Milanese, trentasette anni di cui molti trascorsi a Londra o in giro per il mondo lavorando come videomaker, perlopiù in pubblicità. Alle spalle un cortometraggio premiatissimo anche a Cannes e Venezia, Food for Thought, una sorta di thriller sul cibo spazzatura. Davide Gentile però non ha studiato cinema, non ha frequentato l’ambiente (tantomeno quello della capitale) e la sua non è la classica storia del regista che finalmente trova qualcuno pronto a investire nella sua opera prima.
Denti da squalo (al cinema dall’8 giugno con Lucky Red) segue un altro percorso: la sceneggiatura vince il Premio Solinas e Gabriele Mainetti vuole produrla, ma è ancora un tempo lontanissimo, addirittura prima di Lo chiamavano Jeeg Robot. Nove anni dopo, insieme a Valerio Cilio e Gianluca Leoncini (sceneggiatori del film), decide di affidare la regia al «pischello milanese» trapiantato all’estero, che così si ritrova a raccontare la periferia romana. Ci sono Ostia e Fiumicino, è vero, ma questo insolito dramma magico parla anche di figli che devono perdonare i padri, dell’amicizia che può salvarti, del lutto che prima ti fa incazzare e poi ti costringe a crescere. E di uno squalo tenuto in cattività dentro una piscina: è la legge del più forte. C’è un momento nella vita in cui un ragazzino deve decidere che tipo di uomo vuole diventare e da che parte stare: Davide Gentile riesce a descriverlo senza fare il verso alla periferia romana, a tutti i film, le serie e le parodie sulla periferia romana, e senza costringerci a pensare “Dio, salvaci dall’ennesima storia sulla periferia romana”. Sorpresa: la sua è una regia romantica e quasi pudica, più interessata alle relazioni tra i personaggi che a farli prendere a testate.
Questa chiacchierata arriva dopo 24 junket e prima di una partenza per New York, dove rimarrà 46 ore per presentare il film, fare quattro interviste e partecipare a un podcast. «Io seguo il flow», dice lui sereno, ma intanto si accende una sigaretta dietro l’altra. «Stavolta mi sto concentrando su quello che è stato fatto anziché su quello che manca, come è stato sempre nella mia vita. Per me questo film non è un punto d’arrivo, anche se lo stanno promuovendo molto. So che era l’operazione giusta da fare per entrare in questo mercato, ma tornerò presto a fare le mie cose, anche quelle autoprodotte. Ho sentito tutto, la pressione, il budget, l’aspettativa. E ho fatto il mio lavoro. Conosco i miei limiti e sapevo che avrei fatto anche degli errori. Solo una cosa non potevo sbagliare: il protagonista. Il protagonista dovevo beccarlo». E infatti lo becca. Tra Claudio Santamaria, Edoardo Pesce e Virginia Raffaele, questo ragazzino di tredici anni – Tiziano Menichelli – è forse la rivelazione del film.
La sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini ha vinto il Solinas e poi è stata accantonata per anni. Perché?
Più che accantonata, è stata opzionata da Gabriele Mainetti, che un giorno avrebbe voluto produrla. I due sceneggiatori speravano che poi la dirigesse lui, così hanno aspettato il primo e il secondo film di Gabriele, finché non sono passati nove anni. Gabriele aveva questa storia in mano già prima di girare Lo chiamavano Jeeg Robot, ma non ha mai voluto dirigerla. Per lui era un tema delicato, ha preferito promuoverla senza entrarci dentro. Poi dopo un film come Jeeg ha fatto Freaks Out, è da lì non si torna indietro.
Ed è finita che Mainetti ha prodotto il tuo debutto, che poi è anche il suo, perché è la prima volta che produce qualcun altro.
Inizialmente c’erano un po’ di dubbi da parte mia su come avrebbe potuto gestire da neo-produttore un altro regista, essendo lui stesso un regista. Ne abbiamo parlato tanto. Lui aveva la sceneggiatura e il coltello dalla parte del manico, ma anche io ho avuto bisogno di capire se fosse il produttore giusto per me. Siamo arrivati a parlarci in modo diretto e onesto, ed è andata meglio di quanto pensassi.
Su cosa ti ha cazziato di più Mainetti-produttore?
Sulla tenuta mentale: essere sempre sul pezzo durante un set di otto settimane. Io non ero abituato. L’adrenalina e la cazzimma mi tenevano su fisicamente, ma la tenuta mentale a volte calava. Magari giravo una scena bella e sulla scena dopo ero più rilassato, più “seduto”. È una questione di lucidità, si tratta di dare la giusta importanza a tutte le scene. Gabriele mi ha stimolato molto in questo, mi ha punzecchiato sempre. E a me fa proprio bene che qualcuno mi dia qualche scappellotto in più.
Il film parte dalla perdita e racconta cosa succede a chi resta. Tu che rapporto hai con il lutto?
Io ho avuto due perdite importanti nella mia vita: mia nonna, quando avevo diciotto anni, che per me era una seconda madre perché son cresciuto più con i miei nonni che con i miei genitori. E poi uno dei miei migliori amici, che è venuto a mancare sei anni fa per un problema improvviso al cuore. È morto mentre faceva l’amore con la fidanzata, una delle cose più brutte della mia vita. Però non ho empatizzato con questo elemento della sceneggiatura. Ho vissuto questi due drammi ma non li ho utilizzati come strumento per immedesimarmi in quello che vivevano i personaggi. L’empatia è nata dal personaggio di Walter, questo bambino disconnesso dal mondo e un po’ fragile, com’ero anch’io alla sua età. Ricordo con dolore quegli anni lì, e da lì sono partito.
Il protagonista, Walter, è interpretato da Tiziano Menichelli, per la prima volta sullo schermo a tredici anni: è la grande sorpresa del film.
Sai che me l’hanno detta in molti, questa cosa? Tiziano ha un talento. Quando l’ho visto la prima volta giocava a basket con degli amici, e dopo un attimo ho capito: è lui. Ho percepito questa profondità d’animo e questa malinconia che lo contraddistinguono nel quotidiano. È il tipo di ragazzino che per nove mesi, mentre faceva i casting e poi quando girava il film, non ha detto niente a nessuno. I suoi amici non lo sapevano, invece un tredicenne che fa un film da protagonista normalmente lo dice a tutti, lo pubblica su Instagram. Quando Gabriele gli si è presentato la prima volta Tiziano era un po’ freddo, e io gli ho chiesto: “Ma ti sta simpatico?”. Lui mi ha risposto: “Be’, non lo conosco. Quando lo conoscerò, ti risponderò”. Non ha filtri.
Per intensità ricorda Elio Germano da bambino, ma con l’atteggiamento anarchico di Edoardo Pesce.
Hai centrato il punto. E alla fine il film è lui. Potevo sbagliare molte cose, ma non il protagonista. Dovevo beccarlo. Abbiamo fatto seicento casting e non abbiamo trovato un ragazzino su parte, aleggiava perfino l’idea di posticipare le riprese. Poi è successa ’sta magia: l’ho trovato per strada e l’ho difeso fino all’ultimo. Dopo un giorno di shooting ha avuto quaranta di febbre e ci ha costretto a un fermo produttivo di una settimana. I miei produttori erano molto preoccupati. “Te la senti?”, mi chiedevano. “Io lo so che è lui”, rispondevo, perché è come quando ti innamori. Non hai una spiegazione razionale, però sai che quella è la persona giusta. Ho avuto il benestare da Gabriele, che mi ha protetto anche se non era convinto. Tempo dopo, quando gli ho inviato il primo montato del film, mi ha risposto con un messaggio che ancora conservo: “Ci siamo sbagliati tutti: è strepitoso. Ha uno sguardo che ti comunica tutto”.
Parliamo del one man show di Edoardo Pesce, uno degli aspetti più riusciti del film. Quanto c’è di tuo e quanto ci ha messo di suo?
Edoardo è stato l’attore più propositivo, ci teneva davvero a dare il suo graffio. La scena della “zoccolata” (il personaggio del Corsaro usa come arma i classici zoccoli da mare in legno, nda) era diversa in sceneggiatura. Era previsto che fosse una pistola, più banale rispetto all’idea di Edoardo, che invece era legata al suo passato. Sua nonna lo sgridava con gli zoccoli, una cosa tipica di quegli anni, forse anche molto romana. Le lenti a contatto nere? Anche quella è stata una sua proposta per dare profondità agli occhi, per creare nello sguardo un buio simile a quello degli squali. Ho accolto le sue idee e mi sono concentrato sulle sfumature da portare all’interno delle battute.
Virginia Raffaele in un ruolo drammatico: qui è madre e vedova. Neanche a dirlo, è un elemento di hype del film. Strategia o colpo di fulmine?
Per il ruolo della madre non volevamo la solita attrice quarantenne simbolo della periferia romana, che poi sono sempre quelle quattro o cinque. Cercavamo un’idea nuova e Gabriele mi ha proposto Virginia, ma io non sapevo chi fosse, avendo vissuto per anni all’estero. L’ho googlata e non capivo, era una donna di spettacolo, non mi convinceva. Alla prima call si è presentata molto bella, con i capelli ben sistemati. Le ho detto: “Però ti devo fare un casting, lo sai?”. “Certo, assolutamente”. Al casting è venuta senza trucco, libera da ogni estetica televisiva, e poi ha fatto il provino: era già un’altra storia. Poco dopo mi ha invitato a vederla a teatro, ed è lì che sono impazzito. Ho capito la quantità di sfumature, toni e malinconie che aveva dentro, da regista potevo costruire davvero il personaggio insieme a lei.
Mainetti ha scritto: “Quale scelta migliore di un pischello milanese alle prese con un racconto ambientato tra Ostia e Fiumicino?”. Ma come è andata? Perché alla fine hanno scelto te?
È una domanda che mi son fatto anch’io. Circa altri sette registi sono passati al setaccio prima di me, ma nessuno aveva convinto davvero Gabriele e gli sceneggiatori. Poi è saltato fuori il mio nome, e da lì ci ho messo tre mesi a prendere il progetto. Volevano essere sicuri, avevano dei giusti timori: un milanese che fa un film romano, i miei cortometraggi che erano belli, sì, ma più estetici che recitati. A Gabriele ho detto: “Conoscimi come persona prima di valutare solo il mio lavoro”. Quindi ci siamo conosciuti per mesi, parlando in modo profondo delle nostre cose, del cinema, di quello che ci emozionava. Ha capito che persona fossi e si è convinto che ero giusto per il film.
Molti aspiranti esordienti avrebbero voluto essere al tuo posto, lo sai?
Lo so. Ho la sindrome dell’impostore nella vita, vivo con la sensazione che prima o poi mi sgameranno. Non ho mai studiato cinema, non ho mai desiderato fare cinema, non ho mai frequentato certi ambienti. Fare il regista è capitato per caso, prima facevo il commentatore sportivo, ma pure il venditore porta a porta. Puoi dire una cosa qualsiasi e io l’ho fatta. La regia è stato l’ennesimo tentativo di risollevare la mia vita quando non mi stimolava. Sono molto oggettivo sui limiti che ho.
Che limiti hai?
Un lavoro così profondo con gli attori è stato una novità, così come la costruzione del personaggio e della sua emotività. Poi non avevo mai fatto un set italiano nella vita. Poi non mi so accontentare. Però ho una testa produttiva, perché mi sono sempre autoprodotto, e in quel senso so di aver lavorato bene.
Sempre Mainetti ha definito la tua regia “candida e limpida”, ti ci ritrovi?
Sì. Rispecchia come sono fatto, è il mio tratto caratteriale e racchiude anche le mie mancanze. Ho letto una recensione in cui dicevano che la parte thriller del film è forse quella meno riuscita: son d’accordo. Di fronte alla violenza e al graffio faccio più fatica. Il prossimo passo sarà quello di sventrare un po’ questa mia facciata inibita, di osare di più. Però il romanticismo e la delicatezza resteranno sempre. Per esempio, ho fatto pochi close-up, come se fossi timoroso di avvicinarmi troppo alla scena. Ecco, perché non ho fatto uno stretto degli occhi di Edoardo Pesce? Perché mi sono tenuto a distanza di sicurezza, campo medio e primi piani. Detestavo l’idea di fare il fico, tipo “guarda cosa so fare da regista, eccoti un piano sequenza di tre minuti”, mi dà fastidio anche quando lo vedo negli altri. E poi volevo beccare l’emozione della recitazione senza rischiare di perdermi in svolazzamenti estetici.
Quest’opera prima ti è venuta a cercare, ma qual era il film che avresti voluto fare qualche anno fa?
In realtà ho conosciuto Valerio Cilio perché stavamo scrivendo insieme un soggetto, un trattamento da quaranta pagine. Le caratteristiche non si discostano molto da quelle di Denti da squalo: è la storia di una ragazzina di diciotto anni e suo nonno che si ritrovano dopo molto tempo e partono per un viaggio a tinte noir, ma con grandi momenti di leggerezza e condivisione.
Sarà il tuo prossimo film?
No, a distanza di anni non penso sarebbe il giusto secondo film per me.
Da anni su Instagram condividi uno strano gioco, “Found playing cards”. Me lo spieghi?
(Ride) Che fai, mi stalkeri su Instagram? È una cosa che mi ha passato mio padre (il giornalista Enzo Gentile, nda) era lui a trovare le carte da gioco in giro. Così ho iniziato a farci a caso e a trovarle anch’io nei posti più incredibili del mondo. Tipo in mezzo a un vulcano, in una palude in Brasile, in spiaggia, per le strade dell’Asia. Trovo le carte, le fotografo e le tengo lì. È un gioco che entrerà anche nel prossimo film, vedrai.
Chiudo con un dialogo tra Walter e Carlo in una scena in cui parlano del padre morto (Claudio Santamaria): “Ma come se fa a mori’ in un depuratore?”. “Per salva’ un collega suo c’è rimasto”. “Ammazza, ’n eroe”. “Avoja. Più che ’n eroe, ’n cojone”. Questo è il senso del film: uccido lo squalo o lo salvo? Cosa separa veramente un eroe da un coglione?
Ci andiamo giù pesante? Ok: l’accettare come si è. Sembrerà una banalità, ma ci lavoro da tanto. Io mi sento un coglione tutti i giorni, ma vivo sereno e non sto qua a flagellarmi. Sono un malinconico perenne, non c’è mai un vero senso di felicità, come eroe non mi ci vedo. Però ho imparato a non volermi perfetto, a non pretendere d’essere sempre performante, a non giudicare. “Come mi vedono gli altri?” è stato per tanto tempo l’unico valore a cui davo importanza. Oggi ti dico che non sono un coglione perché potevo girare meglio certe scene, e non sono un eroe perché il film esce in tutta Italia e magari incassa pure.