Mentre nel 2001 usciva al cinema Le fate ignoranti, Damiano Gavino nasceva. Una sera d’estate di qualche anno dopo, in Liguria, scopriva Mine vaganti in televisione e rimaneva incantato: «Quello è il mio primo ricordo del fenomeno Ferzan. Sai quando sei piccolo ma trovi qualcosa di magnetico nella storia?». Oggi Gavino è protagonista dell’ultimo film di Özpetek, Nuovo Olimpo, che arriva su Netflix dal 1° novembre dopo la presentazione in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Il quattordicesimo titolo del regista è il primo da protagonista per Damiano, che alle spalle ha zero scuole di recitazione e già due ruoli fortunati nelle serie Un professore e Shake. Scopriamo che con la sorella Lea Gavino (l’Artemisia di Michele Placido e la Viola di SKAM Italia 5 che ci ha rieducate definitivamente al tema del micropene) condivide la sindrome dell’impostore e un interessante richiamo verso personaggi audaci, quelli che rompono gli schemi, sì, ma perché non saprebbero fare altrimenti.
Ad Özpetek, invece, lo lega una visione dell’amore appassionata, quasi anacronistica, e in qualche modo l’uno si è rispecchiato nell’altro. Il regista che qui usa il metacinema per dirci “mettetevi l’anima in pace: parlerò sempre di sentimenti”; e l’attore che di fronte a un ruolo tanto complesso agisce di pancia, preferendo l’istinto alla tecnica. Tra prostetici, nudi integrali, una storia lunga decenni, via Giulia, terrazze romane mozzafiato e un’evidente somiglianza con “quello” Stefano Accorsi del 2001, incontriamo Damiano Gavino, fresco del ferzaniano battesimo. Ci racconta che al provino per Nuovo Olimpo si è presentato immaginando una storia sul ’78 delle Brigate Rosse e portando «un modo di fare dolce che alcuni mi attribuiscono, mentre altri mi dicono che ho la faccia da motociclista o da pistolero». Ma anche qui, come per Luisa Ranieri, a metterci lo zampino è stata Mina-ex-machina, protagonista della colonna sonora con E se domani e la nuovissima Povero amore. «Questo ragazzo da dove è uscito?», ha tuonato l’Irraggiungibile. «È meraviglioso». E la macchina è partita.
Partenza d’obbligo: questo debutto che effetto fa?
Per ora sono qui a casa a Roma, in attesa. Quando ho visto il film per la prima volta ho pensato che avrei voluto fare alcune cose diversamente. Ma poi mi sono detto che se ho interpretato Enea in quel modo, vuol dire che in quel periodo era giusto così. È come quando leggi una lettera che hai scritto dieci anni prima e ti fa strano, ma all’epoca eri quella persona, avevi bisogno di esporti in quel modo. È particolare rivedersi in questo ruolo tanto lontano da me, in cui però mi ritrovo. Sai, vivere l’intimità in quel modo, in una maniera travolgente, mi emoziona e mi appartiene. Ho provato a metterci del mio.
Ad esempio?
Sia con il personaggio di Alice (Aurora Giovinazzo) che con quello di Pietro (Andrea Di Luigi) c’è un’intimità particolare, quando parlano c’è sempre molta dolcezza tra loro, e mi ci ritrovo. Sono quei momenti in cui sei in due e basta, non esiste null’altro. Questo perché Ferzan è un esaltatore dell’amore in ogni sua forma. Gli piace e soprattutto ci crede, che è sempre più raro. Penso che l’amore sia un sentimento che lo mantiene vivo come persona e come regista.
Tu che balli E se domani di Mina su una terrazza romana: è il battesimo di Ferzan per eccellenza. Se c’è stata una scena in cui hai avvertito davvero di essere al centro del suo “tocco”, qual è stata?
Decisamente quella, la scena del ballo. Lì c’è il tocco di Ferzan e anche quello del personaggio Enea. Però penso anche alla scena in cui Titti (Luisa Ranieri) ed Enea si salutano negli anni Settanta, un arrivederci che sembra un addio: mi ha commosso tantissimo, pur avendola girata, perché c’è un sentimento di riconoscenza, di affetto quasi materno. Titti è un po’ la mamma di tutti i ragazzi che entrano al Nuovo Olimpo.
Titti-Luisa Ranieri è stata praticamente scelta da Mina: nel tuo caso come è andata?
Ferzan era partito con il presupposto di prendere attori più grandi. Poi ha chiesto al casting, Davide Zurolo, di abbassare un po’ l’età. Io avevo fatto diversi provini con Davide, anche a distanza di tempo, quindi mi aveva visto crescere. Mi ha convocato via mail e mi sono detto: “Vabbè, lo vado a fare, però è Özpetek”. Non avrei mai pensato di riuscire a centrare il ruolo. Un mese dopo mi hanno richiamato per fare un incontro con Ferzan e lui mi ha detto: “Guarda che Mina ha visto il tuo provino”.
Anche qui c’entra la benedizione di Mina?
Sì, c’è lei di mezzo anche qui (ride). “Mina ha visto il tuo provino e ha detto: ‘Ma da dove è uscito fuori? Meraviglioso’”. E io stavo lì con Mina, cioè con le canzoni che mia madre ha sempre fatto ascoltare a me e mia sorella nei viaggi in macchina: ti giuro, mi tremavano le gambe, che devo fa’? Da quello che ho poi intuito, Ferzan mi aveva già scelto senza dirmelo.
E sceglierti è stato quasi un salto nel vuoto.
Credo di aver intuito che interpretando un personaggio ispirato alla storia di Ferzan, lui abbia visto in me qualcosa del Ferzan giovane. Un modo di vivere le cose e di entrare in una scena che lo rappresentava.
Sei nato nell’anno in cui è uscito Le fate ignoranti. C’è una forte somiglianza tra te in questo film e l’Accorsi di quel film. Non sarò mica la prima a dirtelo…
No, non sei la prima a dirmelo (ride). Abbiamo fatto tantissime prove trucco, costumi, capelli, e quando sono arrivato sul set per girare le prime scene del 1990, proprio Ferzan mi ha detto: “Credevo che Stefano fosse venuto a trovarmi”. Più tardi lo hanno notato anche gli amici che mi conoscono da sempre, è vero. Che dire? Fa onore.
Ma tu ricordi qualcosa del primissimo Özpetek?
Penso subito a un’estate di parecchio tempo fa. Eravamo in vacanza in Liguria e c’era questa tv in salone: quella sera trasmettevano Mine vaganti. Ricordo chiaramente di essere rimasto incantato, sai quando sei piccolo ma trovi qualcosa di magnetico nella storia? Ero catturato senza capire perché. Ecco, questo è il primo ricordo che ho del fenomeno Ferzan.
Lo sai vero che sul web si chiedono “Chi è Damiano Gavino e cosa fa”?
Se ancora si sa poco è anche per scelta. In questo periodo per esporsi troppo basta un attimo. Questo film si basa su un incontro fisico, no? Io ti dico la verità: la mia generazione si salva per poco, perché io da piccolo giocavo ancora con i giocattoli, non con l’iPad. Ma mi permetto di dire che se il film fosse ambientato ai giorni nostri loro si sarebbero conosciuti su Instagram. Ultimamente mi sono presentato a tantissime persone, ma la maggior parte le avevo già viste sui social. Si è persa un po’ la sorpresa e l’autenticità nello stringere la mano a una persona nuova.
E la magia?
Quella, se sei bravo, resiste. La magia di innamorarsi, di rimanere travolti da una conoscenza. È solo più raro. Sei d’accordo?
Molto. È stato magico anche calarsi in un’epoca quasi mitica, per chi non l’ha vissuta?
Certo. È la malinconia di un tempo non vissuto, un concetto davvero interessante per me. Forse quell’epoca ci sembra così perfetta proprio perché non l’abbiamo conosciuta. Che poi è quello che ci dice Ferzan: se qualcosa ti travolge ma non la vivi fino in fondo, nella tua testa rimarrà perfetta per sempre. L’impressione di essersi persi un’epoca più libera e più leggera si incontra con i racconti di mia madre: c’erano anche aspetti molto negativi in quegli anni lì, come la politica di mezzo, dovevi per forza identificarti in uno schieramento. Mia madre mi ha parlato della paura di uscire di casa perché magari avevi la Vespa rossa oppure bianca: questa è una Roma che lei mi ha raccontato e che mi ha aiutato ad entrare nel vivo della storia.
Storia in cui non mancano né il sesso né scene di nudo integrale, quasi plastico. Eri a tuo agio come sembra?
C’era l’intimacy coordinator sul set, figura messa a disposizione da Netflix con la quale abbiamo collaborato io, Andrea, Aurora e Ferzan stesso. Abbiamo fatto in modo che tutto fosse perfetto per sentirci a nostro agio. Certo, facile non è. Ma d’altronde nulla è stato facile in questo film. Però io sapevo che avremmo girato quel tipo di scene, e credo che molto dipenda dal rapporto che si ha con il proprio fisico e con la propria nudità. Il mio è buono.
Piuttosto trovo antipatica la forzatura di intendere questo sesso politico solo perché omosessuale. Tu che ne pensi?
Che ne penso? Che il film sia una storia d’amore e basta. Racconta il coinvolgimento di due persone che si innamorano e vengono travolte da una passione inaspettata. Punto. Così era durante le letture della sceneggiatura, e così è nel risultato finale. Se ci pensi, in questo film vince l’amore, anche se non sembra. Perché ci sono tantissimi tipi d’amore e sono tutti fondamentali nella vita degli altri. Quello che arriva in modo veramente potente nel film è il concetto che, prima di abbandonare, si deve arrivare a un compromesso insieme.
Questo è anche un film sulle prime volte: qual è la prima volta che non dimentichi?
Il mio primo provino. È stato con Alessandro D’Alatri, senza di lui non starei facendo questo mestiere. Hai appena finito il liceo, entri in questa stanza con luci e macchina da presa e pensi: “Ma io che devo fa’ adesso?”. Mi ha aperto un mondo che ho sempre amato, ma non avrei mai avuto il coraggio di intraprendere quella strada da solo, come ha fatto invece mia sorella.
Tu e Lea siete stati trascinati dentro questo lavoro un po’ per caso.
Sì, però mia sorella ha avuto la lucidità di intraprendere anche un percorso di studi di recitazione alla Scuola Volonté mentre si laureava in Psicologia. Io ho seguito solo ciò che mi è capitato, mi sono limitato a salire sul treno.
Ora sei sicuro di aver preso il treno giusto?
Sicurissimo. Perché è una roba che mi fa stare bene. Ha i suoi lati oscuri, ti può portare su come ti può portare giù. Però a me questo movimento piace.
Sia tu che Lea avete raccontato di fare a pugni con la sindrome dell’impostore. Forse iniziamo a farci pace, dopo questo film?
Senti, ti dico questo: io ce l’ho. Ce l’ho ancora e ci convivo. Provo a dirmi che oh, mica è colpa mia. Ho fatto il mio e non sono io a scegliere. Parlando con attori anche più grandi di me, capisco che forse è una consapevolezza che arriva più in là.
Stai studiando, nel frattempo?
No, non sto studiando.
Dici “che me ne frega”.
(Ride) No, ma ti confesso che ho paura di perdere la mia naturalezza. Non tanto nel recitare, quanto nell’intuire tramite la lettura di una scena come quel personaggio, secondo me, si comporterebbe. Dal punto di vista del linguaggio del corpo e della voce, sono tutte cose che cerco di sentire tramite la lettura. Ti faccio un esempio: sono andato a fare il provino di Ferzan senza sapere nulla della storia, anzi, ero convinto che ci fossero dentro le Brigate Rosse, una tinta cupa legata al ’78, ad Aldo Moro. Pensando ai racconti di mia mamma avevo immaginato un po’ di mistero, che poi ho portato ai casting. E quel mistero in qualche modo ha funzionato: nel film c’è un clima particolare da sigarette, luce soffusa e camminate lente.
Soprattutto nei corridoi del Nuovo Olimpo, che alla fine ci dice: l’unico amore perfetto è l’amore impossibile. Be’, sei d’accordo?
Lo diciamo, lo diciamo. Ma io non sono d’accordo con quella frase. Sono d’accordo però con la connessione che rimane negli anni, come succede tra Enea e Pietro, la ritrovo anche io nella vita. Sai, può essere un odore, un profumo, un film che passa in tv. Se è vera, se è sincera, se è autentica, io sono dell’idea che una connessione rimanga.
Il tempo grava sul tuo personaggio sia con l’invecchiamento tramite prostetici, sia con il rimpianto di un legame che supera gli anni e la distanza. Tu sei appena ventenne: dove sei andato a pescare certe malinconie?
Potrei dirti tante cose non vere sul lavoro attoriale o sensoriale, che manco so come si fa. Il fatto è che la malinconia io ce l’ho di mio. Ed è una delle caratteristiche che ho portato nel film, insieme alla dolcezza. Ma soprattutto ricordiamoci che io avevo Ferzan sul set. Da lui ho rubato con gli occhi, ho osservato e imitato, ho assorbito i suoi racconti, perché Ferzan si racconta tantissimo.
In Nuovo Olimpo il cinema è un melting pot bellissimo, un luogo sicuro, d’incontro e di scoperta. Per te lo è ancora?
Oggi il nostro cinema e la nostra tv rappresentano qualcosa di molto diverso. Prima c’erano le sedie di legno, figurati, sono stato su quelle poltrone e garantisco che non sono comode. Eppure oggi che tutto è più comodo, tante persone della mia età non vanno al cinema, non guardano i film finché non arrivano in tv. Io la passione per la sala ce l’ho, la tengo viva con le persone a me care. Per me è qualcosa da condividere, e non porto nessuno al cinema se non ci tengo. Piuttosto ci vado da solo.