Fabi Silvestri Gazzè, tre è il numero (im)perfetto | Rolling Stone Italia
I padroni della festa

Fabi Silvestri Gazzè, tre è il numero (im)perfetto

Arriva nelle sale il 7, 8 e 9 aprile ‘Un passo alla volta’, il docufilm che è il racconto del loro concerto al Circo Massimo ma anche della loro amicizia. E di un modo di fare musica che vuole (e può) permettersi tutto, anche il gusto di improvvisare, sbagliare, essere “normali”. Come al Locale trent’anni fa

Fabi Silvestri Gazzè, tre è il numero (im)perfetto

Max Gazzè, Niccolò Fabi e Daniele Silvestri nel documentario ‘Un passo alla volta’

Foto: Fandango

Se tre è il numero perfetto, se lo è stato almeno per loro, uno è il concerto che ha sublimato tutta questa potenza. Anzi, il potere: di stare insieme, suonare insieme e insieme, per certi versi, essersi costruiti. Roma, Circo Massimo, 6 luglio 2024, cinquantamila persone a festeggiare il decennale del Padrone della festa, l’album che riunì Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè. E i tre cantautori romani tornati sul palco. Per l’ultima volta, dicono. Giurarlo, con tre così, forse è impossibile.

Otto mesi dopo quel concerto è un docufilm, Fabi Silvestri Gazzè – Un passo alla volta, diretto da Francesco Cordio, con il montaggio di Giogiò Franchini, prodotto da Fandango e Rai Cinema. Presentato in anteprima al Bif&st – Bari International Film&Tv Festival, il film sarà nelle sale italiane come evento speciale il 7, 8 e 9 aprile.

Dentro, il racconto di tre percorsi artistici tangenti, ma anche di tre percorsi umani di cui si può dire altrettanto, fino alla convergenza del 2014: il viaggio in Sudan, il disco, il riconoscersi rami dello stesso albero, come quello gigante sul palco, a citare la cover dell’album: le radici su, la chioma giù. «Sembra un calamaro», dice Max Gazzè a vederlo montare. Ma le radici, evidentemente, sono profonde: Roma, gli anni sul palco molto più piccolo a Vicolo del Fico, Il Locale, luogo cult della scena capitolina degli anni Novanta, cantanti e attori tutti lì, serate che si sapeva quando cominciavano e mai quando sarebbero finite. Una stagione irripetibile il cui racconto trasuda sia dal documentario, sia dalle parole che i tre artisti ne fanno nella serata barese: la storia di un live, e prima ancora di un disco, che è quella di una chimica da cercare assolutamente di spiegare.

Il film prova a farlo a partire dalla gente accorsa al Circo Massimo. Provenienze ed età differenti, persone che non senti in nessun caso dire: sono qui per uno o sono qui per l’altro. Convenuti a una festa comune: generazioni diverse, un solo show e forse una stessa appartenenza. «È capitato che una persona ci abbia fatto vedere la foto con questa bambina all’uscita del disco, che al Circo Massimo era diventata una ragazza», racconta Gazzè a margine dell’anteprima stampa. «Se ci pensiamo, è una prospettiva molto particolare dello scorrere del tempo».

«È anche questo il motivo per cui c’è sembrato giusto non solo documentarlo, ma farlo vivere come un vero e proprio racconto», precisa Daniele Silvestri. «La sensazione di una serata che non ci scorderemo mai più, che non è solo per quei numeri e per quel luogo così importante, che forse solo in tre ci potevamo permettere di vivere in quel modo. Non succederà mai più perché anche chi avevamo di fronte era in una condizione d’animo speciale, con un’atmosfera che sembrava davvero raccolta e in qualche modo familiare, per quante persone ci fossero».

"Un passo alla volta" regia di Francesco Cordio - Trailer Ufficiale

Numeri a parte, il senso del valore dell’evento, di una identità, lo sottolinea Niccolò Fabi: «Non credo sia la quantità di persone o l’emozione del pubblico. Accade in tanti altri concerti, immagino che per tutti si possa dire: la loro musica ci fa impazzire, ci riempie di emozione. Quello che fa la differenza, e che forse solo noi tre possiamo raccontare, è un percorso parallelo di trent’anni. Non è semplicemente un artista che suona davanti a tante persone, ma il fatto che questa gente celebrasse quello che di normale avveniva su quel palco. Tre persone che hanno iniziato in un localino di dieci metri quadrati nel centro di Roma e che si sono ritrovate trent’anni dopo, con una fedina penale musicale tutto sommato pulita, con la volontà di vivere un momento di condivisione musicale, da amici».

E pensare al contesto romano di allora, a un modo di fare musica e condivisione talmente particolare, porta al confronto con l’attualità, con una scena profondamente stravolta per mezzi, spazi, piattaforme. E anche per il modo di vivere la composizione quanto l’esecuzione. «Quello che vedo è che ci sono un sacco di musicisti, cantautori e cantautrici, che stanno cercando di fare cose interessanti con spazi diversi da quelli che avevamo noi», dice Gazzè. «Il loro rischio è che sono emergenti adesso e lo rimarranno a lungo perché ci sono sempre meno spazi. In questo momento più avanza la musica chiamiamola un po’ più posticcia, più cresce l’esigenza naturale di voler ascoltare cose autentiche. Però noto il fermento, un ritorno all’autenticità delle cose, sia da chi crea musica che da parte del pubblico. Ogni forma di decadentismo implica un nuovo rinascimento, le montagne esistono perché ci sono le vallate, e viceversa».

Sentire parlare i tre cantautori è un’esperienza per certi versi simile al palco. Né l’unisono, né l’ammiccante riecheggiarsi l’un l’altro, piuttosto diverse interpretazioni dello spartito. Dissonanze persino, quando si va su un tema come quello dell’autenticità. «Forse in realtà è quello che preferiamo vedere, una reazione al posticcio o a tutto quello che è fin troppo facile, veloce e meno autentico», commenta Daniele Silvestri. «Anche se poi non ci si può arrogare il diritto di definire cosa è autentico e cosa no. Ma se c’è stato qualcosa di vagamente vanaglorioso nel nostro approccio a quel concerto, non era voler insegnare qualcosa, quanto voler mostrare che quel modo di intendere la musica, condividere lo spazio con gli strumenti in mano, quel modo di dedicare amore all’autenticità del suonare, in questo caso sì, paga. Ha un senso, comunica. E forse vive di più».

«Come generazione corriamo il rischio di rapportarci al contemporaneo in maniera pericolosa», spiega Niccolò Fabi. «Ci si può dividere tra un atteggiamento nostalgico, o al suo opposto un amore spassionato per la contemporaneità, per dimostrare che stiamo al passo coi tempi. Stare nel mezzo, riuscire a riconoscere il valore del percorso musicale che abbiamo fatto, già semplicemente essendo nati prima di internet, fa capire quanto tutto possa essere diverso. È stato anche il valore simbolico di un concerto di quelle dimensioni, con una struttura di quel tipo. Di solito a livello produttivo viene affrontato per evitare al massimo qualsiasi forma di errore, con una quantità di cose a synch, di click. Noi abbiamo fatto un concerto in cui la possibilità di errore era totale. Questo non per dire che è meglio, ma che si può portare davanti a tante persone la propria verità senza paura che debba essere perfetta, intoccabile, instagrammabile. Era un concerto che dovevi vederlo tutto per capire cos’era: c’era Max con la sua poetica, Daniele con la sua poetica, io con la mia. Era tutto molto più complesso, articolato, difficilmente raccontabile in un post».

«E c’erano anche dei cazzo di musicisti», scherza Daniele Silvestri.

Per Max Gazzè il tema sembra essere tutto sommato serio: «Quando metti un click su ogni cosa, tutto si appiattisce, si quantizza. Di conseguenza è anche automatico che tutta la musica si assomigli. Ed è normale che le persone, abituate a sentire tutto quantizzato, sentono le cose suonate con un movimento naturale…strane. E questo mi spaventa. Ci fa diventare quadrati, e non c’è nulla di quadrato nel mondo, se non dove ha messo un palazzo un essere umano. Hai mai visto un albero dritto, tu?».

Se tre è il numero perfetto, loro ce l’hanno messa tutta per dimostrarlo. Non è stato facile, si dice di solito. Nel loro caso, che forse non è affatto un caso, davvero tutto è sembrato facile. Timbri, caratteri, suoni: la chimica di stare insieme, dopotutto. «Credo sia abbastanza speciale, una naturale complementarietà di caratteri e linguaggi, che per una combinazione fortunata si incastrano senza che nessuno dei noi faccia sforzo», dice Niccolò Fabi. «Anche sul palco siamo poco cantanti. Nel senso che nessuno di noi ha la psicologia del cantante, di occupare il centro della scena. Mi diverto molto di più a suonare i pezzi di loro due. Quando Max canta i suoi pezzi non sono lì a dire quanto ci sta mettendo, devo fare i miei… Mi gratifica il fatto di vivere il mio racconto con altri testimoni, persone che possono essere certe che tutto quello sto raccontando è una cosa vera. Come fossimo in qualche modo testimoni di nozze l’uno dell’altro». Quanto a quest’intesa forse inspiegabile, è Daniele Silvestri a provarci, a trovare in fondo una possibile formula definitiva: «Obiettivamente è un fatto di alchimia che è anche roba di culo. Per essere scientifici».