Il trasporto con cui Sergio Rubini racconta il suo Eduardo rockstar è da devoto, addirittura groupie, dilaniato nel senso dei dylaniati di Bob (defilipper fa troppo Maria). Ed è lo stesso spirito abbagliato – poi si spiegherà il perché dell’aggettivo – che ha messo nei Fratelli De Filippo, il suo ultimo film prodotto da Pepito Produzioni, Nuovo Teatro e RS Productions, presentato alla Festa di Roma, al cinema il 13, 14 e 15 dicembre e il 30 dicembre su Rai 1. Una biografia classica ma che classica non è, pensata come, appunto, il making of di queste leggende che dall’Italia conquistarono il mondo, Måneskin ante litteram, e non è una battuta. «Ha un po’ a che fare con la cosa delle rock band, sì. I De Filippo come i Beatles, i Rolling Stones…», attacca il regista, che stavolta non si dirige forse per lasciare ancora più spazio al Mito, anche il suo. «Lo spirito è stato prima di tutto questo, raccontare la sensibilità di Eduardo per l’avanguardia. Quando parliamo di personaggi del passato, ci sembrano tutti fermi lì. Ma, nella loro contemporaneità, avevano elementi che li proiettavano verso il futuro. Per esempio, quando Pirandello debuttò negli anni ’20, la gente gli tirava appresso gli stracci, gli urlava “Manicomio! Manicomio!”, perché la lingua di Pirandello per quell’epoca era davvero da pazzi. Invece Eduardo davanti a Pirandello ebbe una specie di folgorazione. Quando a vent’anni vide per la prima volta Sei personaggi in cerca d’autore, ne rimase completamente abbagliato». Eccolo, l’abbaglio. E anche la presa di coscienza che siamo stati una fabbrica di rockstar forse a nostra insaputa. «Come negli anni ’60 e ’70 quando restavamo abbagliati di fronte a Carmelo Bene, oppure io, per restare nel campo della musica, quando una decina d’anni fa ho scoperto Blake e ho detto: però… Eduardo è stato questo, uno di fronte a cui tanti hanno detto: che è ’sta roba? Perciò ho voluto raccontare questi personaggi quand’erano giovani e, in qualche modo, diversi. Pure stonati, per il loro tempo».
I tre personaggi, che l’autore l’hanno trovato, sono Eduardo, Peppino e Titina, i fratelli del titolo che da bambini nati bastardi dal sangue di chi ha cambiato il teatro napoletano (Eduardo Scarpetta, sullo schermo un monumentale Giancarlo Giannini) diventeranno giovani capaci di costruire la loro bottega, e di tradire la genetica soprattutto artistica per innovare ancora di più, trasformare per sempre (e globalmente) il teatro non solo italiano. «Spesso ciò che è innovativo non è accordato: altrimenti sarebbe la solita musica. Perché non lo sia, bisogna saper portare la croce della stonatura, bisogna voler anche non piacere, sembrare fuori tempo, essere aritmici. Eduardo ha sempre avuto il coraggio di essere diverso. Il coraggio, dicevo, di innamorarsi di Pirandello quando Pirandello non era ancora nessuno: per il Nobel ci voleva ancora tempo, l’avrebbe preso nel ’34, e guarda caso la sua poetica è stata compresa prima fuori dalle nostre frontiere. Un po’ come è successo con Dario Fo, quando il Nobel l’ha vinto lui noi ci siamo quasi sorpresi, forse perché viviamo solo dentro la nostra contemporaneità, non ci rendiamo conto di quello che abbiamo alle spalle. In queste distrazioni, noi italiani siamo dei campioni. Eduardo non è stato distratto, ha tradito il padre ma soprattutto il padre artista, il suo padre artistico l’ha trovato proprio in Pirandello, il suo riferimento, per diventare quello che è diventato, non è stato nella tradizione, ma nell’avanguardia».
Non solo Eduardo Scarpetta l’iniziatore della stirpe, la matrice. Nei Fratelli De Filippo il racconto è pubblico ma pure privato, perché anche in quello sta la loro unicità, appunto l’avanguardia. «Eduardo in particolare era una rockstar proprio dentro quel tipo di società. I fratelli hanno sposato altri fratelli, avevano rapporti endogamici, quasi da cavernicoli. Lui si è preso un’americana perché per lui nel tradimento si è sempre compiuta l’arte dell’esplorazione. Dunque ha tradito la sua cultura e la sua società perché ha sposato un’americana, e perché ha iniziato ad ascoltare il jazz quando a Napoli stavano ancora col mandolino, e perché alle cinque Dorothy gli serviva il tè e non il caffè. Ha tradito perché è andato a Milano e ha provato a recitare “in lingua”, lui che veniva dalla tradizione dialettale. Non è detto che tutti questi tradimenti portino a un risultato positivo, ma bisogna avere il coraggio di sbagliare strada, e anche di tornare indietro: Eduardo da Milano è tornato, ma poi, da vero artista, ha messo tutto dentro questo calderone, ha rimpastato tutto e ha tirato fuori una nuova poetica. E ha compreso che la cosa più importante era partire sì dalle proprie origini, ma poi mescolarle a ciò che c’era attorno a lui, a quello che vedeva. Fino a quel momento i protagonisti delle commedie erano messi sotto un cono di luce, come se fossero degli eroi, Eduardo invece ha compreso che bisognava raccontare la povera gente, gli umili, i diseredati. Così è nato il neorealismo e quella poetica che abbiamo esportato nel mondo. Quando parliamo di neorealismo pensiamo sempre al cinema, ma in realtà fonda le proprie radici proprio nella lezione di Eduardo. Eduardo debutta con Napoli milionaria al Teatro San Carlo nel 44, prima ancora che fosse liberata. E prima di Roma città aperta di Rossellini. Si era guardato intorno e aveva già capito che proprio quello sguardo andava raccontato. Noi siamo abituati a vedere i De Filippo come pezzi da museo, invece era gente spregiudicata, erano cazzuti, erano forti, hanno avuto la forza di ribaltare il proprio destino. Partivano dalle retrovie, da una famiglia di serie B, come figli pubblicamente rifiutati dal padre. Avrebbero potuto vivere al soldo degli Scarpetta per tutta la vita, bastava stare a quelle regole, bastava non avere il desiderio di cambiare. Invece loro hanno voluto cambiare. Eduardo più degli altri ha portato la croce di essere un po’ antipatico, di essere il frontman che fa quel che vuole nella sua band, anche a costo di non piacere a tutti».
Rubini torna spesso su questa cosa che sembra piacergli (pardon), corrispondergli. «Piacere a tutti significa pastorizzarsi», che mi pare una definizione magnifica, «invece un ricercatore, nel senso di uno che fa ricerca, deve essere divisivo. Se Eduardo non lo fosse stato, non avrebbe cambiato le regole del teatro, della recitazione. Prendi un dettaglio apparentemente banale: la buca del suggeritore. Lui l’ha tolta. Ha levato un elemento che in qualche modo ci ricordava continuamente che ciò a cui assistiamo è una finzione. Ha cercato il più possibile di far diventare il palco lo specchio della realtà, della verità. Pensiamo che gli attori siano bravi a dir bugie: no, gli attori sono bravi a dire la verità. Un attore è chiamato per essere vero. C’è il luogo comune della valigia dell’attore, come se in quella valigia ci fossero tanti abiti e ogni volta un attore scegliesse quello da indossare. No, nella valigia non c’è una sega, niente di niente: l’attore si mette a nudo. Il compito dell’attore non è vestirsi, è spogliarsi. Questo Eduardo l’ha capito, e ha capito che è proprio in scena che bisogna mettersi a nudo. Peppino, anche rispetto alle sue sofferenze famigliari, a volta rilasciava qualche intervista dove trasformava tutto in gossip: mio padre è stato uno stronzo, noi non siamo stati riconosciuti… Eduardo invece taceva, e Peppino pensava che volesse mettere la polvere sotto il tappeto. Invece incamerava e poi trasformava in commedie i suoi drammi personali, le sue ferite: che è quello che deve fare un artista. Questa lezione mi ha molto affascinato: quella dei tre ragazzi un po’ sofferenti che riescono a trasformare le loro ferite in propellente per affermarsi».
C’è, nel film, questa scansione del tempo tra farsa e tragedia, fino alla commedia come forma che tiene insieme tutto. Non è Melinda & Melinda di Woody Allen: la vita può essere commedia o tragedia. La vita – il teatro – di Eduardo, e con essa il film di Rubini, sono la stessa cosa, un unico intreccio. «La commedia è dove, lo dice lui stesso, il pianto e la risata sono mescolati. Ridere per ridere serve veramente a poco, non lascia traccia. Anzi, lascia quasi dentro di noi la sensazione di essere un po’ stupidi. Eduardo ci ha regalato la possibilità di scoprire che siamo in grado di ridere e piangere contemporaneamente. È andato oltre i generi, le classificazioni, perché la vita è molto più complessa, non è solo commedia o tragedia. E questo è quello che ha fatto impazzire i critici, che hanno sempre bisogno di incasellare».
Anche il cinema del Rubini autore ha fatto impazzire certi critici, proprio perché è sempre stato libero dai generi. Era il frutto di abbagli, nel senso che abbiamo dato prima al termine, di scelte libere, dal primissimo La stazione (che bello), fino a tutte le incursioni successive nel dramma storico (Il viaggio della sposa), nel romanzo di formazione (Tutto l’amore che c’è), nel mélo (L’amore ritorna), nella farsa/faida (La terra, il mio preferito), nel giallo (Colpo d’occhio), fino al precedente ai De Filippo, il liberissimo Il grande spirito, di due anni fa. «Io penso che un artista debba mantenere questa meraviglia, questa capacità di essere abbagliato. Che non debba mai affidarsi al mestiere, perché è quello che atrofizza la creatività. Il mestiere è un congegno quasi cinico, bisogna invece essere sempre aperti, e questo ti espone a tanti rischi: in primo luogo, quello di sbagliare, di non piacere. Ma, quando mi metto dalla parte del pubblico, quello che personalmente mi aspetto è la verità dell’esplorazione. E che sia un film, un quadro, un’opera musicale, quell’esplorazione è sempre il frutto di uno scavo nella propria sofferenza. Poi magari si può trasformare in un gioco, in qualcosa di festoso, ma alla base c’è sempre il dolore. Ricordo quella che passa per essere una battuta di Bruno Lauzi. Alla fine di un suo concerto, una signora tra gli applausi gli disse: “Bravo, che bello, ma perché lei scrive sempre delle canzoni così tristi?”. E lui rispose: “Perché quando sono allegro esco, vado al mare”. È una sintesi potentissima. Questo è un mestiere che fai perché, quando ti svegli, hai voglia di scavarti dentro, e lo fai se dentro c’è qualcosa che ti fa soffrire. Se no vai al mare. E se vai al mare, probabilmente non scriverei il Requiem di Mozart. Tutto nasce da un disagio a cui vogliamo dare senso, perché la vita ha bisogno di senso. E in questo momento, tra le altre cose, il pericolo è proprio questo: trasformare tutto in puro intrattenimento. È una sorta di narcosi che non ci regala senso. La storia dei De Filippo andava raccontata perché dà senso e speranza. La famiglia De Filippo è emblema del nostro Paese sgangherato che – parlo della sua parte sana – pur partendo da condizioni di svantaggio riesce ad affermarsi. Un film dare avere la luce nel suo finale. I film che finiscono male ci colpiscono, ma hanno anche una punta di vigliaccheria. Invece il lieto fine, che fino a non troppi anni fa ci spaventava tanto, è un atto di coraggio. Perché nel lieto fine un autore indica una possibilità, una strada. Ecco, in questa storia c’è l’indicazione di una strada».
Ha già trovato l’happy ending la parabola dei tre protagonisti scelti per i ruoli principali accanto a mostri come Biagio Izzo, Marisa Laurito, Vincenzo Salemme, Maurizio Casagrande. E cioè i bravissimi Mario Autore (Eduardo), Domenico Pinelli (Peppino) e Anna Ferraioli Ravel (Titina). Fanno pensare al giovane Sergio “abbagliato” agli inizi della sua carriera nel cinema. «Lo spirito con cui ho scelto i ragazzi non era quello di trovare solo dei bravi attori. Cercavo delle personalità, un’umanità che in qualche modo avesse dei punti di contatto con quella che mi ero immaginata rispetto ai personaggi che volevo raccontare. E quindi ho cercato delle persone, e cercarle tra i giovani è fantastico perché non hanno ancora le incrostazioni del mestiere, trovi ancora più facilmente la verità. I momenti in cui si sentivano più impreparati erano quelli in cui ti regalavano la cosa più autentica. Amo tantissimo il mestiere dell’attore e mi piace quello del regista, la possibilità di dirigere gli attori, e mi trovo bene a farlo quando gli attori sono ragazzi anche un po’ inesperti. Il mestiere dell’attore è complicato perché, diventando adulti, vogliamo avere come delle maniglie a cui stare aggrapparci, vogliamo stare attaccati a tutto quello che abbiamo imparato. Invece bisogna quotidianamente disimparare. Questo è il pericolo costante a cui un attore è esposto, insieme al professionismo, guai a dire “un grande professionista”, è la definizione peggiore che ci possa essere. Serve mantenere uno stupore, un approccio quasi ludico, infantile. Dobbiamo continuare a mostrare i nostri difetti. Ecco, in questo senso i De Filippo sono stati rivoluzionari. Soprattutto è stata una rivoluzione quella che ha portato in scena Titina in un periodo in cui andavano le maggiorate, le soubrette. Era una donna che non aveva avuto il dono della bellezza canonica, e invece è riuscita a mettere al centro della scena una donna come ce ne sono tante, a fare della normalità uno spettacolo».
I fratelli De Filippo è un film sulla giovinezza, sugli allievi e i loro maestri. Di recente, nel documentario The Girl in the Fountain dedicato ad Anita Ekberg e presentato al Festival di Torino, rivedevo quella scena dell’Intervista di Fellini con Rubini ragazzo. Federico e Marcello (sapete chi) andavano a casa di Anita insieme a un giovanissimo, abbagliatissimo Sergio. «Il mio primo maestro in realtà l’ho avuto alla Silvio D’Amico, che ho frequentato solo per due anni, ed è stato Andrea Camilleri. Prima ancora che diventasse il Camilleri scrittore che tutti hanno conosciuto e amato, era un regista parcheggiato all’Accademia che mandava i suoi copioni in Rai e nessuno glieli produceva. Mi scelse per un suo spettacolo. Poi è arrivato Fellini, e lì sì parliamo di avanguardia. La fortuna è stata incrociare quell’uomo in un’età davvero così cruciale per la formazione, di essere stato accanto a un visionario, a un ricercatore, a un uomo trasgressivo che però nella vita non aveva nulla di trasgressivo. Non aveva niente a che fare con le droghe, eppure era sempre drogato, il suo modo di vedere il mondo era assolutamente alterato, riusciva a vedere non solo la realtà che aveva intorno, ma una seconda, una terza, una quarta realtà. Il suo sguardo era lisergico, però sembrava un normalissimo professore di liceo. I maestri non sono quelli che stanno dietro le cattedre e ti rompono le balle con l’indice puntato, possono esserlo molto di più i compagni di banco rompiscatole che però hanno un tratto geniale. Fellini era un monello. Racconto sempre questo aneddoto: Federico non ti diceva mai di svegliarti presto la mattina, perché non era da lui; però ti chiamava prestissimo, alle sette, pure alle sei e mezza, perché era insonne. Quando, magari perché c’ero stato a cena la sera prima, capivo che mi avrebbe chiamato, allora mettevo la sveglia, perché non mi andava di farmi beccare con la bocca ancora impastata dal sonno, facevo anche gli esercizi con la voce… Così, a 25 anni, ho imparato che, se vuoi esprimere una qualche idea, non ti puoi svegliare a mezzogiorno, perché se no sei in ritardo sull’orologio del mondo. L’ho imparato non perché Federico mi ha detto di fare una cosa, ma perché la faceva con me. Quelli sono i grandi maestri».
Si torna a quell’eterna giovinezza d’attore, d’autore. «Ho voluto raccontare i fratelli De Filippo nella loro giovinezza perché è lì che hanno dato il meglio di loro». Che diamo il meglio di noi. «Anche a Napoli ci sono tantissimi ragazzi che non sanno nemmeno chi siano, i De Filippo. Ho scelto questa storia per divulgarla, per renderla nota. E perché possa servire ad immaginare un futuro possibile, se no siamo costretti a vivere in un eterno presente che però non porta a nulla, ci fa solo vivere in un grande affanno. Avere una visione del futuro ci aiuta a combattere il presente in cui tutto ci fa paura. E il futuro dev’essere una cosa bella, in questo momento ci spaventa solo perché non ce lo immaginiamo. Dobbiamo tornare a immaginarci un futuro splendido. Mi ricordo che, quand’ero ragazzino, si diceva del cancro: “Non hanno ancora scoperto l’antidoto”. In quell’ancora si consumava l’idea di un futuro che certamente avrebbe risolto il problema che più di tutti attanaglia il genere umano. Bisogna tornare ad avere una visione positiva di quel futuro che oggi ci sembra un buco nero. Questo ci aiuta a vivere».