Nella sala tutta stucchi e fregi dorati del Teatro Galli di Rimini entra Edwige Fenech ed è d’oro anche lei. Tailleur pantalone bianco come la pelle, capelli corti un poco ramati, scarpe alte che sbrilluccicano. Ha 74 anni, non si vedeva sullo schermo da otto (in tv, nella fiction Rai È arrivata la felicità). Vive da anni a Lisbona, lì l’ha raggiunta Pupi Avati per telefono e la felicità è arrivata di nuovo. «Mi ha raccontato la storia, il mio personaggio, era bellissimo, ho detto subito di sì. Ho messo giù il telefono e mi sono messa a saltare per la gioia, e la mia gatta con me. Saltavamo come due pazzerelle per tutta la stanza».
Il film è La quattordicesima domenica del tempo ordinario, esce il 4 maggio, è la storia di due amici (Gabriele Lavia e Massimo Lopez in età matura, Lodo Guenzi e Nick Russo da più giovani) che sognano di fare i musicisti, ma poi le loro strade si dividono. Anche per colpa di Sandra, “la ragazza più bella di Bologna” che torna all’improvviso nella vita di uno dei due. Edwige Fenech è bravissima, in uno di quei ruoli che solitamente si definiscono intensi, dolenti. «“Dovrai dimenticarti dello specchio”, mi ha detto Pupi già in quella prima telefonata», racconta, «ma io allo specchio non ci penso mai».
A Rimini riceve il premio alla carriera di La Settima Arte Cinema e Industria, il festival che Confindustria Romagna organizza da cinque anni e che mette insieme artisti e maestranze, chi sta davanti e chi dietro la cinepresa. Chiacchieriamo brevemente ma intensamente prima della soirée.
È emozionata per questo ritorno?
Sono emozionata per questo ruolo, uno di quelli che possono capitare raramente, non solo a me ma a un’attrice in generale. L’ho vissuto veramente in pieno. Sono stata fortunata a ricevere questa proposta da Pupi, mi ha dato la possibilità di esprimermi davvero come attrice.
Il suo, mi sembra di capire, non era un ritorno programmato.
No. Ormai avevo messo le chiavi sotto il tappeto.
Però c’era un fuoco rimasto acceso.
Ma rimarrà acceso per tutta la vita. È quel fuocherello sacro che abbiamo tutti noi che facciamo questo lavoro. Non si spegne mai.
Il cinema le è capitato, però poi l’ha fatto ricapitare sempre, in tante forme diverse. Da attrice, produttrice, ora con questo film inatteso. Che relazione è la sua con il cinema?
Un rapporto di gioia e dolore. Raramente la carriera di un attore o di un’attrice è lineare, a meno che non ci sia una fortuna straordinaria. In tanti hanno un grande talento ma non per questo sono riconosciuti come grandi attori. Pupi ha questa facoltà di dare un’opportunità a persone che il cinema non chiama più, o che magari non hanno più voglia di fare questo lavoro. Lui reinventa gli attori, è la sua grande dote.
Lei di che cosa non aveva più voglia?
A una certa età bisogna avere la dignità di non fare qualsiasi cosa, se le proposte non ti arrivano più. Dopo una carriera importante, non si può fare questo mestiere tanto per. E in realtà vale per tutti i mestieri, il cinema fa solo più effetto perché ci metti la tua faccia.
Sandra, “la più bella di Bologna”…
La più bella di Bologna è la Sandra giovane, però.
No, no: è anche la sua Sandra, e lo sa. La bellezza, mi permetta, è stata anche una persecuzione? Ha voluto mai allontanare da sé lo sguardo degli altri?
Sì, però quando la bellezza c’è ben venga, ecco (sorride). Poi uno prova a viverla nel modo migliore. Nel cinema può essere un rasoio, una lama a doppio taglio.
Fonte di pregiudizio, anche?
Be’, sono stata etichettata per tanti anni per essere stata l’attrice di film con titoli, insomma… imbarazzanti.
La imbarazzavano?
Moltissimo. Però poi ho avuto la fortuna di essere chiamata da altri registi. Dalla serie B di quelle commedie sono passata alla serie A, sono stata promossa. Però ho fatto anche tanti film che mi piacciono, nella prima epoca intendo.
Per esempio?
Quel gran pezzo dell’Ubalda ha un titolo fetente, però il film è molto carino. E anche Giovannona Coscialunga è una bella commedia. Non meritavano quei titoli, però quei titoli attiravano la gente, quindi forse aveva ragione chi li ha scelti, chissà. Io però a quell’epoca non vedevo quei film, li sto rivedendo adesso.
E si diverte?
Mi diverto, sì.
Questa sua ironia, questo distacco, li ha guadagnati col tempo?
Forse sì, all’inizio ero molto seccata, mi dicevo: questo è il mio destino, vivo la mia vita come mi viene offerta. Ma in realtà quelle sceneggiature erano molto carine, i registi molto bravi…
La più grande soddisfazione da attrice?
Ne ho avute tante.
Il primo titolo che le viene in mente.
Con Dino Risi ho fatto Sono fotogenico, insieme a Renato Pozzetto. Abbiamo chiuso il Festival di Cannes con 20 minuti di applausi. Ma ho avuto tante soddisfazioni come attrice. Delitti privati, che ho prodotto io per la Rai con la regia di Sergio Martino, è stato un successo clamoroso, io ho avuto critiche meravigliose. Potrei stare qui a elencare molti film della mia vita, però ogni volta mi sembra che tutto svanisca, per ricominciare da capo. La Fenech è quella delle commedie, e poi è qualcos’altro, e altro ancora… Però tutti, devo dire, mi hanno riconosciuto nel tempo un valore, come attrice e anche come produttrice.
La grande soddisfazione da produttrice?
Il rapporto straordinario con i miei colleghi, i registi, gli attori, tutti mi vogliono ancora molto bene. Il primo grande successo è stato Commesse, che è stato molto faticoso da montare, ma le sceneggiature di Toscano e Marotta erano meravigliose, e le mie attrici fantastiche.
È bello che un’icona – con lei posso usare questa parola (mi dice un timido “grazie”) – dica delle colleghe “le mie attrici” con questo affetto, questa generosità.
Sarà perché ho sofferto molto io come attrice a realizzarmi, ma ho davvero voluto dare ad altre l’opportunità di fare ruoli strepitosi. Questa cosa mi è riuscita molto bene.
La quattordicesima domenica è un film sui ricordi, sulle rotte impreviste che prende la vita. A nostalgia come siamo messi?
Ho ricordi bellissimi, ma io non sono una persona che vive nel passato. Io vivo nel futuro, è sempre stato così. Per me deve ancora tutto arrivare.