Diciamolo una volta per tutte: Raoul Bova scansati, perché qui siamo tutti impazziti per Piccionello. Il coprotagonista della serie tv Màkari, interpretato da Domenico Centamore, è uno dei motivi (se non il motivo) che sta rendendo cult la nuova serie giallo-siciliana di Rai 1. Sui social non si parla infatti d’altro: le magliette di Piccionello sono i nuovi meme, le sue massime esistenziali fanno il giro del web e non è escluso che la combo pantaloncini+infradito possa diventare il nuovo must della prossima estate. «Ma che dici, Bova è più beddu di mia», replica divertito Centamore. «Però, se non ti spiace, potresti ripeterlo? Così metto il viva voce e lo sente pure mia moglie». La quale, come scoprirete in questa intervista, ha un ruolo decisivo nella vita e nel successo di Centamore: un caratterista molto richiesto, che all’attivo vanta film come I cento passi, Pinocchio e la serie tv La mafia uccide solo d’estate, ma che solo ora è diventato un volto noto anche per il grande pubblico.
Altro che Montalbano, Lamanna… qui la vera star sei tu!
Ti ringrazio, devo ammettere che a 53 anni, dopo 20 di carriera, questo successo rappresenta un bel traguardo. Però, mi creda: Piccionello da solo non potrebbe esistere, così come non potrebbe esistere Lamanna (il protagonista, interpretato da Claudio Gioè, nda) senza Piccionello. La forza di Màkari è proprio quella di avere raccontato una bella amicizia al maschile. Tra l’altro io e Claudio Gioè siamo amici anche fuori dal set: la fiction è stata un’occasione per dare sfogo al nostro affetto e alla nostra complicità. Vedrete cosa succederà nella terza e quarta puntata (in onda stasera su Rai 1, nda)…
Qual è l’aspetto che più ti piace di Piccionello?
Piccionello “è” la Sicilia, con tutte le sue sfaccettature, ma soprattutto è un uomo di una libertà assoluta: se ne frega se Lamanna critica le sue magliette o se le persone lo guardano storto perché gira sempre con le infradito e i pantaloncini. E, mi creda, questa è una vittoria: io sono nato e cresciuto in Sicilia, a Scordia, dove abito tuttora e secondo me per un siciliano essere libero è una conquista importante.
A proposito delle infradito, deve essere stata una faticaccia girare così…
È stata durissima perché le riprese sono durate da agosto a dicembre e negli ultimi mesi faceva freddino. Non potevo però nemmeno pensare di toglierle: avevo troppa responsabilità!
In che senso?
I lettori di Gaetano Savatteri (che ha scritto il romanzo da cui è tratta la serie, nda) amano tantissimo Piccionello e nei libri il personaggio è proprio così: sta sempre con i sandali e i pantaloncini. Che poi è ciò che connota la sua sicilianità. Lui mette il vestito solo ai funerali: per i siciliani il funerale è una cosa seria, dove si va in giacca e cravatta.
Sui social le magliette di Piccionello sono già cult. Qual è la tua frase preferita?
“Fico d’india e soprattutto fico”. Su di me, suona ancora più esilarante! E poi c’è da dire che noi siciliani ce l’abbiamo questa cosa: ci sentiamo tutti sempre belli. C’è un’altra scritta che mi piace molto, sul cannolo, ma deve ancora andare in onda.
E poi c’è la grande saggezza popolare di Piccionello…
Devo correggerti: saggezza siciliana.
È diverso?
Un po’. Il siciliano ha una saggezza tutta sua, che si attacca ai vari proverbi popolari. Te ne cito uno: da noi il classico “Non si parla male del papà” diventa “Un padre cresce cento figli; cento figli non posso crescere un padre”. Hai capito? Lo vedi quanto è profonda questa frase? La cosa bella è che i siciliani le dicono con leggerezza, proprio come Piccionello. Se serve, i proverbi ce li inventiamo pure di sana pianta. Una volta, tra l’altro, c’erano le cosiddette ingiurie, ossia i soprannomi. Ora non si usa più, ma ai tempi qui a Scordia nessuno si chiamava per cognome, bensì per soprannome.
Màkari cerca anche di dare un’immagine più contemporanea della Sicilia. Da quali luoghi comuni vorresti liberare la tua terra?
Spero che tutti i siciliani si liberino presto della mentalità mafiosa: la mafia è una cosa, ma il modo di pensare mafioso è persino peggio. Per fortuna i giovani se ne stanno affrancando. Passando invece alle cose più frivole, ci stiamo dando una calmata anche sul cibo: hai presente quando nel primo episodio Piccionello porta “alcune” cose da mangiare a Lamanna? Ecco, i ragazzi stanno diventando più moderati nelle quantità.
Tu sei sempre stato un caratterista molto quotato: ora che tutti ti conoscono, ambisci a misurarti anche con ruoli di primo piano?
No, no, grazie. Io mi sento un attore caratterista. Il mio modello è Tano Cimarosa che faceva Zecchinetta nel film Il giorno della civetta. Te lo ricordi? Purtroppo negli ultimi anni al cinema si è un po’ persa la figura del caratterista, che invece era molto usata dai vari Monicelli e Scola, ed è un peccato perché è un ruolo che aggiunge qualità alle storie. Io poi sono un attore autodidatta, che viene dalla strada: ho iniziato dalle comparse, poi sono passato alle figurazioni e via via sono cresciuto…
Come mai non ti sei iscritto a un’accademia di recitazione?
Mah, sai… Quando da piccolo andai da mio padre dicendogli, con tanto orgoglio, che sognavo di fare l’attore, lui mi guardò e disse: «Ora ti passa, non ti preoccupare!». Sembrava fosse una malattia! Quindi feci un percorso un po’ particolare, crescendo sul campo. Quando poi esordii nei Cento passi, portai mio papà alla prima e, alla fine della proiezione, mi disse: «L’hai detto e l’hai fatto. Complimenti». Piccionello è il mio primo ruolo da coprotagonista e di questo devo dire grazie al mio collega e amico Claudio Gioè, che mi ha supportato e sopportato, così come al regista Michele Soavi e alla bravissima Ester Pantano.
Possibile che non hai velleità di emergere? Per alcuni attori i ruoli da caratterista sono un ripiego…
Non per me. Il cinema è bello anche se fai due o tre pose. Se fai poco ma il personaggio resta impresso, vuol dire che hai lavorato bene dandogli un’anima: è questo che conta. Io sono al servizio della storia, non mi interessa emergere. È ovvio che poi uno come me non potrà mai interpretare un avvocato milanese o un prete padovano (ride, nda). Ma è giusto così.
Tuo padre era diffidente, ma ci sarà stato qualcuno che ha creduto in te.
Mia moglie. Siamo insieme da trent’anni, ci conosciamo da quando lei ne aveva 14 e io 23. Mi ha aiutato tantissimo a portare avanti il mio sogno: ci ha creduto. Ancora oggi le faccio sempre leggere i libri o i copioni perché magari ha un punto di vista diverso sul personaggio, che mi offre nuovi spunti. Lei è fondamentale: praticamente è la mia tutor e la mia coscienza. Molti attori, soprattutto quando hanno successo, vanno dall’analista… io no: ho mia moglie! In questi quattro mesi di riprese, ogni sera le telefonavo e mi facevo una bella seduta (ride, nda).
Vivi a Scordia, un paesino in provincia di Catania. Immagino che, dopo Màkari, ti faranno almeno sindaco.
Spero di no, perché io con la politica ho un pochettino di difficoltà… Però è vero che sono molto conosciuto. Oggi per esempio sono andato a fare la spesa e le persone che incrociavo mi dicevano: «Domenico, ti stiamo vedendo in tv!». Questa cosa fa piacere, a me e credo anche a loro.
Già: al Sud avere una persona nota in città diventa motivo di orgoglio per il paese stesso. Come se la notorietà si estendesse a tutti gli abitanti.
Certo! Ora, la prima volta che andranno fuori città, non diranno “A Scordia abbiamo le arance più buone del mondo” ma “Noi abbiamo a Domenico Centamore!” (ride, nda).