticamente semi-sconosciuto nel nostro sistema e però è fondamentale, a maggior ragione quando non disponi di budget infiniti».

Del set di Veloce come il vento Lyda ricorda perfettamente il primo giorno di Russian Arm, «una macchina che si utilizza nelle riprese in movimento e in velocità per filmare le altre automobili. Non conoscevo lo strumento e all’inizio è stato un delirio perché dovevo dare indicazioni al professionista che guidava, all’operatore che inquadrava con la macchina da presa e, ovviamente, ai piloti. Mi sembrava di essere in un videogioco, dove però avevo la responsabilità di tutto. C’è una componente adrenalinica che per me è fondamentale, vivo il mio lavoro in maniera molto fisica». Se nel sequel di Smetto quando voglio invece «la chiave era l’ironia di Sydney (Sibilia, ndr) e c’era da mettere a disposizione della sua idea una pratica attraverso cui poterla realizzare», Lyda ha una passione sfrenata per i combattimenti «e quindi Il primo re è stato pazzesco».

Ogni film costituisce una sfida diversa, «ma quello che accomuna tutti questi titoli è il metodo che abbiamo creato. Ho collaborato anche a un altro film prodotto da Rovere, Il campione, e lì avevamo a che fare con scene di calcio. Ma ragionavo con i calciatori esattamente come avevo fatto con i piloti e con gli stunt, creando delle coreografie. E la grande opportunità che mi ha dato adesso la regia pura per Curon è combinare la mia esperienza con la coreografia più bella, che è quella della recitazione. Un regista non può prescindere dal lavoro con gli attori».

Lyda non è solo l’unica donna italiana specializzata in action, ma anche regista della nuova produzione Netflix, che apre una strada per la serialità contemporanea di casa nostra. Quando le fai notare che il suo lavoro è pionieristico in più di un senso, ride quasi imbarazzata: «Stiamo recuperando dei generi che hanno sempre fatto parte della cinematografia italiana e che poi, anche per una questione di risorse, sono stati accantonati. E quindi adesso bisogna sfatare i pregiudizi del pubblico. Così ci troviamo spesso ad andare all’avventura con mezzi che non sono sempre sufficienti, a dover sopperire anche con una forma di inventiva, che però diventa un altro elemento di divertimento e stimolo».

Di Curon Lyda ha diretto le ultime tre puntate, quelle in cui c’è più azione, soprattutto in esterno, tra i boschi innevati dell’Alto Adige, e dove la storia si dipana: «Ho avuto la fortuna di lavorare con Fabio Mollo che è il regista dei primi quattro episodi. Abbiamo sensibilità ed esperienze molto diverse, che abbiamo condiviso e messo al servizio dell’altro. Poi ci siamo ritrovati con questa distinzione che però effettivamente corrispondeva alle nostre professionalità. Io amo molto girare nella natura, dove c’è sempre una componente fisica, con l’attore costantemente in movimento. È molto faticoso perché ti confronti con quello che ti succede intorno e ti devi adeguare. Ma anche i potenziali “contro” diventano opportunità». Curon unisce tutte le specificità e le passioni di Lyda, horror compreso: «Per me è il genere supremo perché esplora due elementi: la paura di quello che si nasconde dentro e fuori di noi, e il gioco con la vista, che è il senso principale del cinema. Ma è anche il più ingannevole».



Quando si fa da apripista per un filone, mancano i modelli locali a cui fare riferimento, ma non è stato un problema. «Tanta ispirazione ci è arrivata proprio dal paese di Curon e da tutto il Trentino Alto-Adige, che visivamente è un mondo dalle anime diverse, contrapposte. E questo corrisponde ai temi della serie. Poi ci siamo ispirati a prodotti del nord Europa, perché l’atmosfera e le ambientazioni sono quelle, a supernatural horror come Chambers e a serie tedesche come Dark, o francesi tipo Les Revenants e La Forêt, in cui è fondamentale il rapporto con l’ambiente circostante. Ma è essenziale studiare sempre parecchio, preparare ogni cosa e da lì poi capire come lavorare con quello che si ha a disposizione».

Nonostante tutto, la regia continua a essere un percorso complicatissimo, ammette Lyda: «Devi essere determinato, non poterne farne a meno. E una donna nell’ambito si trova ad affrontare difficoltà endemiche di questo Paese e che ci sono su tutti i fronti, partendo dalla politica. Ti trovi a dover sconfiggere lo scetticismo e conquistare una credibilità che il tuo corrispettivo uomo ha di base. È un’ulteriore fatica che toglie energia al tuo lavoro e ti penalizza». Di ostacoli Lyda, vista pure la sua specializzazione, ne ha incontrati: «L’aspetto anche esotico della regista donna che fa azione a volte attira, poi però c’è sempre il banco di prova. Lavorando con reparti che spesso sono puramente maschili, magari posso aver incontrato delle diffidenze, ma devo dire che alla fine viene valutato e riconosciuto il tuo lavoro». E ci sono nomi che lo dimostrano sempre più: «Indipendentemente dal fatto che sia una donna e che faccia action, Kathryn Bigelow è una grande regista e i suoi lungometraggi sono pietre miliari della cinematografia mondiale. Ma in Europa in questo momento ci sono tante donne che stanno facendo film considerati più prerogativa maschile: penso a Raw e a Julia Ducournau o a Revenge di Coralie Fargeat. Che poi sono gli uomini stessi a definire quei generi “maschili”. È questa la verità».

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