Come ci ricorda Dan Aykroyd nel suo nuovo e divertente audiolibro Blues Brothers: The Arc of Gratitude, c’è stato un momento nel 1978 in cui il suo amico e collaboratore John Belushi ha avuto un album di successo, un film e uno show televisivo, tutti insieme. L’album in questione era Briefcase Full of Blues dei Blues Brothers, la band di Aykroyd e Belushi, che da progetto secondario e “cazzone” si trasformò in un gruppo di successo con un film tutto loro, ormai leggendario, The Blues Brothers del 1980. (Il film del 1978, ovviamente, era Animal House e lo show Saturday Night Live.) Belushi è morto nel 1982, ma Aykroyd si esibisce ancora oggi nei panni dei Blues Brothers insieme al fratello di John, James Belushi. Il 17 agosto suoneranno a una convention dei Blues Brothers a Joliet, Illinois. Aykroyd, con i suoi occhiali da sole e il suo borsalino, ha recentemente parlato con Rolling Stone su Zoom per ripercorrere i suoi anni nella band e altro ancora.
Come stai, amico?
Ehi, ascolta, gli occhi si sono aperti anche stamattina. La vita è una benedizione ogni giorno. Sono così grato. Sono così grato per tutto ciò che di bello e di brutto mi è successo, e sono così grato di poter avere il privilegio di invecchiare. Molti non hanno potuto farlo. Ho perso mio fratello, ho perso il mio amico [proprietario dei Seattle Seahawks] Paul Allen, ho perso John [Belushi] troppo presto. Abbiamo perso molte cose e io sono ancora qui, quindi sono felice, e molto grato.
Dal punto di vista emotivo, com’è stato tornare così tanto indietro, negli anni Settanta, e ricordare John in modo così dettagliato?
Be’, è stato esaltante e allo stesso tempo direi che ho provato un certo grado di malinconia… o ci sono parole più forti per definirlo. E ho dovuto un po’ rivivere quel dolore, quando ho scritto il testo. Questo lavoro mi ha insegnato che non avevo elaborato del tutto molte cose.
È divertente ricordare che la tua idea originale per la band era un po’ più “piccola”. Sembra che tu volessi fare del blues puro e semplice e non tanto soul e altre cose.
Eravamo certamente orientati in quella direzione. Anche se ho sempre amato il jump swing: Cab Calloway, Winona Harris, Jimmie Lunceford e poi Bobby Bland. Ci pensavo sempre. E così, quando abbiamo iniziato, hai assolutamente ragione… John e io pensavamo: “Sì, il blues, questo sarà un gruppo blues con l’armonica, forse tre o quattro musicisti”, ma poi lo espandi con i fiati e fai canzoni come Who’s Making Love di Johnnie Taylor [del 1968], e allora capisci che, ehi, questo può essere blues, ma può essere molto più “grande” e più divertente da ballare, che è sempre stata una parte importante del nostro spettacolo. Quando abbiamo reclutato [Steve] Cropper e Donald “Duck” Dunn [di Booker T. and the M.G.s], che sono stati i chitarristi che hanno suonato insieme a Otis Redding, Wilson Pickett, e chi più ne ha più ne metta, “Duck” ci disse: “Potreste pubblicare un album blues, ma venderà solo fino a un certo punto. Dovreste fare una canzone soul. Dovreste fare una canzone R&B. Dovreste rifare Soul Man”. Così Duck Dunn ha “allargato” il nostro progetto iniziale. E poi, una volta che la band si è formata, è diventata, sì, la casa del “Chicago blues”, tanta armonica e tanta chitarra, ma con un fusione con la scuola di Memphis. Si trattava di Stax/Volt e Chicago messi insieme, di grandi session player di New York che veneravano non solo il blues, ma anche Stax/Volt, R&B e jump swing, e così divenne uno dei più grandi gruppi di tutti i tempi, con quel batterista diciannovenne, Steve Jordan, e un’atmosfera di festa intorno all’intera band. È stato questo il vero motore: la musicalità era superba, le canzoni superbe, tutte tratte dal grande canzoniere afroamericano. Ci siamo presentati come frontman con la voglia di divertirsi, ma anche strambi, venuti per venerare quegli artisti e per indicare che i musicisti di un tempo erano le vere superstar.
Cosa ne pensate del fatto che Steve Jordan era il batterista dei Blues Brothers e ora è il batterista dei Rolling Stones?
Be’, non sono fortunati ad averlo? Steve Jordan è stato la guida di quel disco. Ha creato il nostro sound. È stato fantastico. Non ho visto l’ultimo tour degli Stones, ma devo andarci. Credo che presto passeranno dal Canada. Steve è uno dei più grandi percussionisti del mondo, un atleta della batteria, e ha un’enorme conoscenza della musica. Gli Stones ne saranno entusiasti. Ed è anche una persona favolosa con cui uscire a divertirsi. Me lo vedo con Keith e Ronnie…
Dall’audiolibro ho avuto l’impressione che Lorne Michaels non abbia necessariamente amato l’esibizione dei Blues Brothers al Saturday Night Live.
Credo che quella sia stata più la reazione dei musicisti dello show che di Lorne. Era un grande fan di King Bee, e quella è stata la prima apparizione dei Blues Brothers al SNL, quando abbiamo appunto fatto King Bee con i costumi da ape, i cappelli e gli occhiali. E ci siamo divertiti molto, anche se a John non piaceva lo sketch delle api, perché doveva indossare quel costume.
Qual è stato il momento in cui avete capito che John era in grado di guidare la band, che poteva essere il vostro cantante?
Be’, quando l’ho visto fare Joe Cocker. Lì ho visto il talento musicale, i movimenti… sapeva fare qualsiasi cosa. John al Second City era leggendario. Lì le sue mosse erano leggendarie. Dal primo momento in cui l’ho incontrato, non ho avuto dubbi sul fatto che avremmo potuto farcela. Probabilmente eravamo i cantanti o i musicisti meno talentuosi dell’intero gruppo, ma ci affidavamo e puntavamo su questi meravigliosi musicisti che suonavano con noi.
Già negli anni Settanta avete subìto critiche per appropriazione culturale. Sembra che la vostra controargomentazione sia che l’intento del vostro progetto era la tutela di quella tradizione, perché la musica che stavate cercando di riportare in auge stava già passando di moda negli anni Settanta.
È sempre stato così: la missione di Dio era sicuramente la conservazione culturale. Ci divertivamo a farlo, e questa era sicuramente una motivazione per farlo bene. E lo abbiamo fatto elevandolo al livello cinematografico. È questo che ha allargato e ampliato la percezione che il pubblico ha di questi grandi artisti e ha fatto esplodere il blues in tutto il mondo, almeno un po’ più di quanto non fosse già. Abbiamo conservato su pellicola James Brown, Aretha Franklin e John Lee Hooker e, nel secondo film, Junior Wells. Quindi, la salvaguardia è sicura. L’House of Blues Radio Hour è stata appena accettata negli Archivi Permanenti della Biblioteca del Congresso, con le nostre duemila interviste in cui abbiamo promosso artisti blues e venduto biglietti e dischi per quasi 25 anni. Quindi, sì, di sicuro la conservazione di quel patrimonio è il punto a cui volevamo arrivare, in termini di motivazione principale. Ma c’era anche solo il divertimento, nel fare tutto questo. Per le canzoni che abbiamo cantato ci sono stati offerti accordi del tipo: “Ehi, sentite, date [ai musicisti] un pagamento in contanti e poi potrete avere tutti i diritti di questa canzone, potrete possederla”. E noi non l’abbiamo fatto con nessuna delle canzoni. Abbiamo lasciato la pubblicazione dov’era. Volevamo assicurarci che gli artisti originali viventi ricevessero tutti i proventi.
È stato sorprendente ricordare il palese razzismo che si è manifestato quando avete distribuito il film? The Blues Brothers non ha avuto una distribuzione capillare in luoghi come l’Alabama perché presentava molti artisti neri. All’epoca sei rimasto sorpreso da questa situazione, oppure corrispondeva alla tua percezione dello stato delle cose in America?
Nel 1980? Ma dai! Ero sorpreso sì! Eravamo tutti sorpresi e scioccati.
Quando hai scritto la prima bozza della sceneggiatura, si trattava di un testo di oltre 300 pagine che, secondo te, conteneva almeno due film.
Volete mettere tutte le idee che avevo sulla pagina, nero su bianco. Il titolo era The Return of the Blues Brothers. Volevo fare la prima storia, poi la seconda, e volevo inserire tutto quello che ricordavo di aver vissuto in Illinois e a Chicago, con la cultura urbana di quel posto come personaggio. Non sapevo come scrivere una sceneggiatura, l’ho fatto e basta. Ma ricordo che Bob Weiss, il nostro produttore, ci disse che stava attraversando la stanza della Universal in cui battevano a macchina i copioni e ridevano tutti. E Bob ha chiesto: “A cosa state lavorando?”. “The Blues Brothers”. Tornò a dirmelo e io dissi: “Andrà tutto bene”. Soprattutto grazie alla bozza che John Landis e io abbiamo ultimato per le riprese. Ora, l’unico motivo per cui è diventato un film è che Landis è un regista esperto, un cinefilo. Conosce la struttura, il ritmo, è un vero autore. Ha fatto un lavoro magistrale nel distillare quelle 350 pagine. Direi che abbiamo girato probabilmente un quinto di quelle 350 pagine.
Quando hai girato Ghostbusters, quell’esperienza ti ha insegnato qualcosa in più su come scrivere una sceneggiatura?
Oh, sì, certo. Anche perché il mio partner era Harold Ramis.
Sul set di The Blues Brothers, John aveva probabilmente giorni buoni e giorni cattivi. Era in preda alla dipendenza. Come suo amico, ma anche come persona che stava cercando di realizzare il film e che era così creativamente impegnata, come hai affrontato la situazione? Quanto hai dovuto essere attivo nel gestire la situazione?
Be’, sono stato molto attento e ho monitorato il suo comportamento minuto per minuto. E poi ho anche lasciato andare un po’ il guinzaglio, sapendo che, se avessi tirato troppo forte o avessi opposto resistenza, se ne sarebbe andato. Quindi, l’ho gestito con molta attenzione. Ho cercato di dosare il controllo, cosa molto difficile quando a qualcuno piace la cocaina. Misurare il controllo, cercare di nascondere una bustina di tanto in tanto e assicurarsi che ce ne sia abbastanza in giro per poter continuare. Oppure assicurarsi che ci siano giorni in cui non si fa, notti in cui non si fa. Non ricordo episodi gravi. C’è stata una mattina in cui sono arrivato al lavoro e lui la sera prima si era divertito a fare qualsiasi cosa. Era la scena in cui siamo in macchina con gli altoparlanti per promuovere lo spettacolo. “Ehi tu, sulla moto”: quella scena. Era un po’ scosso allora. Ma ricordo che stavamo passando davanti a una libreria e all’improvviso si è animato e ha detto: “Ferma la macchina”, così, nel bel mezzo delle riprese. Così ho fermato la macchina. Lui è sceso ed è entrato in quella libreria proprio lì, per poi uscire di corsa dopo un paio di minuti. Tirò fuori un ritratto di W. B. Yeats, il poeta irlandese. E in quel ritratto in particolare, mi assomigliava, era molto simile a me. Mi disse: “Sei tu!”. Io risposi: “No, è W.B. Yeats”. Ricordo che quella mattina era un po’ nervoso, ma poi si è animato quando ha visto quel libro in vetrina e ha pensato che mi somigliasse. Io e Judy [la moglie di Belushi] lo controllavamo a vista, ma non potevamo stargli stroppo vicino altrimenti sarebbe scappato come l’omino di panpepato.
Landis dice che in The Blues Brothers John non era al suo massimo come in Animal House, ma era sempre lui, ed è ovviamente strepitoso nel film.
Sì, è un attore strepitoso. John è fantastico in The Blues Brothers. Assolutamente. Alcune scene sono semplicemente fantastiche.
In che misura ci sono stati tentativi di interferenza dello Studio con il film durante la sua realizzazione?
Non tanto dal punto di vista creativo, quanto da quello dei costi. Perché non c’era un budget formale quando siamo andati a Chicago e abbiamo iniziato a lavorare. Sono stati molto pazienti. Alla fine il film è costato 28 milioni, che oggi sono un vero affare. E anche all’epoca non era poi così male, i budget cinematografici stavano iniziando a salire. Ma si trattava di un film di grande qualità, e la Universal oggi possiede un classico, per sempre. Hanno fatto tanti soldi col film.
A quel punto, tu avevi un certo potere e l’hai usato brillantemente. Hai portato sullo schermo le tue idee più assurde. Amavi il blues, il paranormale, e hai fatto grandi film su questi temi. Hai mai pensato: “Be’, so che questo tipo di accoglienza non durerà per sempre. Devo cercare di fare quello che voglio adesso”?
Be’, sicuramente ero consapevole del fatto che mi era stata data l’opportunità di arrivare a proporre un film e di realizzarlo. Ero consapevole del fatto che tutto questo è fugace e che è meglio che farlo in fretta? No, perché nel momento in cui lo facevamo, pensavamo solo a farlo. Non ho mai pensato che fosse una cosa che sarebbe finita, perché è andata avanti per un po’ in termini di recitazione e scrittura.
Questo è sicuro.
Poi, quando è finito, è finito da solo. Anche se ho appena recitato in un film dei Ghostbusters al cinema (Minaccia glaciale, uscito quest’anno, ndt)! Sono ancora lassù sullo schermo. Sono rimasto troppo a lungo, ve lo dico io. Ora, naturalmente, ho molte idee, ma so che ci sono poche possibilità di realizzarle, e sono realista al riguardo. Sono i giovani, i più giovani, a scrivere ora. La fiaccola è stata passata, e ora vedo come sia stata fugace. Vedo com’è andata solo a posteriori.
Ti è piaciuto quel periodo vissuto nel cuore della cultura pop?
Molto. Mi sono piaciute le collaborazioni con le persone con cui ho lavorato. E mi è piaciuto fare film con i migliori del settore. E naturalmente vivere a Los Angeles, che privilegio vivere negli Stati Uniti. È stato un sogno vivere un sogno, essere – anche se mi definisco solo un fortunato attore che ha sempre lavorato – una star del cinema all’epoca. E avere la possibilità di scrivere e di avere tre figli con una bellissima compagna e moglie. E poi aprire la House of Blues, dove abbiamo potuto fare concerti spettacolari. Ho potuto suonare con Little Richard! Ho suonato con James Brown cinque volte. Non davo nulla per scontato allora, e non lo faccio nemmeno adesso.
Penso che tu non fossi d’accordo col fare Ghostbusters II, ma ho l’impressione che invece sia sempre stato interessato ad altri film sui Blues Brothers. È triste pensarci, ma aveva immaginato anche John che ci sarebbero stati altri film sui Blues Brothers, mentre stavate girando il primo?
Stavo scrivendo Ghostbusters per lui. Stavo scrivendo una battuta per lui quando ho saputo che era morto, quindi mi aspettavo di fare quello con lui. Ma non avevamo in mente una seconda storia [di The Blues Brothers], non all’epoca. Il secondo film è una piccola-grande coda del primo. La canzone di Erykah Badu valeva il prezzo del biglietto. Sono contento di aver lo fatto e avrei voluto che ci fosse stato Jimmy [Belushi], ma sono stati tutti bravi, è stato divertente.
James Belushi dice che tu lo contatti sempre per avere idee per un nuovo film.
Non proprio. Forse ogni tanto. Ma Ghostbusters II, visto che ne hai parlato, tutti volevamo farlo. Si trattava solo di trovare la storia giusta. E poi convincere [Bill] Murray ad accettare. Alla fine siamo riusciti a trovare qualcosa che piacesse a tutti, e ci è voluto tanto tempo per realizzarlo, ma è un ottimo sequel del primo. Il fiume di melma! Nessun film è perfetto e ci sono alcune cose che avrei cambiato, ma è stato sicuramente un ottimo seguito.
Il 50esimo anniversario del Saturday Night Live è alle porte. Quando faranno l’inevitabile speciale, c’è qualcosa in particolare che vorresti fare?
Be’, non lo so. Penso che prima dovrei essere invitato. Non posso entrare senza un invito. Ci penserò quando e se lo riceverò e, a proposito, voglio sollevare Lorne dall’invitarmi perché se ci andrò, ci saranno almeno 15 persone che vorranno venire con me. E non ci sono abbastanza sedie, né abbastanza biglietti. Dico: “Lorne, mangiamo una bistecca insieme da Wally” e gli risparmio l’angoscia. Perché pensa alle centinaia di persone che saranno lì. Tutti vorranno che cinque o dieci persone vadano con loro. Sarà assurdo.
Per cosa speri che John Belushi venga ricordato di più?
Be’, quello per cui sarà sempre ricordato non possiamo cambiarlo: il lavoro spettacolare che ha fatto e la modalità ignominiosa della sua morte. È tutto lì. Ma penso che se si dovesse informare la gente su chi era in privato, be’, era colto, caloroso, divertente, magnetico. Era una vera e propria lampadina da mille watt. Aveva un sacco di amici molto influenti e intelligenti ed era uno di quegli individui magnetici che volevi sempre avere intorno, al pari di un Elvis o di un Hendrix. Una personalità super-mega-amplificata e molto divertente e compassionevole e gentile e intelligente negli affari. Semplicemente, un grande essere umano. Lo era davvero.
Parlando di persone che non ci sono più, Carrie Fisher ha recitato in The Blues Brothers, e voi due in quel periodo avevate una relazione: questo ha condizionato il film?
Non ricordo nulla di specifico, se non che ero innamorato di lei.
Chi potrebbe biasimarti.
Che spirito, che mente, che grande essere umano era. Era meravigliosa. E anche la sua famiglia era meravigliosa. Mi hanno accolto a Los Angeles, suo fratello e Debbie (Reynolds, sua madre, ndt) all’epoca in cui ci frequentavamo e uscivamo insieme, e mi hanno semplicemente fatto entrare nella loro famiglia. Ero un ragazzo solitario di Hull, nel Quebec, e loro mi hanno accolto e sono stati molto calorosi.
È stata una vita selvaggia finora, Dan.
E, come ho detto, sono grato per tutto questo e sono grato per il domani… se tutto va bene.