Nell’ambito del racconto sportivo, in Italia, c’è un prima Buffa e un dopo Buffa. E dire che tutto nacque per caso, per riempire gli intervalli delle partite di basket che lo vedevano raccontare l’NBA insieme a Flavio Tranquillo, coppia leggendaria e rimpianta dagli appassionati (ma chi ha potuto se li è goduti nuovamente insieme all’Arena di Verona, nel Festival della Bellezza, in The Last Air Dance, a parlare di Michael Jordan). Federico Buffa sa cos’è l’epica, sa cos’è la narrazione, sa cos’è la musica (basta sentire la colonna sonora dei suoi speciali) e con quella voce inconfondibile trova sempre la nota giusta da suonare per ogni campione che porta in scena con sé. Ha la capacità di fartelo sentire, toccare, vivere. Non ti servirebbe neanche vederlo e lo dimostra nel suo ultimo capolavoro, una miniserie di tre puntata dedicate al re del Brasile: parliamo di #SkyBuffaRacconta Pelé – O REI. Il primo episodio va in onda martedì 15 dicembre, alle 23 su Sky Sport Uno (anche su Sky Arte mercoledì 16 alle 17) ed è Dico, il giovane Pelé, seguiranno poi le altre due puntate, da martedì 22 dicembre alle 22.45 su Sky Sport Uno Il “Santastico” (su Sky Arte il 23 dicembre alle 17), e da sabato 2 gennaio alle 23 su Sky Sport Uno Il Re che ci ha lasciato il futuro (su Sky Arte il 3 gennaio alle 17). Anche on demand su Sky Q alla sezione #SkyBuffaRacconta, oltre che su Now Tv.
Un altro tassello dopo gli speciali su Riva e Scirea. Un viaggio dentro un campione irripetibile, ma anche in una squadra piena di protagonisti, per raccontare chi ha portato il calcio nel futuro. Un’impresa titanica tale poteva portarla a termine con successo, in tempi di Covid poi, solo il migliore di tutti, O Rei dello storytelling sportivo. E non solo, perché con Buffa il calcio non è mai solo sport.
Federico, come va?
Bene. Oddio, come si può stare bene in un anno così. Confesso che non credo, anzi sopporto poco chi demonizza un anno per chi si è portato via e per gli eventi che in esso sono avvenuti, ma negli ultimi giorni se ne sono andati via Maradona, Rossi e ora Kim Ki-duk. Un regista pazzesco, una perdita enorme. Che dolore.
Lo speciale inizia con la foto dell’amichevole del 1979 di Pablito e del Pibe. E con un elenco di nomi propri a cui tributi un saluto commosso.
Sì, i miei migliori amici sono morti pochi mesi fa. E anche il regista Leopoldo Muti e la curatrice, Sara Cometti, l’altra parte di #SkyBuffaRacconta (sono loro, con Massimo Tralci e Luca Longo a realizzare il programma, nda), come tanti quest’anno, hanno perso persone care. Abbiamo voluto dedicare a tutti loro un piccolo spazio. E poi la foto era dovuta. Sono stati due personaggi decisivi della nostra vita, del nostro immaginario, degli anni ’80. E che rabbia vedere ancora quanto molti non si rendano conto della loro grandezza, quanti contestino il lutto collettivo perché sono “solo” degli sportivi. Nel 2020 è ancora difficile riconoscere a un calciatore l’arte. Al ballerino che è un poeta che usa gli arti con grazia ed eleganza, ma senza pallone, invece sì. Una discriminazione senza senso nel mondo contemporaneo. L’intelligenza è anche quella sinestetica, ma siamo ancora vittime di vecchi schemi culturali nei nostri giudizi.
Si è sempre contrapposto Pelé a Maradona anche socialmente. Uno considerato borghese e l’altro proletario, forse perché dopo il ritiro il primo ha sposato il potere e il secondo lo ha combattuto. Eppure le loro storie fino ai 17 anni, se Menotti avesse convocato Diego al mondiale del 1978, sono identiche, dalla povertà a queste mamme fondamentali per entrambi.
Verissimo, forse per questo hanno avuto rapporti così burrascosi, grandi dichiarazioni d’amore ma anche polemiche laceranti. La differenza la fecero gli allenatori. Pelé si infortuna prima di partire per l’Europa, falciato da un giocatore del Corinthians, in un’amichevole organizzata per far ricredere il ct: per chiamare Pelé, infatti, il Gordo aveva fatto fuori la star di quella squadra, Luizinho. Vicente Feola nonostante la brutta botta porta comunque in Svezia quel 17enne, lo aspetta, in tutto lo staff tecnico la sensazione che in lui vi fosse qualcosa eccezionale c’era. Avrebbero vinto comunque quel mondiale i verdeoro, ma avevano la storia tra le mani, era quel ragazzino che in quattro anni da lustrascarpe sarebbe diventato re del calcio. Diego fu più sfortunato: El Flaco Menotti vinse con l’Huracan nel 1973 lo scudetto, l’unico di quella squadra. Un titolo più leggendario del tricolore del Verona da noi, come se qui lo vincesse la Samp di adesso. Il loco Houseman – che segnò contro il Perù – era uno dei suoi uomini, di quegli uomini che fecero l’impresa cinque anni prima, e César nel 1978 vuole regalargli il titolo di campione del mondo, è lui che tiene a casa Diego. Ma Maradona meritava quella convocazione: un anno dopo si giocò un’amichevole Argentina-Resto del Mondo in cui lo marcò Tardelli, perché l’argentino veniva considerato un centrocampista. Un campione come Marco non la vide mai e quello ci salvò: Bearzot ricordando quella partita di tre anni prima, in Spagna gli francobollò addosso Gentile.
Perché Pelé? Non ti faceva paura una storia così grande e complessa?
Intanto perché il direttore di Sky Sport Federico Ferri è innamorato dei numeri tondi e andavano celebrati questi 80 anni. Ho subito pensato che fosse molto difficile farlo (ci sono volute tre puntate, nda), parliamo di uno che come Muhammad Ali non ha mostrato il passaporto fin da giovanissimo, tanto era conosciuto. Se racconti Riva e Scirea, un riferimento anche familiare ce l’hai se vivi in Italia, uno zio o un nonno te ne hanno parlato, ti hanno comunicato la loro grandezza. Ma Pelé era dall’altra parte dell’oceano, in tempi in cui il calcio si vedeva pochissimo e si raccontava molto. Solo un terzo delle cose che ha fatto sono visibili e gran parte di esse pure male, dal 1958 al 1970 solo in bianco e nero.
Da quando hai cominciato a raccontare lo sport, sembri avere più consapevolezza, soprattutto sotto il punto di vista della messa in scena teatrale.
In questo caso eravamo a teatro, era inevitabile. E ho voluto, d’accordo con tutti, che vi fosse quella grammatica emotiva e narrativa. Anche perché non c’erano immagini di ambiente: il Covid ci ha impedito di andare nei luoghi rappresentativi della storia di Pelé, come abbiamo fatto per altri campioni (da brividi la visita alla tomba di George Best, nda). E poi da quando raccontai Maradona 10 anni fa il teatro ho cominciato a farlo e mi aiuta tantissimo, ha cambiato la mia grammatica di racconto personale, dal respiro al cercare le parole, ho più padronanza di quello che dico, prima mi affidavo spesso all’improvvisazione, almeno tecnicamente.
Lo speciale su Pelé è anche il pretesto per raccontare un Brasile epico. Le pagine che dedica a Nilton Santos, a Didì, a Garrincha sono meravigliose.
Per fare un raffronto inevitabile, nessun compagno di squadra di Maradona è affascinante quanto quelli di Pelé. Forse solo Valdano. Lì invece c’erano Garrincha, Didì, Vava, Rivelino (protagonisti di When the world watched – Brazil 1970, documentario Fifa che Sky manderà in onda alla vigilia di Natale). Diego aveva il triplo della personalità di tutti i suoi compagni, anzi di tutti i suoi contemporanei, Pelé è sempre rimasto chiuso e timido. Pelé non è mai stato capitano, neanche un minuto in carriera, Maradona sempre, di tutte le sue squadre. Altafini, che lo tenne a battesimo come compagno di reparto in Svezia, lo dice spesso: è difficile capire Edson, era uno con una faccia da 13enne, ma quando non faceva l’artista in campo, quando non osava un sombrero in piena area in finale di Coppa del Mondo impietrendo uno come Gustavsson, nella vita era timidissimo, un ragazzino. Edson è uno, Pelè è un altro, fondo il mio racconto su questa dicotomia. Sentirete in una delle tre puntate un aneddoto sulla salvietta con cui si faceva massaggiare, me lo racconto José: se la metteva 4 minuti sulla faccia, a coprirla interamente, e rimaneva immobile. Poi se la toglieva, senza dire nulla. A quel punto diventava un altro e tutti i compagni se ne accorgevano. Un doppelganger. Edson e Pelè, appunto.
Anche Signorini diceva che c’era Diego e c’era Maradona. Tu hai risolto l’annosa questione su chi sia più forte tra i due?
Alla terza puntata, finita la parte americana, faccio una valutazione complessiva del calciatore. Prima di Pelé mai nessuno aveva giocato così, i fratelli raccontavano che parlasse di calcio anche nel sonno, Lionel Messi e Cristiano Ronaldo segnano i suoi stessi gol 60 anni dopo. I numeri sono impietosamente dalla parte di Pelé, ma Maradona è eccezionalmente inarrivabile per la leadership, si è sempre preso tutte le responsabilità individuali e di squadra non facendo mai pesare il suo talento a un compagno, non facendolo mai sentire inadeguato. È unico, perché ha creato un calcio tutto suo, irripetibile: se uno vede il calcio come arte, come autorialità unica e non imitabile, come nel cinema, allora il migliore è lui. Pelé ha inventato il calcio moderno, Maradona ha inventato qualcosa che prima non c’era e mai più ci sarà. Nessuno è mai somigliato e mai somiglierà a Diego, un Pelé potrebbe ritornare. Lui no. E poi il Pibe è più vicino a Garrincha, anche nell’animo. Quest’ultimo si oppose alla dittatura, spezzarono il collo a un suo canarino e picchiarono la moglie. Pelé invece faceva finta di niente. Non gli interessava nulla, nemmeno della sua razza, ha sempre avuto donne bianche. Ha sempre pensato a essere il migliore e a far soldi. Dal 1959 al 1974, il Santos gli fece un contratto sontuoso per cui però gli facevano fare due tournée all’anno (40 partite in più a stagione). Gli è stato asportato un rene per un colpo preso a suo tempo. Lui accettò, rinunciando anche a sperimentarsi in Europa. Nel caso di Pelé gli fai un favore a dividere uomo e campione, il problema di Diego e che invece i due erano inscindibili.
Ti racconto una cosa, per capirci meglio: quando Pelé entra in confidenza con qualcuno, tira fuori la sua carta di credito, una Visa Mastercard, dove c’è raffigurato lui, mentre fa una rovesciata. Sopra c’è scritto solo Pelé. Ma se la usa non può firmare come tale, deve firmare Edson. E allora lui dice sempre: «Tutti i miei errori li ha fatti Edson, tutta la luce se l’è presa Pelé». Magari avesse potuto farlo anche Diego. Per lui, non per noi: non sarebbe stato lo stesso.
Tanta ottima musica in queste tre puntate. Non solo brasiliana.
Quella brasiliana è tutta farina del sacco di Max De Tomassi detto Massi, che su Radio 1 conduce Stereonotte, un programma di musica brasiliana che va sabato e domenica da mezzanotte e mezza. E mi ha anche aiutato molto con alcune sue interpretazioni. La musica questa volta è stata ancora più importante che in altri miei lavori passati, Il Covid non ci ha permesso di andare in giro ed è diventata elemento fondante e fondamentale in questo viaggio da fermo. Penso ai Beatles con Free As A Bird e Michelle: la giunta militare impedì a Pelé, in Inghilterra, di vedere Lennon, considerato un pericoloso sovversivo. Un incontro a cui teneva molto. Si ritroveranno anni dopo, quando andò a giocare nei Cosmos. I due frequentano la stessa scuola di lingua: lui va lì perché vuole imparare l’inglese, Lennon perché Yoko Ono vuole che lui conosca il giapponese. Si fanno grandi conversazioni. E poi i Beatles e Pelé hanno avuto la stessa traiettoria, con Muhammad Ali in quegli anni sono i veri padroni del mondo. I Led Zeppelin con Stairway to Heaven, invece, sono un regalo della produzione a me, per me quella è semplicemente La Canzone.
Questo maledetto 2020 è iniziato portandosi via Kobe Bryant. Immagino il tuo dolore. Sai che tutti aspettiamo di vederlo raccontato da te?
Kobe? No. Non è nelle mie prerogative, ma in quelle della redazione basket. Io non ho detto nulla su quella morte da allora, ho pensato solo che ha avuto sei-sette secondi per capire che stava morendo e come. E aveva accanto la figlia, terribile. Non riesco a smettere di pensare a quello. Mi piacerebbe molto portarlo a teatro, anche se lì non hai immagini, come fai a raccontarlo senza mostrare cos’era capace di fare? Però sì, vorrei fare qualcosa, non una cosa spettacolare, qualcosa di insolito. Kobe è uno degli atleti più significativi del mondo moderno. Uno che si è messo in testa di vincere un Oscar e lo ha fatto, uno che sarebbe potuto diventare il primo presidente degli Stati Uniti che veniva dallo sport. Lui aveva la testa e l’attitudine per riuscirci. Era un cittadino del mondo.
Tu sei come la Settimana Enigmistica. Tutti gli artisti sognano di avere la loro foto in copertina del famoso settimanale. Li ci sono solo nome, cognome e foto: vuol dire che tutti sanno chi sei e cosa fai. E ora tutti gli sportivi sognano di farsi raccontare da Buffa. Ma tu Federico, chi sogni di raccontare? Hai voglia di andare oltre i confini sportivi?
Mi sta venendo voglia di cambiare, lo ammetto. Aver accettato la sfida del teatro è quello, voler andare oltre. Per il 2021 stiamo lavorando per portare sul palco l’incontro tra De André e Riva nel 1969 a Genova. Gigi adorava Fabrizio, del rapporto con la Sardegna di quest’ultimo sappiamo tutti. Volle incontrarlo. Amici comuni organizzarono. Ma sappiamo del carattere di entrambi. Non spiccicarono parola per tre ore poi al quinto whisky Faber iniziò a parlare di Bresson. Finirono per parlare di tutto, dall’esistenzialismo a se stessi. Finché De André non tirò fuori la chitarra e Rombo di tuono la maglia. Si promisero di rivedersi, non successe più. Qui il calcio è solo un pretesto.