Ci siamo. Da giovedì 28 gennaio riparte il late night show di Alessandro Cattelan che per la terza volta porterà su Sky personaggi di cinema, musica e sport. L’idea è quella di coinvolgerli in esperienze televisive inedite mixando gli elementi tipici del talk show con la creatività di Alessandro, che finalmente è libero di fare lo stupido in TV per come si deve. La stagione si apre con Max Pezzali e un ospite internazionale di una cattiveria importante, una vecchia gloria del cinema. Ma non possiamo dire altro.
Per le prossime puntate invece possiamo già anticipare: Valerio Mastandrea, Carlo Verdone con Antonio Albanese, Roberta Vinci, Zerocalcare, Claudio Santamaria, Marco Giallini e gli Elio e le Storie Tese. Anche quest’anno non mancherà Cesare Cremonini che come da tradizione, ormai, inaugurerà la nuova stagione di E poi c’è Cattelan con uno speciale contributo video.
A colorare il programma ci pensano invece gli Street Clerks, anima musicale di #EPCC fin dalla prima edizione, anche se a volte si fanno prendere la mano con gli effetti sonori. Almeno così ci ha detto Alessandro, tra le altre cose, quando è passato a trovarci in redazione. Cari Street Clerks, prendetevela con lui.
Visita veloce alla redazione di @RollingStoneita . Ci vediamo presto a #EPCC pic.twitter.com/OjtxWWobgH
— alessandro cattelan (@alecattelan) 26 Gennaio 2016
Come funziona la collaborazione con gli autori?
Funziona molto bene, perché loro sono bravissimi, sono il meglio che c’è in circolazione. Poi è un programma in cui ci metto direttamente la faccia, quindi il timbro finale lo metto io. Io ragiono in maniera differente rispetto ad altri programmi di questo genere, non faccio interviste per curiosità mie, o perché attraverso la mia domanda devo sembrare intelligente.
Quindi tra Jimmy Fallon e Fabio Fazio, il tuo modello è…
Beh, Jimmy Fallon. Il mondo di riferimento è quello del late show, ci ispiriamo a loro.
Nella prima stagione l’intervista era condotta in cui eravate seduti su due poltroncine, nella seconda è arrivata la scrivania.
Sì, è stata una grande conquista. Io la volevo da subito. Il late show è un format, in America ce ne sono tre contemporaneamente in onda, e subito dopo altri tre. Sono tutti uguali, quello che cambia è quello che ci mette il conduttore, ma in tutti ci sono gli stessi elementi. La scrivania fa parte della grammatica del programma. All’inizio c’era un po’ di titubanza, dicevano che qui i late night non sono mai andati molto bene, però stavamo facendo quello, non volevo nascondermi dietro a un dito. Poi la prima stagione è andata bene, quindi ho potuto chiedere una scrivania. Nella terza avremo il pubblico davanti come a teatro. Bisogna guadagnarsi tutto.
Visto che questo format in America solitamente è presentato da stand-up comedian o attori comici, tu che hai fatto un percorso da presentatore canonico ti sei dovuto preparare in un modo particolare?
Questo è il tipo di programma che ho sempre visto e che avrei voluto fare, e che vorrei continuare a fare. Riassume quello che facevo insieme al mio amico da adolescente: in TV facevo il presentatore, a casa facevo lo stupido, ora finalmente posso farlo in TV [ride]. È un bagaglio che avevo già lì, in attesa che potessi usarlo per lavoro.
Incontri prima gli ospiti che verranno in puntata?
Dipende dalle loro disponibilità: con tutti parliamo un paio di volte al telefono, e chi gravita intorno a Milano passa una giornata in redazione, scrive la puntata insieme a noi. In base a quello che loro hanno da dare, io faccio le domande.
Buona parte del programma è fatta di sketch, partecipano anche a quelle fasi di scrittura?
Sì, con ognuno giochiamo, cazzeggiamo. Quello è un momento delicato perché gli stai chiedendo di esporsi, e lo fanno solo se si fidano e se hanno capito perfettamente quello che devono fare.
Quanti si prestano alle gag?
Alla fine la percentuale è del 100%, perché gli diamo un ventaglio di idee e una che va bene la si trova sempre. Sono più i casi in cui accettano l’idea migliore, poi però l’entourage dice «no guarda che ti fai male…», proprio per questione fisiche. Con i calciatori spesso è complicato, perché se anche si rompono un’unghia, provochi un buco di milioni di euro [ride]. Una volta abbiamo fatto la corsa con i go kart con i Negramaro: loro erano divertitissimi, la loro discografica era nel panico perché dovevano partire per i tour.
C’è anche una band all’interno del programma, gli Street Clerks. Come funziona il lavoro con loro?
Adesso andiamo con il pilota automatico, e in un certo senso risolvono i problemi. Sono una band che suona dal vivo dentro a un programma TV, che potrebbe essere problematico tecnicamente, invece sappiamo che possiamo appoggiarci a loro. Qualsiasi idea, anche la più assurda, la capiscono in quattro secondi e la fanno diventare realtà.
E come gestisci i loro contrappunti durante le interviste? Gli lanci un’occhiata?
No, fanno loro. Anche se ogni tanto gli scappa la mano con la batteria [ride], però ascoltano quello che succede, e in base a come gira a loro fanno. È il loro carattere. Mi piace che la band sia con me e che loro parlino con gli strumenti, possono intervenire quando vogliono.
Questa trasmissione, come molte altre oggi, ha un forte coinvolgimento sui social, ha anche il suo hashtag e un suo account. È un bene questo coinvolgimento sui social?
Non necessariamente. Bisogna rendersi conto che Twitter, ad esempio, è un mondo relativamente piccolo, non dovrebbe influenzare così tanto. È uno strumento interessante e utile, anche se non lo uso granché.
Volevamo farti il gioco dei Mean Tweets di Jimmy Kimmel, ma non abbiamo trovato tweet negativi su di te.
Ogni volta che va in onda una puntata arrivano tweet quasi totalmente positivi, forse sto sbagliando qualcosa [ride].
Forse dovresti essere più cattivo?
Non so, non è il mio. Soprattutto se è cattiveria pretestuosa. Mi piace scherzare, una battuta non si nega a nessuno, anche un po’ pungente. Ma essere cattivo non è il mio.