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‘El Paraíso’: Fiumicino-Colombia (aspettando ‘Il profeta’) con Enrico Maria Artale

Un angolo di Sudamerica nostalgicamente ricostruito alla foce del Tevere, un morboso rapporto madre-figlio, la chimica tra Margarita Rosa de Francisco e Edoardo Pesce (che ha molto a che fare con la genesi della storia). Ma anche il cinema di Jacques Audiard, visto che il regista sta lavorando alla serie tratta dal film del 2009

Foto: I Wonder Pictures

Due premi “pesanti” a Venezia 80, miglior sceneggiatura e miglior interpretazione femminile nella sezione Orizzonti. Ci è voluto un po’ per vederlo arrivare in sala El Paraíso, il bel film di Enrico Maria Artale che racconta un morboso rapporto madre-figlio, piccoli professionisti del traffico di droga in una Fiumicino surreale (featuring anche la musica di Nicolas Jaar). Dal 6 giugno è al cinema, e speriamo possa essere tra i titoli a godere delle promozioni volute dal governo, da Cinema in festa a Cinema Revolution. Protagonista Edoardo Pesce, in parte anche responsabile della genesi di El Paraíso, come mi ha detto lo stesso regista, nel corso di una conversazione sull’asse Londra-Parigi, dove Enrico si trova per ragioni che svela alla fine dell’intervista.

Enrico, da dove nasce la storia? Da quello che so, l’idea è condivisa con Edoardo.
Nasce intanto dalla nostra amicizia. Ci siamo conosciuti sul mio primo film, Il terzo tempo, in cui Edo aveva un piccolo ruolo. Siamo diventati molto amici, e ogni tanto ci dicevamo: “Sarebbe bello fare un film insieme”. Intanto ci vedevamo per cazzeggiare, e in realtà è così che è venuta fuori la suggestione del film. Eravamo a casa mia, completamente ubriachi, all’alba, a straparlare. Edoardo è una fucina di idee, ti racconta sempre mille cose che spesso mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro. Invece in quel caso, parlando di un rapporto madre-figlio, che ho vissuto in modo complesso e viscerale io più di lui, mi si è accesa la lampadina. E all’inizio doveva essere la storia di un fanatico di Elvis che voleva portare sua madre a Graceland, una figata, ma un altro orizzonte. Però lo spunto di questa difficile elaborazione del lutto mi ha intrigato e sono andato a innestarci sopra le mie esperienze di vita, quella di un lungo viaggio in Colombia, dove avevo stabilito dei contatti molto forti con quel Paese. E, poiché nell’idea c’è sempre stato un viaggio, da quella chiacchierata è nato il nucleo del film.

Edoardo Pesce è Julio. Foto: I Wonder Pictures

Il film parla di una tripla dipendenza, quella tra madre e figlio, un’altra nei confronti della sostanza e la terza che fa di El Paraíso un film quasi ferreriano, una variazione sul tema de La carne. Ci hai pensato mentre scrivevi?
No, non direttamente, avevo diciamo questa ossessione della fisicità, o addirittura dicevo, per respingerlo ancora oltre, della fisiologia. Per questo nel film c’è anche tanto, tanto cibo. Non che sia stato programmatico, però a un certo punto mi sono accorto che continuavo a scrivere scene dove si mangiava, si beveva e ci si drogava, tutto al tempo stesso. Ero ossessionato da tutti i processi di assunzione, e questo mi spingeva a essere con la camera molto addosso ai loro corpi, alle mani, alle pance, non solo al volto. C’è molto contatto fisico tra i personaggi, ovviamente nella danza, ma non solo. Non è mai un contatto sessuale, perché mi interessava fare un film in cui il sesso fosse una continua allusione, un cripto incesto, un desiderio represso verso la madre, verso il figlio, verso la ragazza che arriva.

Hai trovato un’alchimia della coppia protagonista perfetta. Margarita Rosa de Francisco è favolosa. Dove l’avete scovata?
È una lunga storia pure questa. Il film ha avuto una scrittura molto lunga, sette anni, tra Covid, difficoltà per finanziarlo e tutto il resto. E per metà di questi anni ho scritto tenendo in mente questa attrice che mi aveva fatto conoscere un colombiano, mostrandomi dei video su YouTube di una specie di web serie che lei aveva fatto recentemente, perché Margarita ha avuto un’enorme fama da giovane grazie soprattutto alle soap opera in Colombia e in Messico. Poi ha fatto poco, non ha avuto l’occasione. Guardando questi video in cui lei interpreta un’attrice gloriosa, mi sono interessato al personaggio e ho scritto pensando a lei come riferimento per anni, senza sapere se sarei riuscito ad averla. L’abbiamo contattata, lei si è entusiasmata, il Covid ci ha creato problemi, ma le ha dato più tempo per imparare l’italiano, perché non sapeva una parola, così come Edoardo non sapeva una parola di spagnolo. Volevo creare questo linguaggio che fosse un pasticcio tra spagnolo e romano in realtà, anche perché mi divertiva il fatto che il romano somigli allo spagnolo più che l’italiano stesso. Volevo parlassero una loro lingua che restituisse questa bolla in cui vivono. Quando è arrivata a Roma l’italiano lo parlava, ma non aveva ancora il personaggio, anche perché lei è una donna molto elegante, non una vissuta quarant’anni a Fiumicino. Sono state decisive quelle quattro settimane di prove in cui Edoardo e Margarita andavano quasi tutte le sere a cena insieme per condividere, parlare. Passavamo un sacco di tempo nella casa dove poi abbiamo girato, per farla diventare veramente casa loro. C’è stato un lavoro di immersione totale. Pochi giorni prima di iniziare le riprese, durante una sessione di prove, Edoardo aveva questo atteggiamento un po’ autoritario, dava indicazioni, e lì lei ha reagito, si è arrabbiata, non ne poteva più. Ha iniziato a urlare, a essere un po’ nella scena e un po’ nella realtà. E lì ho capito che avevamo trovato la chimica di cui parlavi, era accaduto qualcosa che non era previsto nella scena ma che aveva stabilito il rapporto, perché anche Edoardo era entrato nel personaggio.

A proposito delle ambientazioni, ovviamente ci sono echi pasoliniani, Fiumicino, il Villaggio dei Pescatori, ma in realtà potrebbe essere il delta del Po o Castel Volturno, e anche questa lingua mista contribuisce a rendere l’atmosfera molto più universale e meno circoscritta e definita.
Volevo allontanarmi, non per partito preso. Credevo fosse importante che vivessero in una sorta di fantasmagoria, un angolo di Colombia nostalgicamente ricostruito alla foce del Tevere, un altrove come hai detto tu. Il fiume come elemento simbolico, ma non per forza il fiume romano, l’acqua come elemento di transizione, e da qui anche l’importanza della loro barchetta. Ogni dettaglio era importante.

Probabilmente se fossero andati a Graceland ci sarebbero arrivati navigando il Mississippi.
Ma certo, assolutamente. Il fiume è un topos letterario enorme, il massimo della ricerca delle origini, risalire la corrente. Nelle prime versioni della sceneggiatura questa cosa era più sviluppata, anche nella parte colombiana c’era un viaggio sul fiume, il Rio Magdalena, il più importante della Colombia, e il personaggio della madre si chiama appunto Magda. Poi tutto questo si è sublimato, ma è rimasta l’importanza del fiume, di quei piccoli trasferimenti in barca che fanno. La seconda ragione che ti dicevo era lavorare su questa identità ibridata. Oggi si fa tanto leva sull’identità nelle sue deformazioni nazionalistiche, come se fosse un qualcosa da preservare. Ma la nostra storia, e non solo degli italiani, è una storia di identità ibridate, e oggi è ancora più vero per molteplici ragioni, a partire dai flussi migratori, resi possibili da un diverso modo di viaggiare. Questa è una storia di clandestinità e di immigrazione ma diversa, perché Magda è sì una clandestina, ma grazie al traffico di droga. È questo che immaginiamo. L’occasione di poter raccontare delle identità ibride mi sembra il modo più interessante per evolvere anche gli scenari pasoliniani. In realtà in quei quartieri abitano persone che vengono da tutto il mondo: sudamericani, rumeni, africani. Questo crogiolo è una ricchezza, anche nelle commistioni musicali. Mi interessava raccontare tutto questo senza dover fare un film sociale in cui vige un certo naturalismo nella descrizione degli ambienti sociali. Lo volevo trasfigurare in una storia universale.

El Paraíso è anche difficile da inquadrare in un genere, e dal mio punto di vista è un bene, perché per certi versi è un bel noir, ma anche un dramma familiare con sfumature horror. È una storia fluida, che muta continuamente e che anche per questo ha avuto un riscontro internazionale a Venezia.
Questa cosa che mi dici mi piace molto, mi intriga anche rispetto ad altri progetti futuri. Questa fluidità, che mescola i generi o le tensioni e le allusioni ai generi senza che si possa inquadrare il film in uno in particolare, mi sembra molto contemporanea e affascinante. Mi sembra un modo anche naturale di giocare con lo spettatore, raccontando una storia senza incasellarla e senza farsi dettare le regole dagli algoritmi dell’oggi. È una scelta difficile alle volte in scrittura, perché in un attimo qualcosa ti può prendere la mano troppo verso una direzione e devi tenerla. È come avere tante redini tra le mani, ma è una strada da seguire.

La definizione di un genere passa anche dallo sguardo: atmosfere, luci e colori cambiano a seconda del mood dei personaggi e delle pieghe della storia. Tutto questo avvolge il racconto e aiuta a entrarci dentro.
Sai, adoro Cassavetes, per parlare di un classico, ma anche Derek Cianfrance, che è contemporaneo ma che, in un certo senso, insegue quel tipo di narrazione e messa in scena. Ma anche autori come James Gray e Michael Mann hanno sempre fatto scelte di questo tipo, infondendo il film di atmosfere declinate dalle emozioni dei personaggi. Una cosa molto americana che però sviluppò anche la Nouvelle Vague e che è arrivata fino a oggi. Lo stesso Anatomia di una caduta è un dramma familiare che si mescola a un thriller e a un film processuale.

È quello che fa da sempre Jacques Audiard.
Audiard è uno dei miei miti. In questo momento sono a Parigi perché sto girando la serie tratta da Il profeta, sono già al montaggio e sono stremato, ma è un progetto bellissimo. Audiard è un regista che si è installato nella tradizione del polar francese, ma reinventando anche molte cose.

A parte che non sapevo assolutamente che tu stessi lavorando a questa serie, ripensando a film come Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, sono tutti mélo che si trasformano in polar che si trasformano in qualcos’altro. Peraltro, se ci pensi un attimo, Il profeta è anche un film a cui forse ti sei inconsciamente ispirato.
Lo adoro e mi è d’ispirazione costante sul film che sto scrivendo adesso, quindi diciamo che mi parla. Ma facendo questa serie ho rivisto non so quante volte Il profeta. E studiandolo, quello con il cinema di Audiard è ormai diventato un dialogo interiore.

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