Edoardo Pesce, la tecnica del ceffone
Ma anche la teoria. E poi attori bambini, bambini attori, i gangster movie, Roma Est e anche un po’ di Roma Centro. Una chiacchierata per l'uscita del suo nuovo film, 'Martedì e venerdì', diretto da Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis
Foto: Medusa
Martino è un quarantacinquenne meccanico di moto, tecnicamente abile ma esistenzialmente grippato. Vive alla giornata nella periferia Est di Roma; frequenta, nel tempo libero, una piccola ma vivace comunità di rapinatori; tende a dimenticarsi di pagare le tasse. Ma ha anche dei difetti: separatosi dalla moglie, si strugge per conservare l’affetto della piccola Claudia, di cui sembra spesso più il fratello invecchiato male che il padre (cosa che invece è). Chi lo interpreta in Martedì e venerdì, diretto da Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis, già lo sapete: Edoardo Pesce, ovvio. Un bel giorno, in officina, viene raggiunto da una raccomandata dell’Agenzia delle Entrate che gli notifica un debito di cinquantamila euro. Comincia così una storia di dannazione certa e di probabile redenzione.
Tra gli altri meriti il film (una produzione La Casa Rossa con Rai Cinema, in coproduzione con RS Productions e Pepito Produzioni e in associazione con Urban Vision, nelle sale dal 22 febbraio) presenta quello di introdurre per la prima volta sullo schermo uno dei posti più inspiegabili e sottovalutati di Roma Est, il Big Ben Cafè: una sorta di risposta del suburbio alla Piccola Londra posh del quartiere Flaminio. Nella storia fa da covo ai malviventi con cui Martino condivide per un tratto la visione del mondo. Questa scelta di ambientazione la dice lunga sulla cura con la quale il film ha lavorato alla ricerca di una Roma che non concedesse nulla alla retorica della grande bruttezza, ma indulgesse piuttosto allo zoom sulle piccole stranezze, architettoniche ma anche umane, che sanno spuntare tra due tratti vie consolari – per nulla consolanti – proprio come fa quella sorta di Westminster nel deserto quando svetta sulla rotatoria in cui il destino l’ha fatta precipitare e poi attecchire, all’altezza di via Tiburtina in cui la città diventa campagna e i non-luoghi diventano location.
A poche ore dalla prima di Martedì e venerdì abbiamo parlato con Edoardo Pesce di teoria e tecnica del ceffone, attori bambini, bambini attori, molto di Roma Est ma anche un po’ di Roma Centro.
A guardarti in Martedì e venerdì sembra che questo possa essere uno degli ultimi film solo da attore prima che cominci a fare anche il regista. Del resto la tua presenza scenica, imponente ma spaesata, con quelle manone che possono essere ferro e possono essere peluche, soprattutto nelle inquadrature a due con tuo fratello (Adamo Dionisi) o tua figlia (Aurora Menenti), comanda la recitazione degli altri in modo così spontaneo, quasi ineluttabile, che sei il terzo regista di fatto dei momenti psicologicamente e fisiologicamente più salienti del film.
A livello di recitazione posso ammettere di sì. Ma non sono convinto che farò mai un film da regista.
È stupefacente osservare Adamo Dionisi che, anche quando fa un ruolo da onesto, è quasi impacciato nel non minacciare nessuno, se non per affetto fraterno; e anche se non si esprime tramite estorsioni o ricatti…
… sembra comunque un criminale (ride).
Anzi, ti aspetti, ogni volta che Dionisi compare nell’inquadratura, che prima o poi faccia qualcosa di illecito o comunque scostumato. Non c’è occasione, che ti parli di tecnicismi di pulizie condominiali o ti sussurri una parola affettuosa, in cui non finisce per essere sinistro. Forse c’è del criminoso anche nell’amare incondizionatamente un fratello come te. La scena in cui ti vorrebbe menare ma, poi, si scioglie è il tuo capolavoro da regista di fatto.
Infatti quella scena l’abbiamo montata tutti insieme. Inizialmente Fabrizio (Moro) aveva suggerito una manata o qualcosa del genere. Invece lo schiaffo, con quel “paaaf” così ben assestato e consapevole, dato da un fratello più grande che ha fatto pure da papà, è paradigmatico. Adamo è bravo perché è teatrale ma riesce a rendere delle azioni teatrali estremamente naturali. Cose che se le facesse un altro sembrerebbe di stare al Sistina.
Molti romani si rassegnano dalla nascita a non conoscere tutta la città. Una caratteristica del tuo lavoro è saper condurre gli spettatori in un’esplorazione a due livelli di Roma: a volte sei in affreschi ad ampio spettro sullo spirito dell’intera metropoli; altre volte figuri in bozzetti dettagliatissimi di un solo quartiere. Qui si tratta, grossomodo, di San Basilio. La storia del film si guadagna senza troppe didascalie, pennellata dopo pennellata, perché la raccontano, prima ancora degli attori, le tue mani unte di grasso, i cereali sugli scaffali dei supermercati immersi nella quiete prima della rapina, il lindore dei divani nuovi della tua casetta finalmente affittata, le lucine collegate all’impianto elettrico che non troveranno mai, però, il loro posto nella decorazione dell’albero di Natale, e resteranno a lampeggiare sul pavimento.
Devo dire che gli scenografi sono stati bravi. In più va detto che non abbiamo avuto tanto tempo per girare: solo sei settimane. Far parlare non solo noi attori, allora, è stato essenziale. Per fortuna Alessio (De Leonardis) aveva tutto già in testa. È un mostro a livello di tempistiche sul set. Ha fatto diciotto film da aiuto regista ed è il sogno di ogni troupe: non ci ha fatto mai sgarrare di un minuto.
Questo modo di procedere per colpi di colore, unendo pezzi di un puzzle dal soggetto iconografico di dichiarata difficoltà hardcore – e non con la linearità delle storie che si dipanano con più agio narrativo – ti sembra il modo migliore per rappresentare al cinema la Roma di oggi?
Roma l’ho vissuta tanto e in un modo molto particolare. Sono nato a Tor Bella Monaca ma andavo al liceo classico, al Mamiani, perché mio padre aveva voluto mantenere la sua residenza in via Germanico, a Prati. Roma non esiste: è come dire l’Africa. Dire “sono di Roma” non vuol dire niente. La città va a quartieri e zone, e va anche molto a licei. Da ragazzo di periferia avevo molti amici del centro: figli di professori e di professionisti da cui spesso restavo a pranzo, suonando la chitarra e scoprendo altri mondi, tra cui i libri, anche grazie al fatto che non c’era Internet. Così, per cinque anni, ho fatto Anagnina-Lepanto in metro, ogni giorno. È stato una specie di piccolo Erasmus.
C’è stato anche uno scambio di ritorno, dal centro verso la periferia?
Non fisico, perché venivano poche volte da me, ma uno scambio culturale, sì. Sono sempre stato un romano trasversale, con amici ai Castelli e al Forte Prenestino: non mi è mai piaciuto chiudermi in una sola realtà.
Allora è anche per questo che sei un antieroe dei due mondi: affresco e bozzetto. Ma in quale delle due forme di linguaggio ti riconosci di più? Epica panromana, come in Romanzo criminale, o schizzo rionale, come in Martedì e venerdì?
Devo dire che mi sono innamorato della sceneggiatura di questo film, che gli autori dicono scritta pensando proprio a me. Entrambi hanno vissuto almeno in parte, sulla propria pelle, una storia di separazione con figlie piccole. Il loro racconto mi è sembrato subito lontano dagli stereotipi dei separati che si odiano. È una storia piccola, semplice, popolare, nell’accezione migliore del termine. Oggi si fanno perlopiù film complessi, che vogliono mandare un messaggio a tutti i costi, oppure film di puro intrattenimento. La nostra è una fotografia in movimento in cui si possono rispecchiare tante persone.
Te lo aspettavi da Fabrizio Moro regista?
Devo essere sincero: non me lo aspettavo del tutto. Avevo visto il suo primo film, Ghiaccio, una storia di pugilato anche raffinata, con inquadrature alla Scorsese. Ma qui il suo sguardo, da spettatore prima che da regista, mi ha molto colpito per la sensibilità accessibile che riesce a mettere in gioco e a comunicare. Mi ha ricordato l’approccio che può avere un non addetto ai lavori come mio padre nel guardare un film: “Non si capisce niente quando parli, però quella scena mi piace”. Lo sguardo di Fabrizio è fresco, non contaminato. Non scende mai nei tecnicismi, ma lavora con le emozioni. Ma ora ti faccio una domanda io, che non ho ancora visto il film finito. Va tutto bene a livello di montaggio?
Forse c’è qualche incertezza nella gestione dell’unicorno (microspoiler); ma, a parte questo, tutto bene.
Ah, lo vedi. Lo volevano togliere, ma poi ho insistito io.
A proposito di unicorni, la tua chimica con la giovanissima Aurora Menenti è straordinaria quasi quanto quella con Adamo Dionisi.
È una specie di piccola Meryl Streep. Ha già fatto Suburra.
Che differenza c’è tra lavorare con attori bambini e attori adulti?
Aurora è una perfetta sintesi tra l’essere bambina e l’essere attrice. Di solito i bambini o si limitano a recitare il ruolo del bambino, perché sono svegli e fanno quello che devono fare e basta, oppure sono nani travestiti. Invece lei è di un’intelligenza tale da capire immediatamente il significato di una scena, pur lasciandosi poi trasportare dalle emozioni. Io cazzeggio sempre, sul set arrivo anche a dare fastidio agli altri. Ma questo mestiere è anche molto “giocare a fare finta”, e una presenza come quella di una bambina così professionalmente matura ha aiutato a ristabilire gli equilibri. Recitare con lei è stata un’arma in più.
In particolare in un dialogo del film affronti il tema dei padri single, che “hanno sempre torto”. Questo tema ti tocca o ti ha toccato anche per motivi personali?
Io non ho figli e non sono sposato, anche se ho avuto delle storie lunghe. Mi sono sempre detto: “Già fai tanta fatica da solo”. Per ora non vorrei portare a bordo della barca altra gente. Sono un tipo molto responsabile e non mi sono ancora sentito di affrontare la cura che metterei nel rapporto con un figlio. Dunque nel film non ho potuto mettere chissà quali elementi personali, se non il bambino che ancora, per certi versi, sono.
Il finale è aperto. Non lo spoileriamo.
Ti è piaciuto? Mi sa che non ti ha convinto la piscina.
Non spoileriamo, però la piscina ci ha dato qualche perplessità a livello cronologico. Ma non è questo il punto. Ritieni che Martino sia un personaggio redento o redimibile?
Secondo me alla fine Martino, da bambino, diventa uomo. Metabolizza una crisi, come quando una botta in testa ti dà una svegliata. Martino era una persona che si lasciava passare tutto sopra, non pagava le tasse, si accontentava di poco e di sé. Invece bisogna nutrirsi e migliorarsi soprattutto a partire dal rapporto con gli altri. Crescere, acculturarsi, un po’ come sua moglie, invano, aveva provato a fargli capire.
Il tuo lavoro qui è particolarmente interessante perché non hai tra le mani un personaggio con caratteristiche spiccate, che siano talenti o difetti, come è successo quasi sempre con i tuoi ruoli passati. Anche qui però interpreti un personaggio visto attraverso la lente della criminalità, sebbene all’inizio sembravi averla scampata, per una volta. Secondo te è ancora tanto importante raccontare la criminalità, tra le polemiche che si fanno sul rischio emulazione che può generare e il valore morale della lezione che può impartire?
Io sono cresciuto con Quei bravi ragazzi, Il padrino e altri film di gangster. Ma non per questo uscivo di casa con la pistola, con tutto che ero di Tor Bella Monaca. Chi spaccia o fa rapine spesso non ha mai letto un libro in vita sua. La criminalità occupa un buco nella vita delle persone che è più grande di qualunque film o serie sulla criminalità stessa.
Com’è la tua Tor Bella Monaca oggi?
La mia Tor Bella Monaca non è palazzoni, è ancora sana. È la parte della borgata. Spesso le periferie romane sono fatte di borgate costruite negli anni Trenta o Quaranta e poi palazzotti dei Settanta. A Tor Bella Monaca convivono due realtà parallele: una in cui ci si aiuta e una in cui c’è molta tensione, che deriva anche dalla ristrettezza degli spazi in cui ci si muove, dal fatto di stare gli uni attaccati agli altri, di non avere privacy perché senti il vicino quando va in bagno. La tensione deriva da una necessità di sopravvivenza.