«Scusa il ritardo, ero al telefono con Elton». E cosa dovrei rispondere a David Furnish, che di Sir Reginald è marito e socio? Si è atteso con piacere per fare due chiacchiere con lui e R.J. Culter, registi di Elton John: Never Too Late, il documentario – dal 13 dicembre su Disney+ – che racconta l’addio alle scene di una delle più grandi rockstar degli ultimi cinquant’anni. Ribadiamolo questo concetto, perché magari ci sono un paio di generazioni che vedono Elton John come una specie di dinosauro del pop. Chi ha qualche anno in più sa che non c’è niente di più sbagliato in una simile speculazione. Tra il 1970 e il 1975, quest’uomo riempiva gli stadi come pochi al mondo, dopo avere tirato fuori in rapida successione una sfilza di album strepitosi come Elton John, Tumbleweed Connection (questo proprio enorme), Madman Across the Water, Honky Chateau, Don’t Shoot Me I’m Only a Piano Player e Goodbye Yellow Brick Road. Non è esattamente una cosa di cui molti si possono vantare.
Giusto quindi celebrare 55 anni di attività con lo strumento favorito dall’industria discografica in questo momento, il documentario agiografico. Lo hanno fatto in molti, a pochi è riuscito davvero bene. A Jon Bon Jovi, per esempio, che ha scelto la strada della miniserie, e a Elton, che la sua storia, senza filtri e senza rimescolamenti, l’aveva già raccontata in Rocketman, film di gran lunga superiore a Bohemian Rhapsody per struttura, scrittura, regia e interpretazione, e per tutte queste ragioni forse di ben minore successo. Si sa, la verità non fa notizia, ma a Reginald non interessa, come mi ha detto proprio David Furnish conversando con lui a proposito della limpidezza con cui oggi si pone nei confronti del pubblico e dei media guardando indietro alla sua lunga carriera.
«La sincerità è uno dei suoi maggiori punti di forza. Elton è un uomo sobrio da trent’anni e dallo stesso tempo in riabilitazione, e una delle cose che ha capito nel corso di questo processo è che la verità rende liberi. Sono i nostri segreti che ci fanno vergognare e ammalare. Ha passato così tanta parte della sua vita a mentire, a nascondersi, a scappare e a piegare la verità, che oggi una delle sue maggiori gioie è quella di essere autentico al 100%. La vita non è fatta per essere perfetti. Siamo tutti qui per imparare. Siamo tutti qui per commettere errori. E credo che il fatto che Elton sia così onesto riguardo ai suoi difetti e alle sue manie faccia sì che anche le persone che gli sono vicine ne traggano ispirazione».
Elton John: Never Too Late attinge all’enorme archivio visivo del cantante, sia video che fotografico, raccontando in parallelo la sua lunga carriera, dai successi alle cadute dovute alle dipendenze, e il suo lungo addio, quello del Goodbye Yellow Brick Road Farewell Tour, momento in cui i due registi hanno acceso le camere per raccontare l’ultimo atto della carriera dal vivo di Elton, da sempre animale da palco. E nonostante gli anni si facciano sentire, le giunture non siano più quelle di una volta, la rockstar si sia trasformata in un pensionato che si aggira nel backstage con sgargianti tute di ciniglia, le mani sui tasti del pianoforte e la voce sono sempre là, come vi abbiamo raccontato quando anche noi di Rolling Stone abbiamo avuto il piacere di assistere a questo magnifico show all’O2 Arena di Londra.
«Quelle sere in particolare furono davvero speciali», ci svela David Furnish. «Elton era incredibilmente felice sul palco, intendo proprio al settimo cielo. Sentiva che il pubblico stava rispondendo come raramente gli era successo e lui ha suonato e cantato al suo meglio, e anche la band, a suo parere, suonava a livelli mai raggiunti prima. Ma spesso nel corso del tour, quando non era sul palco, era molto triste, si sentiva solo e gli mancava casa. Sai, la nostra è una famiglia meravigliosa, voleva stare con i nostri figli, vivere il quotidiano tutti insieme. E poi, quando il tour è ripreso dopo il Covid, non poteva avere contatti con nessuno fuori dal palco. L’unico momento in cui ha passato del tempo con la band è stato nelle scene di backstage a Dallas che mostriamo nel film. A parte quello, ha vissuto una vita monastica in una bolla costruita ad hoc e non è stato facile, ragione per cui quando era sul palco era particolarmente felice e desideroso di dare tutto».
D’altronde, la leggenda di Elton John nasce proprio dalle sue esibizioni dal vivo, dal personaggio eccessivo che aveva inventato per essere all’altezza delle rockstar con cui si confrontava all’epoca, dagli Who, con cui non a caso finì con il collaborare nel barocco e magnifico Tommy di Ken Russell, ai Rolling Stones, in un’epoca che era oltretutto da tempo orfana dei Beatles, che avevano deciso di non fare concerti già da alcuni anni e si erano poi sciolti. E una delle grandi sorprese di Never Too Late sta proprio nell’occasione, soprattutto per i più giovani, di scoprire dell’amicizia che c’era tra due John apparentemente agli antipodi, Elton e Lennon.
«Io c’ero a quel concerto del Madison Square Garden nel 1974 (il 28 novembre per l’esattezza, ultima esibizione dal vivo di John Lennon, nda)», mi confessa R.J. Culter, regista abituato a lavorare con grandi rockstar. Ma anche per lui questa esperienza ha significato qualcosa di molto speciale. «Quella sera John Lennon si presentò sul palco e suonò con Elton. Credo sia stato il momento che indirizzò la mia vita e la mia futura carriera. Avere l’opportunità di lavorare oggi con lui, potere raccontare la sua storia, è un immenso privilegio».
Parole che sono rotte da una sincera emozione, e d’altronde, come ho detto io a stesso a R.J. e David, «mi avete fatto piangere». Ed è vero, perché in più di un momento la lacrima scatta, un po’ per la necessaria paraculaggine intrinseca in queste operazioni autocelebrative, ma soprattutto perché, come detto, al netto del chilo e mezzo di retorica e forse più “che faccio, lascio?”, c’è una disarmante sincerità in quello che vediamo. Elton, anche giustamente, tralascia alcuni momenti poco felici perché già raccontati in Rocketman, opera di finzione solo nella forma, ma in realtà complementare al documentario, mentre ci tiene particolarmente a ribadire l’importanza fondamentale del sodalizio con Bernie Tupin, paroliere con cui ha condiviso i trionfi e poi allontanatosi, per colpa di Elton e dei suoi eccessi, altra cosa che ammette senza problemi, quando i demoni avevano preso il sopravvento.
Vederlo uscire dal palco per l’ultima volta è un colpo al cuore, ma la domanda, da porre proprio all’uomo che ogni giorno si sveglia al suo fianco, è d’uopo. Ma dopo una vita passata davanti a decine di migliaia di persone, adesso Elton John non finisce che diventa un umarell in cerca di cantieri? «Ti assicuro che non c’è questo pericolo. Ascolta musica continuamente, tutte le novità del panorama discografico passano dalle sue orecchie. Legge, divora letteralmente tutto quelle che esce in libreria. Ha finalmente il tempo di seguire i suoi sport e le sue squadre preferite, ogni volta che vede R.J. passano ore a parlare di baseball. Tutto quello che c’è di nuovo in televisione, al cinema, non si perde niente. E la fotografia, naturalmente, la sua grande passione, c’è una mostra in questi mesi al Victoria & Albert Museum con le foto della sua collezione privata. Prima mi ha chiamato, e scusami ancora per il ritardo, perché stiamo per mandare in scena due musical prodotti dalla nostra compagnia con le partiture scritte da Elton, Il diavolo veste Prada a Londra (già un successo clamoroso: dopo due settimane di prevendite lo show è stato prorogato da luglio fino a fine ottobre, nda) e Tammy Faye a Broadway. Direi che la sua non si possa proprio considerare pensione. Ha smesso di fare tour, ma la sua agenda è piena di cose da fare, ogni tanto anche troppe, secondo me. Ma stai tranquillo, non si sta annoiando».
E c’è una cosa precisa che dice David Furnish e va sottolineata: «It’s just retirement from touring». È in pensione solo dai tour. Quindi nessuno ci può impedire di sognare di vedere Elton John per un’ultima volta su un palco. Dopotutto, Elton, lo hai detto tu: never too late.