Edoardo Leo, rieducazione sentimentale
Quella che dovrebbe essere impartita agli uomini d’oggi, fotografati nella loro fragilità nel suo ultimo film da attore e regista: ‘Lasciarsi un giorno a Roma’. Ma i sentimenti sono alla base di tutto il suo cinema, e anche della sua vita. Quella di un artista che si è affacciato tardi al successo, ma a cui va bene così: «Chi mi diceva di lasciar perdere è stato lo stimolo per non arrendermi». Ha avuto ragione lui
Foto: Riccardo Ghilardi
Edoardo Leo è un “late bloomer”, uno che è emerso tardi. Lo spiega ancora meglio proprio lui: «Ogni anno festeggio i miei anni di gavetta, non di carriera. Non sono stato l’attore del momento a 25 anni, non lo sono stato a 30 e nemmeno a 35. È successo tutto dopo i 40». “Tutto”, ovvero: la trilogia di Smetto quando voglio, il trionfo di Perfetti sconosciuti, Sanremo come conduttore del Dopofestival, La dea fortuna di Özpetek e tante altre cose, compresi sei film da regista, anzi sette, più un documentario su Gigi Proietti. Per ora arriva il sesto.
Si intitola Lasciarsi un giorno a Roma e sarà dal 1° gennaio su Sky e NOW. Racconta la storia di due coppie etero in grandissima crisi per lo stesso motivo: la donna è più importante, ha più successo, guadagna di più dell’uomo. In particolare, la coppia formata da Leo e dall’attrice spagnola Marta Nieto vede un lui scrittore modesto e lei top manager di azienda di videogiochi, tacchi assassini e trolley, sempre in viaggio, vivendo il progresso e la performance, mentre lui sta a casa e non riesce a finire il romanzo che sta scrivendo. La seconda coppia, formata da Stefano Fresi e Claudia Gerini vede lui insegnante di lettere e lei, nientemeno, sindaco di Roma.
Il film, commedia più amara che dolce, è stato girato subito dopo il primo lockdown, in una Roma pulitissima e deserta. Forse non è un caso: quale miglior periodo per analizzare a che punto stanno le relazioni, le storie d’amore?
Il lockdown è anche citato in un dialogo, ma non è un film sul lockdown o i suoi effetti. Avevo scritto la sceneggiatura ben prima della pandemia, pensavo a coppie che si parlavano poco perché non avevano occasione di stare insieme. Adesso sono coppie che hanno avuto la prova che il problema non era solo il poco tempo condiviso, ma proprio la sostanza del rapporto.
Dove hai trovato Marta Nieto?
A Madrid, il film è una coproduzione. Senza nessun problema, le maggiori attrici spagnole sono venute a fare il provino, interessate a lavorare con un regista italiano. Non posso dire i nomi ma ce n’erano anche di molto famose, protagoniste di serie internazionali importanti.
Per il ruolo del sindaco di Roma hai sempre pensato a Claudia Gerini?
Sì, fin dall’inizio. E lei ha subito accettato il film. Non è un personaggio politico, gli spunti di cronaca non mi interessavano. Mi interessava raccontare il punto di vista di un marito confuso e non sempre felice. Basti dire che esiste il termine First Lady ma non esiste un corrispettivo se il sindaco è lei.
Esiste “principe consorte”.
Ma non è la stessa cosa! Adesso che finalmente e giustamente si confrontano con sempre più donne ai posti di comando, i maschi si sentono messi in discussione. Non siamo stati educati emotivamente a stare a fianco a donne importanti.
A proposito di terminologia. Diciamo sindachessa o sindaca?
Ah, questo me lo devi dire tu. A queste domande noi maschi non dobbiamo rispondere, dobbiamo imparare a stare zitti. Siete voi donne che dovete dire come volete essere chiamate.
Se lo chiedi a me, rispondo che non è su questioni di lessico che scatenerei una battaglia. Anche se riconosco che le parole sono importanti, per citare Moretti.
Le parole sono importanti e rivelano che siamo circondati da un maschilismo intrinseco. Anche nella mia ristretta cerchia di amici, dove siamo tutti attenti, sensibili e pensiamo di essere immuni dal maschilismo, capita di sentire usare ancora espressioni tipo piangere come una femminuccia, donne con le palle, maschi sciupafemmine. Mi fanno orrore. Come mi fanno orrore certe immagini: io non posso più vedere la partenza del moto GP con intorno le “ombrelline”.
Il tuo personaggio nel film è un uomo gentile ma immaturo. Lo hai scritto pensando già che lo avresti interpretato tu? In generale, quando scrivi i tuoi film pensi sempre a un ruolo per te?
Confesso che da anni sogno di fare un film da regista senza recitarci dentro. Però i produttori ancora non me lo hanno permesso.
Se avessi potuto farlo con questo film, chi ci avresti messo al posto tuo?
Che domanda, non ci ho mai pensato. Vediamo: Favino, Marinelli, Mastandrea… ognuno di loro sarebbe stato fantastico e ognuno di loro avrebbe portato qualcosa di suo, cambiato un po’ la storia. Io concludo tutte le sceneggiature solo quando il cast è definito, scrivo addosso agli attori che faranno il film.
Il film arriva direttamente su Sky. Piattaforme sì o no?
È evidente che per tutti noi registi l’approdo al cinema, sullo schermo grande, è lo sbocco che abbiamo in mente quando pensiamo un film e cominciamo a lavorarci. Però siamo in una situazione complicata, di emergenza: Lasciarsi un giorno a Roma, in particolare, era fermo da quasi due anni, nel frattempo ho anche diretto un altro film.
L’altro si intitola Non sono quel che sono. Di che cosa parla?
È l’Otello di Shakespeare tradotto in napoletano e romano, ambientato oggi. Non è ancora pronto, stiamo cercando di capire quando potrebbe uscire. È molto autoriale, duro e difficile, l’Otello è la storia di un femminicidio. Tra i due film ho dovuto fare una scelta. Vision, il distributore di Lasciarsi un giorno a Roma, lo ha proposto come film di Capodanno per Sky. Io non ho preclusioni. Il film di Sorrentino (È stata la mano di Dio, ndr) è stato un po’ al cinema e poi su Netflix, in questo momento c’è un accumulo di film enorme, è normale che le cose escano così. Per ogni titolo va fatta una strategia a parte, non penso che ci sia contrapposizione “sala versus piattaforma”, devono convivere. Io non sono in grado di immaginare come sarebbe andato in sala Lasciarsi un giorno a Roma, so solo che in questo momento il box office dei film italiani non è confortante.
Il prossimo 21 aprile compi 50 anni.
Purtroppo sì. Non possiamo parlarne ad aprile?
Voglio solo chiederti se sei contento. Non dico di compierli, ma di come sono stati.
Non sono bravo a fare resoconti o bilanci, però se mi guardo indietro sono soddisfatto. Ma certo ci sono stati periodi molto difficili. Almeno vent’anni di lavoro sotto traccia, poco cinema, tanta televisione, tantissimo teatro. Con il senno di poi, penso di avere costruito qualcosa di buono, ma ci sono stati momenti molto scoraggianti.
Tipo?
Tipo quella volta che mi mandarono via da una serie importante, dopo due settimane di lavorazione, dicendomi che non funzionavo. La presi malissimo. E poi tanti progetti che dovevo fare e poi all’ultimo minuto me li hanno tolti proprio sotto il naso. Per fortuna ho sempre mantenuto un contatto profondo con il senso del mio mestiere e con la certezza che non si definisce in base al successo. Conosco attori bravissimi che lavorano facendo anche 200 spettacoli l’anno e non hanno la ribalta mediatica. Si vive e si campa lo stesso.
Dai l’impressione di essere una persona con una certa tigna.
Sono disciplinato, determinato, ambizioso, anche se non sbandiero ai quattro venti le mie ambizioni. Per esempio mi piace continuare a fare teatro, ogni anno, anche se potrei farne a meno.
Lo fai perché quello della recitazione è un muscolo che va sempre allenato?
Sì, devi allenare il corpo, la tecnica, il rapporto con il pubblico in sala. Devi guardare in faccia le persone che andranno a vedere i tuoi film.
Non ti hanno preso all’Accademia Silvio D’Amico, non ti hanno preso al Centro Sperimentale, eppure non hai mollato.
Quelle bocciature, unite alla mia famiglia che mi diceva di lasciar perdere, sono state lo stimolo per non arrendermi. Ho cominciato a studiare da solo come un pazzo, poi andavo a fare i provini e la gente mi diceva “Eh, ma non hai fatto nessuna scuola”, così ho mentito. Per un po’ ho scritto sul curriculum di avere frequentato una scuola che si chiama La Scaletta.
Non ti hanno mai sgamato?
No. Anzi, oggi sul sito della Scaletta, insieme ai nomi di alcuni che l’hanno davvero frequentata, come Kim Rossi Stuart e Marco Giallini, c’è persino il mio nome. Ho sfruttato il loro nome per un po’ di anni, trovo giusto che loro sfruttino il mio.
Non hai frequentato nemmeno il laboratorio teatrale di Gigi Proietti, ma lui è stato un mentore per te. Gli hai dedicato un documentario presentato alla Festa di Roma e che uscirà l’anno prossimo.
Ci ho lavorato diverse volte in teatro e gli devo moltissimo. In particolare, gli devo il miglior consiglio ricevuto: mi disse di dedicarmi alla commedia. Allora io sognavo solo di interpretare gli eroi, le tragedie di Shakespeare, Amleto e Romeo. Proietti vide il mio book, pieno di foto in posa, sguardo da duro e sigaretta in bocca e mi disse: “Non provare a fare il figo, perché non sei figo. Tu fai ridere”.