«Mi sa che sto parlando troppo» dice David Letterman, seduto nel suo ufficio sulla West 53rd a New York. Abbiano concordato 45 minuti di intervista, e ne sono già passati 44.
E dopo quasi 50 anni di televisione in diretta, David sa istintivamente quando il tempo sta per finire. Di solito non ama parlare di se stesso, quello che ha da dire lo dice nel suo programma, ma quella di oggi è una specie di intervista riassuntiva della sua carriera. Alle 17.30 di mercoledì 20 maggio, Letterman dà la buonanotte, le luci dell’Ed Sullivan Theater si spengono, e il Late Show With David Letterman va in onda per l’ultima volta dopo 33 anni.
Io l’ho incontrato agli inizi di aprile, subito dopo aver finito di girare la puntata numero 5994. Si era appena cambiato, dalla giacca e cravatta che indossa in onda al suo tipico abbigliamento da sera: maglietta Carhartt con le maniche lunghe, pantaloni di tela verdi e un paio di vecchi stivali che non sono solo fuori moda, ma lontani dal concetto di moda stessa. Aveva il naso un po’ scottato dal sole, un ricordo delle vacanze passate nel Wyoming (a sciare) e a St.Bart (dove ha una casa), e dietro agli occhiali con la montatura color ambra i suoi occhi apparivano stanchi: «Quando Johnny Carson ha smesso gli ho chiesto il motivo, e lui mi ha risposto dicendo: “Non ho più le forze”. Aveva ragione, e ora capisco il perché».
Letterman se ne va da campione, ovviamente, dopo aver cambiato non solo il modo di fare i talk show serali ma l’idea stessa della comicità televisiva. Ha insegnato a più di una generazione cosa vuol dire essere divertenti. «Il suo show ha ispirato non solo il nostro modo di lavorare ma anche quello di relazionarci con le persone» dice Tina Fey, sua fan da quando aveva 10 anni e lo vedeva nel suo primo programma mattutino nel 1980. Dopo 16 Emmy Awards, anche Jay Leno ha riconosciuto che Letterman è il migliore.
Gli ultimi anni del suo show sono stati ricchi di colpi di scena: la puntata che ha fatto senza pubblico quando l’uragano Sandy ha colpito New York, il suo leggendario incontro con Joaquin Phoenix. Ogni tanto ha dato la sensazione di non preoccuparsi più tanto di quello che succedeva in onda. Un’impressione rinforzata dal fatto che lo ha detto lui stesso: «Non mi preoccupo più. Dopo 6000 puntate, chi voglio prendere in giro?». C’è anche una parte di lui che non vorrebbe lasciare, come se lo facesse perché pensa di doverlo fare e non perché è davvero pronto: «Se fosse per me non smetterei» ha detto ad Howard Stern l’anno scorso, «D’altra parte la decisione non spetta solo a me, e non si può andare avanti per sempre».
Jerry Foley è stato il regista del Late Night with David Letterman per 20 anni: «Ultimamente lo vedevi andare in giro per il teatro ad immergersi nell’atmosfera dello show. Due settimane fa lo abbiamo trovato in piedi dietro alla batteria durante uno stacco pubblicitario, un posto in cui il conduttore di solito non va mai.
Altre volte se ne va in giro a piedi lungo la 53esima, lo vedi che assapora il momento e si carica». «È pronto per accettare la fine?» dice la sua spalla, Paul Shaffer, «Non credo proprio. È più uno che dice: “Oh Dio, cosa ho fatto?”».
«Quando Johnny Carson ha smesso mi ha detto: “Non ho più le forze”. Aveva ragione, e ora capisco il perché»
Per tre giorni a settimana, Letterman si sveglia nel suo appartamento a Downtown alle 6 del mattino, guida fino al suo ufficio tra la 53esima e Broadway e torna a dormire. Prima si spostava in un orario più normale, ma ad un certo punto ha deciso che odiava troppo il traffico e preferiva dormire a pezzi piuttosto che passare anche solo 15 minuti in più imbottigliato nell’ora di punta. Quindi ora arriva nella sua suite al dodicesimo piano verso le 6.30, dorme altre tre ore e poi si alza: «Fresco e riposato, pronto per la giornata». Parla con i producer, fa qualche telefonata, rivede i monologhi ma partecipa raramente alle riunioni di redazione e non fa mai le prove. «Il mio contributo oggi è sempre minore» spiega «Di solito entro e dico: “I produttori siete voi, non io. Chiamatemi quando è tutto pronto, cominciamo e poi vediamo: andrà tutto bene oppure no”». Fa una pausa studiata: «Il che forse è un indicatore del fatto che non dovresti condurre uno show alle undici e mezzo di sera per così tanto tempo». Alle 14.45 scende al secondo piano, e va in camerino per truccarsi e indossare: «Il mio piccolo costume», alle 16.25 sale sul palco per un breve scambio di battute con il pubblico (in origine due minuti e mezzo al massimo, adesso se se la sente può arrivare anche a sette o otto), e poi comincia lo show. Quando finisce di registrare torna su per la riunione conclusiva (in cui ora, rispetto ai vecchi tempi, si sentono molte più risate che urla). Se un ospite è venuto a promuovere un film, lo guarda nella sala proiezioni. Alle 20.30 torna a casa, e alle 23 mette a letto suo figlio Harry. Il giovedì mattina porta Harry a scuola, va in studio, registra due puntate: «E poi torno a casa e prendo i cani» (i suoi due Labrador Sully e Dutch). Sale in macchina, guida fino alla sua casa a Westchester Country, ad un’ora da New York: «E a quel punto comincia il vero divertimento».
Dopo l’intervento al cuore quindici anni fa, il momento di svolta più importante della sua vita è stato il 3 novembre del 2003, quando alle 23.53 (quando di solito lui è in onda e sta per lanciare la Top Ten List), è nato suo figlio Harry Joseph Letterman.
Gli ha dato il nome di suo padre, che faceva il fiorista nell’Indiana ed è morto quando lui aveva 25 anni. Tutti sanno quanto diventare padre gli abbia cambiato la vita.
Ne aveva parlato per anni, ma passati i 50 sembrava non dovesse più accadere.
E invece, all’improvviso, eccolo padre a 56 anni. Lui ci scherza sopra, dice di non aver paura di viziare troppo Harry: «Perché quando avrà l’età per andare in giro a rubare macchine, papà sarà già morto». Cerca comunque di dargli qualche lezione importante quando può, tipo insegnargli a raccogliere le lattine di birra in strada: «Anche se non so se sarà una cosa importante per lui, ma la cosa che lo rende più felice è portarlo a pescare». Nella loro proprietà a Westchester c’è un laghetto pieno di carpe, trote «e una tartaruga cattiva che morde sempre, grande come questo tavolo. Abbiamo preso tutto, tranne la carpa. Io non voglio averci niente a che fare, ma Harry è molto determinato: “Papà, andiamo a prenderla!” Io me ne sto lì sul bordo del laghetto sperando che non si faccia vedere. Sono pesci grossi, ti possono uccidere! Si muovono come un’armata, stanno lì fermi in attesa! Insomma, è così che passiamo i nostri fine settimana».
Quando il Late Night with David Letterman è andato in onda la prima volta sulla NBC, il 1 febbraio del 1982, lo show televisivo più popolare era Dallas, MTV aveva solo sei mesi di vita e c’era ancora Fonzie. Se Jimmy Fallon durasse quanto Letterman si ritirerebbe nel 2042. «Mi piacerebbe che questo show durasse abbastanza a lungo da segnare una strada per la televisione americana. Se riuscissimo ad andare avanti cinque anni sarebbe un successo» ha detto al tempo. Si è sottovalutato di almeno sette volte. Ma si è anche ripromesso di: «Non stare troppo in giro». E a volte ha paura di averlo fatto: «Rispetto agli altri talk show sono come un vecchio paio di scarpe che non metti più da una vita, le guardi e pensi: “Forse dovrei buttarle via!”. Mi piace ancora quello che faccio, ma forse non è quello che la gente vuole vedere alle undici e mezzo di sera».
«Vorrei fare il mio show tre giorni a settimana per due sole settimane al mese. Esiste uno show del genere?»
All’inizio si diceva che non era molto bravo a fare interviste e che spesso era cattivo con i suoi ospiti. «Non era il suo punto forte» ammette la sua storica spalla, Paul Shaffer, «Ma è migliorato molto». Adesso è uno dei migliori conversatori televisivo, sia che si tratti di parlare con un ospite che di raccontare la storia di un orso che entra nel giardino della sua casa nel Montana. Può essere ancora cattivo, ovviamente, ma preferisce lasciare che i suoi ospiti si mettano in imbarazzo da soli. Johnny Carson una volta ha detto che i talk show: «Si reggono in piedi solo grazie al tizio che sta dietro alla scrivania». Senza offesa per Stephen Colbert (che ha preso il suo posto), Jimmy Fallon e tutti gli altri, dopo il ritiro di Letterman quella scrivania sembrerà più piccola. Lui parla con affetto dei suoi colleghi più giovani: lo show di Fallon è «Brillante e colorato», Jimmy Kimmel è «amichevole e molto gentile». La debolezza principale del suo show, dice, è: «La poca dimestichezza con YouTube. Quando sento parlare di cose che sono diventate virali, mi chiedo sempre: “Come si fa?”. A volte mi sembra di essere un rubinetto intasato». Forse vedendo quello che c’è in giro, non vale neanche la pena imparare a farlo. David Letterman è come l’ultimo dinosauro rimasto sulla terra dopo la caduta del meteorite, che osserva una mandria di allegri mammiferi scorazzare nelle praterie in cui un tempo imperversava solo lui.
«Quando non ci sarà più David non ci sarà più nessuno di cui avere paura» ha detto Tina Fey. Michael Keaton, suo amico fin dai tempi degli spettacoli al Comedy Store di Los Angeles negli anni ’70, ha detto: «A lui non piacerà sentirlo ma ho sempre pensato che fosse una cosa buona per lui non avere il massimo degli ascolti. Io lo trovo perfetto. Forse non è stato così famoso, ma tutti sanno che a livello qualitativo era il migliore».
Letterman ha annunciato in onda il suo ritiro nell’aprile del 2014 e lo ha fatto raccontando una storia: lui e suo figlio Harry stavano facendo una gita in una riserva naturale e hanno visto un’aquila. Non erano sicuri di che specie fosse e quando è arrivato al lavoro il lunedì mattina ha passato l’intera giornata a cercare di capirlo. Ha coinvolto tutti i membri del suo staff, ha cercato su Google, ha chiamato persino l’organizzazione ambientalista Audubon Society. E alla fine l’ha scoperto: era una giovane aquila di mare testabianca, il simbolo degli Stati Uniti. Quando è tornato
a casa, ha raccontato tutto a sua moglie Regina Lasko. «Bello» ha risposto lei, «Ma chi era l’ospite della puntata?». Non se lo ricordava. È stato quello, ha raccontato al pubblico, il momento in cui ha capito che era ora di smettere.
In realtà, dice: «La storia dell’aquila è arrivata al momento giusto». Non che fosse falsa, ma era già da un anno che parlava con Regina della possibilità di ritirarsi:
«Non voglio che lo show diventi sdolcinato o troppo stucchevole». Pubblicamente invece lo diceva da decenni. Nel 1991 ha detto a Carson: «Dieci anni sono abbastanza», cinque anni dopo ha detto a Rolling Stone: «Sono troppo vecchio». Ricordando una volta in cui ha detto che non si vedeva in televisione oltre i 40 anni, oggi scoppia a ridere: «Probabilmente ero in mala fede. Volevo portarmi avanti sulla domanda: “Quando smetterà?”. Ma non volevo farlo veramente».
Nel 2000 però è arrivato l’intervento al cuore, e poi Harry. I suoi contratti sono diventati sempre più brevi: quattro anni nel 2006, due nel 2010 e nel 2012. Nel 2013 ha superato il numero di puntate di Carson e si è ritrovato senza più traguardi da raggiungere. L’ultimo contratto che ha firmato era di un anno: «Il giorno dopo mi sono svegliato nel panico. Porca miseria! E se non ci riuscissi?». Quando sarà scaduto Letterman avrà 68 anni. «Ormai sono sereno, ho fatto pace con il fatto di avere 68 anni, ma fino a due anni fa pensavo: “Dio mio!”».
Il momento decisivo, tuttavia, quello che lui definisce: «L’ancora gettata in mare»
è anche quello più ovvio: quando il suo sparring partner Jay Leno ha appeso i guantoni al chiodo. «Mi ha preso alla sprovvista. Credevo che quel lavoro fosse suo per sempre: aveva ascolti alti e nessun segno di calo, e so che amava quello che faceva. È stata dura per lui». Quando Jay ha annunciato il suo ritiro, lo ha chiamato subito: «”Jay, davvero te ne vai?” Lui mi ha risposto di sì, e io: “Spero sia la cosa migliore per te, e mi spiace tanto”. È stato molto gentile e sincero con me».
Quando è arrivato il suo momento, il primo a cui lo ha detto è stato Paul Shaffer, che non è rimasto sorpreso: «Era un lunedì, stavamo preparando la puntata e lui mi ha detto: “Ho capito che è l’ora di smettere”. Ci sono questi show nuovi, condotti da giovani che hanno cambiato il format, farsi da parte è la cosa giusta». Qualche giorno dopo, esattamente un anno dopo l’annuncio di Jay Leno, Letterman ha riunito il suo staff in camerino. Il produttore esecutivo Jude Brennan era preoccupata che fosse malato. Lui ha cercato di sdrammatizzare la cosa («Ho cercato di renderla più semplice possibile, ma ero imbarazzato e a disagio. Non è stato divertente») ma per gli altri era una scena surreale, quasi comica. David si era tagliato radendosi e aveva un enorme cerotto insanguinato sulla faccia, dietro di lui c’era una radio accesa che tra tutte le canzoni del mondo stava trasmettendo Happy di Pharrell Williams. Il suo autore Matt Roberts ricorda: «Lui diceva: “Sta finendo una carriera trentennale” e io sentivo solo: “Clap along, if you feel”». «Pensavo che tutti mi avrebbero detto: Ok, lo capiamo. Invece Jude Brennan mi ha chiesto: “Perché adesso?” e io ho pensato: “Gesù, forse sto facendo un grosso errore”». Tre ore dopo è andato in onda e ha raccontato la storia dell’aquila.
«So che sembra stupido, ma l’ipocondria mi stava uccidendo»
Un mese prima l’ho incontrato in camerino dopo una registrazione. Era di ottimo umore, anche se aveva appena fatto un errore sbagliando il nome di un ospite musicale. La tipica scivolata insignificante che un tempo lo avrebbe fatto precipitare in una spirale di rabbia e autocommiserazione. Oggi invece ride: «Ho fatto un pasticcio, poi ho detto: “Mancano solo otto puntate, chi se ne frega?”», Shaffer conferma: «Ha sviluppato un atteggiamento tutto nuovo, del tipo: “Che me ne frega”. E si sta divertendo di più».
Nell’ottobre del 1981, il 34enne David Letterman è stato ospite in un programma di interviste chiamato Signature. Il suo programma del mattino era stato appena cancellato, e mancava un mese all’inizio del Late Show. In quel momento non sapeva neanche se avrebbe lavorato ancora in televisione. Il peso della sconfitta gli si vedeva addosso. L’intervistatore gli ha chiesto cosa aveva intenzione di fare: «Mi piacerebbe fare ancora televisione, credo che la mia vera identità sia quella del presentatore». Già allora era tutto quello che voleva fare. Quindi adesso che lo show non c’è più? «Non penso certo di andare in pensione» ha detto nel 2010, «Anche se non so ancora cosa farò. Forse metterò in piedi uno show a casa mia, metto una piccola scrivania e invito la gente. Intervisto quello che porta le pizze». Non vuole recitare in un film o in una sitcom. Ammette di essersi «Molto irritato» quando ha visto la web serie di Jerry Seinfeld, Comedians in Cars Getting Coffee: «Ho pensato: “Diavolo, quella è un’idea perfetta!”». Ha pensato anche di farne una sua versione ambientata nel suo ranch nel Montana: Comedians on Horses Getting Coffee. «Mi sembra meglio che vedere dei comici che vanno in giro in macchina. È a cavallo che vedi che razza di uomini sono» dice. Che ne dici di un podcast? «Sì, certo. Ma c’è qualcuno che veramente ascolta i podcast?». Sicuramente farà qualche evento pubblico, per esempio le interviste nella sua università, Indiana’s Ball State University ad ospiti come Rachel Maddow o Oprah Winfrey. «Mi diverto molto, quello sarebbe una cosa semplice e facile da cui cominciare. E potrebbe anche essere l’unica cosa che farò».
Quelli che lo conoscono dubitano che Letterman starà fermo troppo a lungo o sparirà come ha fatto Johnny Carson. «Il suo cervello è troppo attivo» dice il suo produttore Rob Burnett. Di solito passa il tempo a bombardare le persone di domande, apparentemente a caso, sulla storia, la geografia, l’erpetologia, la teoria fisica delle stringhe, il nome della casa della scrittrice Edith Wharton. «Lo ha fatto molte volte: si appassiona di una cosa e ci si butta per mesi» dice Matt Roberts, «Scopre l’astronomia, si compra un telescopio e all’improvviso conosce il nome di tutte le stelle e le costellazioni che ci sono in cielo. Se mesi dopo gli chiedi: come va con il telescopio? E lui: mi sto dedicando allo snowboard adesso». È come se avesse bisogno di una spina a cui attaccare la sua inesauribile curiosità. Come ha detto il saggio: nel cervello di un genio non c’è il tasto di spegnimento. «Senza la pressione di un talk show credo che Dave possa fare qualcosa di veramente bello» dice Rob Burnett, «Qualcosa che non deve piacere per forza a tutti». Chi può prevedere quale stranezza potrebbe tirare fuori, una volta che si è liberato dall’impegno e dalla gratitudine verso la CBS? «Mettiamola così» dice Dave, «Vorrei fare il mio show tre giorni a settimana per due sole settimane al mese. Esiste uno show del genere?».
L’ultima volta che lo incontro è di pessimo umore (lo intuisco dal fatto che mi accoglie dicendo: «Sono di pessimo umore»). Una battuta poco felice fatta durante il warm-up dello show ha scatenato un piccolo scandalo. Nel giro di 24 ore sarà già tutto finito, ma per il momento è una cosa che lo agita. Detto questo, è difficile prenderlo sul serio dato che è vestito con una salopette a righe bianche e blu, come un bambino al primo giorno di asilo. Qualcuno cerca di scherzare dicendo che sembra un ferroviere. «Magari» risponde lui imbronciato. Un tempo, un umore come questo sarebbe durato per giorni, adesso le nuvole nere sopra la sua testa si diradano in pochi minuti. È una novità: «Per molti anni, almeno 30 o 40, sono stato ansioso, ipocondriaco e alcolizzato. Oltre a molte altre cose. So che sembra stupido, ma l’ipocondria mi stava uccidendo. I dottori continuavamo a cacciarmi via: “Dave, non hai niente. Davvero!”. Alla fine ho capito che era solo una manifestazione dell’ansia».
«Mi piace ancora quello che faccio, ma forse non è quello che la gente vuole vedere alle undici e mezzo di sera»
Ha compiuto 68 anni da poco. Il suo è un progetto di auto miglioramento continuo. Venticinque anni fa un medico gli ha consigliato di prendere antidepressivi, ma lui non lo ha fatto per paura che potesse condizionare la sua vena comica. Nel 2003 ha accettato di provare, con un dosaggio basso: «Ero scettico, nervoso e sospettoso ma mi ha cambiato la vita». Adesso pratica meditazione trascendentale e non parla più di dover «sostenere» la propria vita al di fuori dello show. Fa terapia regolarmente, la definisce «Una messa a punto emotiva». In effetti stasera sta andando dallo psichiatra, il che spiega almeno in parte il modo assurdo in cui è vestito: «Mi piace perché è comodo e rassicurante». Una volta ha detto che ci sono soprattutto due cose che lo motivano: il senso di colpa e la paura. Ultimamente non ha avuto bisogno né dell’uno né dell’altro. Gli riesce difficile parlare della sua eredità, la cosa più vicina ad un’ammissione è che è «pensieroso». Forse perché non è ancora pronto per processare la cosa pienamente, oppure perché è semplicemente troppo grande per prenderla in considerazione da qualsiasi prospettiva. «Il lavoro che ha fatto parla da solo» dice Burnett, «Trenta anni sono un oceano».
Rimpianti? Qualcuno. «Vorrei essere stato più costante, più concreto nelle mie esibizioni. Vorrei non essermi fatto distrarre dalle cose negative, vorrei essere stato indifferente alle critiche». E vorrebbe aver iniziato a fare figli prima, in modo da poterne fare un altro, preferibilmente una bambina. «Non mi ricordo molti momenti, se mai ce n’è stato uno, in cui si è goduto il successo» dice Burnett, «È fatto così. A pensarci è un po’ triste, ma io credo che in qualche momento riconoscerà i risultati che ha raggiunto. È impossibile non farlo». Per ora cerca di non pensare al prossimo settembre. Le vacanze estive saranno finite, Harry tornerà a scuola, Colbert andrà in onda: «Carson mi ha detto che dopo il ritiro gli ci è voluto un po’ per mandarla giù. Quindi so che in autunno il mio stomaco mi dirà: “Ma sono veramente in vacanza?”». Nel frattempo: «Ho deciso di dedicarmi completamente a mia moglie e mio figlio. La mia agenda non è più un problema, qualsiasi cosa loro vogliano fare, io ci sarò». Si è comprato una guida sul trekking a piedi attraverso gli Stati Uniti, e non vede l’ora di visitare alcuni parchi nazionali come Arches nello Utah. Un amico gli ha anche organizzato una battuta di pesca nel Montana, lungo il Big Hole River. «Sarà una grande estate» dice.
Harry gli ha regalato per il compleanno una canna da pesca giapponese tenkara: «Non ha il mulinello, si allunga e ci attacchi la lenza». A quanto pare è perfetta per i ruscelli. Lui e Harry non vedono l’ora di andare a provarla. «Non ho idea di come funzioni» dice Letterman, «Ma sono felice di imparare».