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‘Dritti contro il cielo’ di Niccolò Falsetti è la storia piccola di una grande comunità (calcistica)

Presentato in apertura della quarta edizione di Sentiero Film Factory, il nuovo documentario del regista di 'Margini' conduce nel campo profughi di Shatila, a Beirut, dove il cielo si vede solo dal campo da calcio. Per parlare di libertà, ma soprattutto di pallone
Dritti contro il cielo

Foto: press

Lo status di rifugiato palestinese è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo: è ereditario. Così si apre Dritti contro il cielo di Niccolò Falsetti (lo ricordate per Margini), mediometraggio documentario prodotto dalla ONLUS Un Ponte Per e dal Centro Storico Lebowski di Firenze. Che si legge C.S. come un centro sportivo (ma sta invece per dire che è stato fondato in centro alla città), e dove, di fatto, si allenano e giocano squadre di calcio.

Il Lebowski è autogestito e sostenuto dal volontariato dei soci, che a questa stregua diventa farsi gangli di qualcosa di più grande, parola che oggi spaventa, comunità. Sul sito si legge: «Abbiamo in mente di creare un contesto dove fare calcio nella massima autonomia, per quanto ci è possibile, dalle ingerenze dello Stato e del mercato nel gioco. Per questo puntiamo a esistere grazie all’autofinanziamento e all’aiuto degli appassionati di vero sport, senza concedere niente alle speculazioni che accompagnano il calcio di oggi. Per questo siamo entusiasti che il nostro tifo sia ancora l’autogestione di uno spazio comune, quale la curva».

Dritti contro il cielo, però, non è un documentario sul calcio. O meglio, è un documentario che racconta la trasferta della squadra del C.S. Lebowski, per una settimana, al campo profughi di Shatila, nella parte Sud di Beirut, in Libano. Shatila esiste dal 1949, creato per ospitare i profughi palestinesi costretti a lasciare la propria terra a seguito dell’occupazione israeliana del 1948. Questo movimento è conosciuto come Nakba (“catastrofe”). Nel circa chilometro quadrato di Shatila vivono ufficialmente 9.842 persone, ma le stime non ufficiali parlano di 22.000 abitanti.

Niccolò Falsetti. Foto: press

La prima immagine del documentario è una palla da calcio che, lanciata in aria, si ferma come volante, ingabbiata tra fili che non intendiamo. Il campo da calcio di Shatila è a cielo mezz’aperto: il sole filtra, le persone no. Saltando, si sbatterebbe contro una rete. È il rudimentale espediente descritto in più punti del volume che The Passenger di Iperborea dedica alla Palestina: una divisione fisica ma quasi impercettibile per dividere i palestinesi (o i rifugiati palestinesi) dalla popolazione di origine ebraica se nei territori occupati da Israele; e anche a Beirut, per tenere lontano il basso dall’alto, il celeste dal terreno. Oltre che a svolgere la funzione pratica di trattenere oggetti che potrebbero essere scagliati rabbiosamente verso il basso.

Eppure dal campo di calcio si vede il cielo, si annusano spazi aperti. È quasi la libertà. Proprio come al Lebowski, arrivato lì nella prima parte del 2023 per una promessa: portare la migliore squadra di calcio italiana in trasferta a Shatila. Eccola, questa comunità realizzata nel gioco calcio. E senza buonismi di sorta: l’occhio occidentale, mostrando Shatila, decade. Non ci sono narrazioni di forza straordinaria, ma ragazzetti che, a tirare al pallone, son davvero scarsi. Perché Dritti contro il cielo non è un documentario sullo sport del tiro in porta, però anche sì.

Ce lo siamo fatti raccontare direttamente da Falsetti, che abbiamo incontrato (oltre un telefono) per qualche domanda.

Un fotogramma di ‘Dritti contro il cielo’ di Niccolò Falsetti. Foto: press

Com’è nata l’idea del documentario, come sei arrivato in contatto con questa realtà?
Sono legato in varie forme al Centro Storico Lebowski, conosco i ragazzi che l’hanno creato e l’ho sempre seguito. Un progetto folle, diventato qualcosa di potente e reale oltre ogni aspettativa. Il calcio mi piace, il tifo mi piace, è una delle mie dimensioni. Uniscici la militanza e la progettualità politica all’underground, e hai un panorama culturale a me molto affine. Insieme a un certo spirito di divertimento, sempre nobilitante. È una squadra di calcio ma anche una realtà che si autosostenta, qualcosa che rimane solo se si vive davvero e con costanza. Così nel 2023 mi hanno chiamato i ragazzi del Centro e, sapendo che lavoro faccio, mi hanno detto che andavano una settimana nel campo profughi palestinese di Shatila, in Libano. A far cosa? Non ne avevano idea, sarebbero andati a fare allenamento con i ragazzi di là. Non c’erano eventi eclatanti che giustificassero una storia, c’era solo l’evidenza del fatto. E due realtà assurde che si sono incontrate e hanno convissuto per un po’, con le loro aspettative ed esigenze, diversissime tra loro.

Quindi c’è anche una tua dimensione del calcio, diciamo.
Tifo Inter in curva, me lo porto dietro da mio padre. Sono stato “battezzato” in piazza Duomo a Milano il giorno in cui l’Inter vinse lo scudetto. Ho un legame forte con il mondo calcistico, potrei dire che tifo tre squadre: Inter, Lebowski, Boca Juniors. Poi mi piace che ci sia questa parola, internazionale, nella mia squadra del cuore. Mi sa di apertura, di positivo.

Il calcio in Italia, e oggi, sembra un grande spreco di potenziale.
Il calcio soffre di tutte le malattie del capitalismo finanziario, a tutti i livelli. Quando il profitto diventa un obiettivo si crea un cortocircuito, perché il profitto non è un elemento del gioco, ma del mondo, e lo sport si infetta. Il calcio è un fenomeno di massa complesso, finisce per riguardare tanti aspetti della vita culturale e personale delle persone. Crea e detta legami, aggrega. Contiene anche elementi storti o distorti, derive che mi appartengono poco. Sulla bocca dei dirigenti sta girando tanto la parola sostenibilità. Mi fa ridere quando lo sento perché il Lebowski è sostenibile, non loro. Tante altre realtà lo sono, a Roma dove vivo le frequento, vanno dalle palestra alle squadre di rugby e basket. Lì lo vedi: quando togli l’elemento del profitto, allora la sostenibilità ha un senso. Anche perché arrivi a un punto in cui o i progetti sono sostenibili, o non riesci a farli. Il veleno che c’è nel calcio viene da un’altra parte, non dalla natura del gioco.

Che cosa vi aspettavate di vedere a Shatila? Che cosa non vi aspettavate di trovare?
Non ho avuto troppa sorpresa, i ragazzi dell’associazione Un Ponte Per mi avevano preparato, li conosco bene. Quello che mi ha stupito davvero sono state le ragazze: abbiamo visto in modo diverso cose che per lo sguardo occidentale sono incomprensibili, il velo per esempio. Tante delle ragazze con cui abbiamo parlato l’hanno scelto, non erano obbligate. C’è responsabilità dietro, devi crescere più in fretta. Emotivamente è stato complesso vedere come, da occidentali, eravamo consapevoli della nostra libertà. Ed è tutta una sofferenza nostra, non dei ragazzi del campo. Allora si attivava un cortocircuito quando vedevamo che loro invece avevano la loro dimensione di viversi il loro esilio. La cosa più assurda in un posto come Shatila è la naturalezza, la vita di tutti i giorni, pratiche di sussistenza che diventano la norma. Anche lì vanno al campo da calcio, ma lo fanno attraversando fogne aperte, nel buio di cavi esposti che bloccano il sole, attraverso cunicoli bui. L’unico spazio a cielo aperto del campo è proprio il posto dove si gioca a pallone. E poi ti ritrovi anche tu ad adattarti a quella situazione in modi che ti spiazzano.

Il documentario ha il punto di vista di un antropologo, distante ma partecipante. Come ti sei approcciato a questa forma?
Non era un debutto, già prima di Margini [2022, vincitore del Premio del pubblico alla Settimana Internazionale della Critica alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ndr] avevo lavorato a un documentario co-firmato insieme ai miei soci di Zero, una casa di produzione. Avevamo fatto un documentario sull’Erasmus, siamo andati a visitare sette studenti in diversi programmi in Europa dopo aver tirato su 5.000 euro in crowdfunding. Inutile dire che siamo andati in rosso.

Lo preferisci alla finzione?
Credo di continuare a preferire il cinema di finzione, ma non penso ci sia una grande differenza tra documentario o “bugia”. È più l’atteggiamento, anche filosofico se vuoi, con cui ti poni davanti alla realtà. Io voglio qualcosa di spontaneo, autentico, realizzato attraverso i mezzi espressivi del cinema. Racconto storie piccole e mi piace far vedere i dettagli. Questa è la finzione. Nel documentario hai tutta la spontaneità del mondo, le cose accadono fuori dal tuo controllo, e quando vai in montaggio poi riscrivi quello che succede e ricuci dove vedi che manca qualcosa. È sempre una storia per immagini, ma hai per le mani qualcosa di molto fragile, le vite delle persone. Per tornare all”antropologo, lui ha un bel punto di vista: a volte devi entrare in relazione con quello che hai davanti, imparare a non sentire la macchina come qualcosa di invasivo. Maneggiare la vita della gente è una bella responsabilità.

Un fotogramma di ‘Dritti contro il cielo’ di Niccolò Falsetti. Foto: press

E il cinema italiano come sta?
Andiamo per macro-problemi: uno è l'(auto-)narrazione del mondo cinema, l’altro il rapporto con il pubblico. Per il primo punto, chi ha fatto cinema non ha preso parte ultimamente al racconto del settore. Sangiuliano ci ha raccontato che c’erano troppi soldi dati per niente a un settore, la realtà è che l’immagine di ricchi signori in terrazza a Roma, intenti a bere Champagne mentre firmano il prossimo progetto, è un’edulcorazione. Il tax credit tolto da Sangiuliano non era una misura fuori dal comune, ma la cosa più sensata che possa fare uno Stato per sostenere la cultura. Ci sono ruberie e speculazioni, certo, ma son sempre denunciate dai capitalisti più ferventi. La realtà è che in ballo c’è la massa di chi lavora nel settore. Uno che ha visto picchi spaventosi di disoccupazione, quest’anno.

Poi c’è il secondo punto: negli ultimi anni, e anche oltre il Covid, non si è mai andati a gonfie vele a livello di numeri di incassi nelle sale. È uno scenario in cui è assurdo dirci che facciamo troppi film, sempre per tornare a Sangiuliano. Il problema è che non portiamo le persone in sala. Non c’è un mercato interno solido, e quel poco che c’è sta invecchiando. Ci hanno sempre insegnato che i soldi si fanno con i film brutti, ma la verità è che i film belli si sono sempre fatti e con successo. Dobbiamo tornare ad avere un occhio di riguardo per la fragilità dei bei film, e credere nel loro potenziale.

Tu sei maremmano di Grosseto, Margini è ambientato lì tra i misfit. Un altro misfit maremmano è Lucio Corsi. C’è un’ondata di Maremma che regge?
Ho quella sensazione, anche se indefinita. È bellissimo sentire quell’energia per uno che a Grosseto ci è nato e cresciuto, che la conosce sia nelle sue bellezze che problematiche. Dentro la bolla si muove qualcosa. Lucio è un artista eccezionale, io vengo dal punk hardcore ma non c’entra, lui è pazzesco e ha una creatività fuori dal normale. Credo che qualcosa qui abbia fatto il Covid, alcuni sono tornati qui. Magari è anche solo una fetta generazionale fortunata, io ho girato Margini con manovalanze tutte locali che ora vivono fuori. Ci prendiamo in giro, diciamo che facciamo Hollywood in Maremma.

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