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«È impossibile liberarmi dei Beatles e di quel giorno sul tetto di 3 Savile Row»

Parla Michael Lindsay-Hogg, il regista del documentario-concerto ‘Let It Be’, andato “perduto” e appena restaurato. La genesi del film, il dietro le quinte, e una certezza: «Quel giorno erano tutto quello che volevano essere»

Foto: Ethan A. Russell/Apple Corps/Disney+

La domanda che tutti si fanno da mezzo secolo e oltre: e se non si fossero sciolti? Quesito che ha reso più insistente Peter Jackson con il suo documentario Get Back, che mostra chiaramente quanto, nonostante le divisioni e i contrasti, i Beatles fossero ancora una band con una creatività inarrivabile. Cosa confermata da Let It Be, l’ultimo documento ufficiale dei Fab Four, quello del concerto sul tetto di Savile Row 3, sede della Apple Corps (quella vera, non i tizi che producono costosi telefoni assemblati nel Sudest asiatico). Un film andato perduto per cinquant’anni, per ragioni «soprattutto legate ai diritti musicali, una cosa che succede spesso per i film musicali, perché alla fine si mettono in mezzo gli avvocati e fanno sempre casino», come mi ha spiegato il regista Michael Lindsay-Hogg. Jackson, grazie alla tecnologia che ha permesso il restauro sia del materiale con cui ha poi messo insieme Get Back, ma anche l’incisione dell’ultima canzone possibile dei Beatles riuniti, Now and Then, ha restaurato dal negativo originale in 16mm e che è disponibile su Disney+ a partire dall’8 maggio.

Michael Lindsay-Hogg girò quel materiale, all’epoca un regista neanche trentenne che grazie al suo lavoro nella trasmissione musicale Ready Steady Go! aveva trovato un mestiere, pioniere dei videoclip con a disposizione cavie come gli Who, i Rolling Stones e, per l’appunto, i Beatles. Questi ultimi in realtà non lo hanno mai abbandonato, in un modo o nell’altro. Avrebbe continuato a lavorare con McCartney nell’era Wings, e nel 2000 sarebbe tornato sull’argomento con il film Two of Us, storia di un ipotetico incontro tra John e Paul a New York nel 1976. Il film fu selezionato per il Taormina Film Festival di quell’anno, quando incontrai Michael per la prima volta e parlammo a lungo della sua relazione con la band. È successo nuovamente 24 anni dopo, per celebrare ancora una volta i quattro ragazzi di Liverpool, che evidentemente non è possibile dimenticare.

Com’è stato ripercorrere l’esperienza di Let It Be dopo tutti questi anni?
Strano, prima di tutto perché non sapevo sarebbe successo fino a relativamente poco tempo fa, e poi perché sono ricordi anche non piacevoli per tutto quello che riportano alla memoria. Ma rivedere il film qualche giorno fa in un cinema, dopo tutti questi anni, è stato molto bello.

Hai detto spesso che il video di Hey Jude era una sorta di prova generale di Let It Be. Mi puoi raccontare esattamente quale fu il processo che portò poi alla realizzazione di Let It Be?
Alcuni giorni prima di girare il video di Hey Jude mi incontrai con Paul dicendogli che c’era un problema. Il coro era troppo lungo per poter avere solo loro quattro in camera, e gli dissi che secondo me a quel punto avremmo potuto far entrare un pubblico che canta insieme al coro. L’idea gli piacque e facemmo così, ma inizialmente non c’era una reale interazione tra loro e il pubblico. Mentre filmavo questa piccola folla che avevamo ingaggiato, John, Paul, George e Ringo erano altrove, in pausa, a fumarsi una sigaretta. Ma quando a un certo punto rientrarono in studio, scattò in loro qualcosa di naturale, quell’equazione che conoscevano sin troppo bene da quando erano ragazzi: musica + pubblico = suonare. Ed è quello che avvenne, iniziarono a suonare le loro canzoni, ma anche pezzi di Buddy Holly, Richie Valens, e lo fecero per quaranta minuti di fronte a un pubblico di circa trecento persone, molto variegato, composto da membri di vari Beatles Club, ma anche di casalinghe, adolescenti, bianchi, neri, indiani. Insomma, si divertirono molto. Passano circa sei settimane, io stavo lavorando su un altro progetto, ma ricevo una telefonata di Paul e vengo convocato alla sede della Apple Corps. Lì incontro Paul e John, che mi spiegano che suonare di fronte a un pubblico li aveva davvero emozionati, dato che non succedeva dal 1966, quando smisero di andare in tour perché la situazione era diventata davvero difficile a ogni concerto. Ma si erano sentiti così bene che forse, e sottolinearono forse, si poteva prendere in considerazione l’ipotesi di suonare ancora una volta dal vivo di fronte a un’audience. Quindi inizialmente Let It Be doveva essere la ripresa di un concerto, ma nel giro di poco si trasformò in un documentario.

Rivedendolo oggi, avresti cambiato qualcosa?
Guarda, a dire il vero ho provato a recuperare dall’oblio Let It Be per molti anni, finché nel 2018 non ebbi un incontro con Jonathan Clyde della Apple Corps che mi disse che Peter Jackson era interessato a rimettere mano ai materiali e magari rimontarli. Non ero d’accordo, era il mio film ed ero convinto che quello che avessi fatto fosse la cosa migliore per restituire gli artisti e il loro percorso umano. Quindi io non ci avrei rimesso le mani, ma se Peter aveva voglia di farlo, allora per me andava bene. Ma devo dire che dopo averlo rivisto un paio di volte, sono ancora molto soddisfatto delle scelte che avevo fatto, perché penso ci fosse il giusto equilibrio tra la musica e l’evoluzione di questi quattro ragazzi, che conobbero la celebrità appena ventenni e che nel film sono invece uomini trentenni che hanno attraversato già mille cambiamenti personali.

Michael Lindsay-Hogg alla première newyorkese del film. Foto: Dave Kotinsky/Getty Images courtesy of Disney+

I Jefferson Airplane fecero un concerto su un tetto nel 1968 a New York. Fu una fonte d’ispirazione o non ne sapevate niente?
No, a dire il vero non ne sapevo niente, all’epoca non c’era la velocità di condivisione delle informazioni come accade oggi. Ma c’è da dire che il nostro lavoro era iniziato con una diversa agenda, doveva essere un documentario, ma sapevo anche che non potevo basarlo solo sulle prove in studio, perché per quanto interessanti non avevano abbastanza gambe per un film. Quindi bisognava tornare all’idea originale di una performance live, che inizialmente era stata pensata in un anfiteatro da qualche parte su una costa del Mediterraneo. Quell’idea era tramontata, ma bisognava trovare delle alternative, ed è lì che ho pensato che sarebbero bastate un paio di rampe di scale da fare per risolvere il problema. Lo dissi a Paul e l’idea gli piacque.

Una cosa è certa: è difficile liberarsi dei Beatles. Ma l’ultima domanda che voglio farti è: lavorare con loro è stata l’esperienza più bella della tua vita?
Sono stato fortunato perché nella mia vita ho potuto fare molte cose che mi hanno dato grande soddisfazione, a teatro, nel cinema, in televisione e anche nel rock. Ma hai ragione, è impossibile liberarsi dei Beatles. Per me è un’avventura cominciata quando per la prima volta ascoltai Please, Please Me e Love Me Do in una cucina a Dublino alle 7:30 del mattino quando lavoravo per la televisione irlandese, mentre mi facevo un toast e un caffè prima di attaccare al lavoro. E tutto quello che è successo dopo, i video girati con loro, il film, il lavoro con Paul e i Wings, e anche Two of Us, un piccolo film per la televisione con Aidan Quinn nei panni di Paul e Jared Harris in quelli di John che nel corso degli anni ha trovato anche un suo pubblico di appassionati, sono tutte cose che mi hanno tenuto legato a loro. Ma quello che davvero non potrà mai staccarmi dai Beatles è quel giorno sul tetto di 3 Savile Row. Perché quel giorno erano felici, e lo si capisce bene anche guardando Let It Be. Quel giorno erano tutto quello che volevano essere, e in quella gloriosa giornata io ero lì con loro.

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