Elio Germano, basta la parola. Se pronunci il suo nome e cognome, richiami nell’immaginario un cinema di qualità, di impegno (anche fisico, pensate al suo Leopardi), di talento cristallino. Un po’ come succedeva, con le debite proporzioni, per Gian Maria Volonté (non a caso ha vinto proprio il premio Volonté al festival La Valigia dell’attore della Maddalena diretto dalla figlia Giovanna Gravina Volonté), ti fai sempre sorprendere da quella recitazione che ti attanaglia cervello e pancia. Ora torna con Daniele Luchetti, che con Mio fratello è figlio unico lo ha proiettato definitivamente verso il grande pubblico e con La nostra vita gli ha fatto vincere il premio come miglior attore a Cannes (ex aequo con Bardem). E gli ha cucito addosso la sua scena più bella: lui che canta Anima Fragile di Vasco al funerale della moglie con una forza emotiva e interpretativa che ti stordisce ancora oggi. Li ritroviamo in Io sono tempesta, con un Marco Giallini in gran forma a far da mattatore. E, probabilmente, anche a farli diventare matti.
Con Daniele Luchetti incontri spesso poveri cristi che diventano diavoli, più o meno ricchi
Con lui c’è sempre questo mettersi in gioco, il voler trovare linguaggi nuovi, ribaltare luoghi comuni e giocare con gli stereotipi. I suoi personaggi non riescono a essere schiacciati in una direzione: credo che in una parola possiamo definirla umanità, che al cinema non fa mai comodo, perché alle sue strutture narrative sono necessarie le divisioni manichee tra buoni e cattivi. La complessità di ciò che siamo noi è una sfida difficilissima da rendere sul grande schermo e Daniele lo fa, riuscendo a consegnarci uomini ambigui, difficili da inquadrare, pieni di contraddizioni, che possono essere simpaticissimi o insopportabili. Anche contemporaneamente.
E’ un po’ il B-Side del personaggio de La nostra vita?
Chiunque abbia fatto una scuola di teatro in Italia non può non partire dalla commedia dell’arte. E sicuramente è la nostra forma narrativa più funzionale, ecco perché spesso di commedia ne troviamo tanta anche nei drammi. Qui nella farsa cerchiamo di rompere la maschera, così da fare pure il viaggio contrario. Ma è vero, Bruno è diverso da molti altri personaggi che ho fatto, in questo film c’è più la natura della fiaba e meno l’approccio realistico, così è più facile concedersi di andare un po’ sopra le righe.
Da Il giovane favoloso sembra cambiato qualcosa nelle tue scelte. Sembri più libero, ti concedi anche di far ridere di più
Non saprei, non credo. Sono sempre stato incapace di essere coerente in questo lavoro, ho sempre sentito l’esigenza di cambiare visione, pelle, compagni di lavoro. Non mi sono mai fatto condizionare dalle decisioni già prese o dalle scelte di comodo, come poteva essere una tournée nei teatri con le letture di Leopardi, per fare un esempio di una delle tante cose che ho rifiutato recentemente. Più che altro cerco di fare sempre un qualcosa che mi richieda molto studio, a cui mi dedico molto, e altre più leggere, con una fatica diversa, almeno nei tempi. Non sempre questo è visibile: negli ultimi tempi ad esempio ho scritto per il teatro, mi sono messo sul disco nuovo delle Bestierare e così dopo Leopardi al cinema ho fatto scelte diverse, magari ruoli più piccoli o inaspettati. Per gli altri.
A proposito di compagni di lavoro, com’è lavorare con Marco Giallini?
Io di Marco Giallini sono amico e un fan sfegatato da spettatore. Ci conosciamo da 3,87, il corto d’esordio di Valerio Mastandrea, era una vita fa. Conoscendoci abbiamo subito eliminato ogni convenevole, sapevo che ci saremmo trovati bene e quindi c’è stato solo il piacere di lavorare insieme, dell’andare sempre oltre a ogni ciak, di farci sorprendere l’uno dall’altro, anche grazie alla totale libertà di spazi, tempi, contenuti che ti lascia un regista come Daniele Luchetti. A volte dovevo impormi di non ascoltarlo, altrimenti finivo per ridere o avere reazioni che avrebbero rovinato la scena. Lui è bravissimo, immagina poi qui con tanti attori non professionisti, quante possibilità di invenzione ci ha regalato.
Un altro regista avrebbe fatto fare a te Tempesta e a Giallini il tuo personaggio
Non posso più immaginare Tempesta senza Marco Giallini, anche se è vero che a un certo punto Daniele aveva pensato anche a me nel suo ruolo e a lui nel mio, è da tanto che è su questo progetto e quest’ipotesi è balenata. La bellezza di lavorare con lui è che non ti mette mai davanti alla strada più facile, però. Quando poi vedi Marco arrivare in quel centro di raccolta per i poveri, con il macchinone e l’autista, lavare la schiena a uno degli uomini che ne è un frequentatore abituale, con quella faccia e quelle battute, capisci che Numa Tempesta non poteva che essere il Giallo. C’è qualcosa di Alberto Sordi in lui e in quel personaggio, nell’umanità che ci mette anche nella cialtroneria, nell’idea di sfruttare la multietnicità di una comunità di emarginati per trasformarla in un gruppo di finanziatori e CEO stranieri, perché alla fine in loro vede talenti che altri comunque ignorano, non guardandoli e non considerandoli. Anche se poi li sfrutta. Marco ha una capacità incredibile di restituire quell’iperrealista prototipo di italiano che dava anche Sordi, tra fascino e amore per la cialtroneria.
Parliamo di musica, l’altra metà del tuo universo creativo. A che punto sei, a che punto siete con le tue Bestierare?
Con le Bestierare siamo sull’album nuovo. Certo, essendo senza padroni non abbiamo un produttore che ci pressa e quindi ci prendiamo i nostri tempi. Magari un po’ troppo lunghi! Però lo stiamo confezionando bene, in una direzione non dico più intimista, ma più personale del solito. Dopo 20 anni di storia abbiamo voluto guardarci dentro, alla strada fatta fin qua, piuttosto che proiettarci verso l’esterno, anche se ovviamente rimaniamo sempre gli stessi e non rinunciamo a dire e cantare quello che pensiamo e sentiamo.