Ferzan Özpetek: intervista per ‘Diamanti’ | Rolling Stone Italia
Magnifiche presenze

Ferzan Özpetek, l’amore vero

Quello per il cinema. E per le sue attrici. C’è tutto questo in ‘Diamanti’, il suo ultimo film che è una lettera d’amore alle maestranze (tutto ruota attorno a una sartoria), alle donne, ai sogni di celluloide. E in cui si intrecciano la vita e la morte, ma sempre sorridendo. Abbiamo parlato con lui di passato, presente, ricordi, passioni, Mina e «il mio compagno di viaggio». Di aver deciso di autodirigersi per la prima volta e del tempo che passa. E di festival e di premi, di cui «non me ne frega niente: il mio Oscar è condividere le emozioni con il pubblico»

Ferzan Özpetek con Luisa Ranieri e Jasmine Trinca sul set di ‘Diamanti’. Foto: Stefania Casellato

Ci inseguiamo per un po’ per parlarci e alla fine mi chiama lui: «Scusa ma c’ho tutto un gruppo di amici turchi che sono venuti a trovarmi, facciamo ora l’intervista se no poi ci mettiamo a brindare e non ne esco più». Sono le undici di un venerdì mattina di dicembre, mancano pochi giorni all’uscita del suo ultimo film, Diamanti (dal 19 dicembre nelle sale con Vision Distribution), e io penso che si dovrebbe vivere come a casa di Ferzan Özpetek. Finora abbiamo visto come si vive dentro i suoi film, in questo ancora di più, perché la vita e il cinema si confondono, si smarginano direbbe qualcuno.

La cornice è Özpetek che chiama a rapporto le sue attrici e dice: questa è la storia. Anni ’70 a Roma. Una sartoria di costumi per il cinema. Due sorelle (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca) a gestirla. Attorno donne, donne, donne. Sono quasi tutte sarte e sono anche madri, figlie, mogli felici o abusate, ragazze, nonne. Avrete visto le immagini di queste diciotto attrici tutte insieme, l’ultima in versione donne sotto le stelle a Piazza di Spagna per il lancio del film. Il resto lo vedrete al cinema. Direbbe qualcuno: è Özpetek in purezza. Chiediamolo a lui che cos’è.

Intanto, cosa è vero e cosa no?
Quest’idea della vita e della finzione che si confondono è la cosa più bella, secondo me. Ed è vera. Io racconto un mondo che conosco, che ho vissuto da assistente alla regia. Stavo lì, in quelle sartorie, e in certi momenti volevo essere invisibile perché mi vergognavo, però ero felicissimo di essere presente, di sentire quella gente discutere, parlarci insieme…

Spiega chi era “quella gente” a chi non lo sa.
Da Tirelli (una delle più grandi sartorie di costumi per il cinema, nda) quando arrivava una diva o un divo mi sentivo male, volevo nascondermi perché ero un ragazzo che non aveva fatto niente. Anche oggi mi capita però, non è che è cambiato molto (ride). La cosa più bella è stata l’amicizia, negli anni, con Piero Tosi, che è stato fondamentale per l’inizio della mia carriera nel cinema. Quando ho cominciato a fare cinema leggeva tutte le mie sceneggiature, che è la stessa identica cosa che fa oggi Mina (che gli ha dato per il film una delle sue ultime canzoni, L’amore vero, nda). Mina è anche la prima lettrice dei miei libri, qualche volta li legge pure prima della Mondadori. È una persona di cui mi fido ciecamente.

Ferzan Özpetek dirige sul set Luisa Ranieri e Jasmine Trinca. Foto: Stefania Casellato

La sartoria, le donne.
Dopo Tirelli, anche negli anni da aiuto regista stavo sempre in mezzo alle sarte. Poi quando diventi regista in sartoria ci vai poco, hai un altro tipo di atteggiamento, più distaccato. Arrivi, vedi i vestiti e te ne vai, perché devi pensare a un sacco di altre cose. Però, da un punto di vista di temi, il mio mondo in questi ultimi si è spostato in modo strano verso le donne.

Che però sono alla base della tua vita.
Sono cresciuto in un ambiente molto femminile, ho avuto un’infanzia con tutte queste zie… Qualche maschione amico di mio padre gli diceva: “Questo ragazzo l’hai rovinato, lasciandolo crescere in mezzo a tutte queste donne”, ed era un modo per sottintendere che ero mezzo frocio (ride). Ma è come se del femminile mi fossi reso conto solo adesso. Sai, delle cose belle e importanti della vita te ne accorgi dopo, non nel momento in cui le vivi. Io almeno faccio spesso così. Per esempio, quando faccio un viaggio anche di piacere, che ne so vado in Nuova Zelanda, io vivo tutto con grande ansia, finché non torno a Roma e chiudo la porta di casa e allora dico: “È stato bellissimo”. E lì inizio a godermi il viaggio nella mia testa.

Da sinistra: Paola Minaccioni, Anna Ferzetti, Geppi Cucciari, Milena Mancini, Lunetta Savino e Sara Bosi. Foto: Stefania Casellato

Dicevi che quando si diventa registi si ha un atteggiamento più distaccato. Però hai messo la tua faccia in Diamanti, che forse tra i tuoi film è quello che celebra di più il tuo amore per il cinema inteso come famiglia.
È così, ma mi sono vergognato tantissimo. Durante le riprese non mi rendevo conto, c’avevo quella confusione tra realtà e finzione e quindi sì, avevo di fronte la macchina da presa che mi stava riprendendo, ma inconsciamente pensavo: “Non è che lo sta facendo davvero”. Ma quelle scene dovevano andare nel film per forza, facevano parte della storia. Con Mina ho parlato a lungo di questo. All’inizio avevo scelto Stefano Accorsi per fare il regista anche nelle parti, diciamo così, reali. Ma lei mi ha detto: “Com’è possibile che sia lui il regista quando in quelle scene metti Luisa Ranieri a fare Luisa Ranieri, e Jasmine Trinca che è Jasmine Trinca… non funziona, stona”. E io dicevo: “Hai ragione, ma mi vergogno”. E lei: “Ma che ti frega!”. E allora ho deciso di esserci io, ma facendomi vedere il meno possibile, tranne che alla fine perché lì era obbligatorio. Per il resto ho tagliato moltissimo, anche qualche scena che era molto divertente. La mia difficoltà è stata che non mi piaccio fisicamente, mettermi in mostra per me è molto difficile. Se ero un gran figone magari mi sarei fatto vedere molto di più, chi lo sa.

Questa cornice “reale” c’era quindi già in scrittura.
Sì, sì. Il film è nato con l’idea di raccontare la cosa che faccio sempre quando ho un progetto in testa: chiamo gli attori, gli racconto la storia, e poi vado avanti con la sceneggiatura. Tanti miei film partono dagli attori, nel senso che ho una traccia, ma poi scrivo secondo l’incontro con loro.

Vanessa Scalera e Kasia Smutniak. Foto: Stefania Casellato

Gli attori – e le attrici in particolare – dicono che come li osservi tu non lo fa nessun altro regista. Qual è il metodo Özpetek, se c’è un metodo?
In questo caso, prima ho chiamato le attrici con cui avevo lavorato, poi a mano a mano che erano occupate le ho sostituite. E sono strafelice di aver avuto Vanessa Scalera, Milena Mancini… Geppi [Cucciari] invece è stata una coincidenza stranissima. Vado a Milano al suo programma [Splendida cornice] e lei mi dice: “Vorrei fare una cosa con te”. Io le rispondo: “Sì, magari più avanti”. Poi mi invita a Napoli alla prima del suo spettacolo (Perfetta, l’ultimo monologo di Mattia Torre, nda), e siccome ogni occasione è buona per andare a Napoli vado a vederlo e mi colpisce tantissimo. Andiamo a cena e penso: “Che peccato, se mi saltasse qualche ruolo la prenderei”. E un ruolo mi salta. Una mia attrice aveva appena preso questo agente nuovo che voleva fare bella figura con lei, e che mi dice che non avrebbero accettato il film senza prima leggere il copione. Al che io gli dico: “Meglio se sta a casa, la tua attrice”, e chiamo Geppi. L’attrice precedente mi richiama e mi fa: “Ferzan, guarda, questo è scemo…”, ma io ormai avevo dato il ruolo a Geppi. È stata un’incomprensione e mi è dispiaciuto, ma il destino ha deciso che doveva andare così.

È già questo un film di Özpetek. E solo in un film di Özpetek può tornare a recitare Mara Venier.
Mara è un’amica, e quando vai da lei la mattina sembra sua nonna, poi la sera diventa un’altra persona, così ho pensato: “Giochiamo su questo anche nel film”. Invece per il personaggio di Elena [Sofia Ricci] mi sono ispirato a un’attrice di teatro che doveva fare Cuore sacro… com’è che si chiama… quella di Jesi… aspetta che chiedo a Simone (urla verso il suo compagno, che risponde: “Valeria Moriconi”, nda). Ecco, Valeria Moriconi. Vado a casa sua e lei mi riceve in quest’atmosfera bellissima: secondo Anna Proclemer era un appartamento affittato per ammaliarmi (ride). Al collo aveva un collare ortopedico, come Elena in Diamanti. Mi dice: “Voglio assolutamente fare questo film”, ma dopo un mese mi richiama per dirmi che non lo può più fare, una sua amica sta male e lei vuole starle vicino. Passa un altro mese ancora e scopro che è morta: era lei quella che stava male.

Mara Venier con Jasmine Trinca. Foto: Stefania Casellato

Diamanti è un film in cui, oltre a realtà e finzione, si mischiano anche la vita e la morte.
È una cosa che nel film resta lì, quasi sospesa, fino alla fine. Io vivo la mia vita costantemente tra i morti e i vivi, mi muovo secondo i ricordi, le persone che non ci sono più… è tutto un miscuglio.

Le tue magnifiche presenze.
Esatto. Come le tre attrici a cui ho dedicato il film.

La prima: Mariangela Melato.
Mi ha chiamato quando ho fatto Il bagno turco per parlarmi. Sono andato da lei a via dei Coronari, ci siamo presi un caffè, e lei mi ha detto: “Voglio fare un film con te”. Ci abbiamo provato per tre film, ma ogni volta succedeva qualcosa, ci ripensavo… Al quarto tentativo, che era Magnifica presenza, l’ho chiamata per il ruolo che poi ha fatto Margherita Buy, e lei mi ha detto: “Grazie Ferzan, ma ormai è troppo tardi. Ormai sono arrivata”.

Virna Lisi.
Anche con lei la stessa cosa. Mi chiamò dopo Le fate ignoranti: “In Italia sei l’unico regista che dirige gli attori come Patrice Chéreau” (Lisi ci aveva lavorato nella Regina Margot, per cui vinse la Palma d’oro come miglior attrice a Cannes, nda). Da lì è nato un bellissimo rapporto. Anni dopo la chiamo per fare la nonna di Mine vaganti, poi però incontro Ilaria Occhini e, essendo un disgraziato, le dico che è perfetta per il ruolo e scelgo lei. Virna secondo me se n’è dispiaciuta, anche se non mi ha mai detto niente. Tempo dopo ci rincontriamo e lei mi dice: “Il tuo prossimo film me lo fai fare, se no ti ammazzo”. E invece poi all’improvviso ha avuto quella cosa brutale che l’ha portata via.

Monica Vitti.
Quando vinsi il Globo d’oro con Il bagno turco stavo a Cinecittà a ritirare il premio e lei usciva da una proiezione del film. Ci presentano e lei mi dice: “Ha fatto un film bellissimo”. Mi guarda in silenzio per un po’ e poi aggiunge: “Lei sa che farà dei film bellissimi ancora, vero? Tanti altri”. Io la ringrazio e lei se ne va. Quando sono andato a ritirare il Globo non me ne fregava un cazzo del premio, il mio unico pensiero era lei.

Ferzan Özpetek con Elena Sofia Ricci. Foto: Stefania Casellato

Tu dialoghi con queste presenze del passato, ma c’è chi da anni, realmente o idealmente, ha aperto un dialogo con te: per alcuni sei un maestro.
Ma no, non lo sono… sono una bidella (ride)

Una bidella che però, zitta zitta, è diventata la direttrice della scuola.
(Ride di gusto) Ha fatto carriera! Io penso che non siamo nessuno, alla fine. Per esempio, prendi il fatto dei festival. Mi rimproverano sempre: “Perché non aspetti a fare uscire il film e non tenti di andare a un festival? Non ti piacerebbe partecipare? Magari vinci un premio…”. E te lo giuro (scandisce le parole): non. me. ne. frega. niente. Perché il premio più bello che uno può avere arriva dallo spettatore. E non sto parlando di incassi, non me ne frega niente neanche di quelli. È la condivisione. Se io oggi vedo trenta volte Il segno di Venere, per me è come se avesse vinto la Palma d’oro. Se vedo dieci volte Io la conoscevo bene, vale più di un premio. È questo il rapporto più importante, quello tra lo spettatore e il film. Per La dea fortuna mi dicevano: “Aspettiamo Berlino”, e a me non me ne fregava un cazzo: andiamo a Berlino pe’ fa’ che? È uscito a Natale – e non era un film di Natale – e ha fatto il botto. Ma anche qui, non intendo il botto di soldi, anche se ha incassato tantissimo. Quando andavo a parlare col pubblico in sala vedevo delle famiglie che portavano i loro figli, e gli dicevo: “Scusate, ma avete portato un bambino a vedere un film del genere?”, la storia di due uomini con due figli… E loro rispondevano: “L’abbiamo visto e siamo tornati proprio per farlo vedere a loro”.

Quello che dici mi porta a due cose. La prima: il tuo essere, anche nel tuo cinema, sempre popolare, nel senso che per te il cinema è un’arte fatta per incontrare il pubblico.
Sì. È come in Magnifica presenza: i personaggi del film sono rimasti fantasmi perché nessuno ha visto il loro spettacolo, poi trovano un ragazzo [Elio Germano] che lo vede e allora se ne vanno da un’altra parte. L’arte va condivisa, se non è condivisa non è più niente. C’è una differenza molto sottile tra l’essere commerciale e l’essere condiviso. È come quando prepari un piatto di pasta, e vengono delle persone a mangiare, e c’è quella bella sensazione di condivisione. Quando fai un bel film e dai al pubblico quella sensazione, ecco: quella è la condivisone. Io mi stupisco sempre. Se io e te adesso usciamo e andiamo a Campo de’ Fiori, mi fermerebbero almeno dieci persone per fare la foto, per abbracciarmi, alcuni si mettono a piangere, mi raccontano le loro cose… hanno un rapporto viscerale con me. Succede perché io da anni mi metto nudo nelle loro mani, con tutti i miei sentimenti. E questo per me è come vincere l’Oscar.

Stefano Accorsi con, alle sue spalle, Paola Minaccioni, Luisa Ranieri e Jasmine Trinca. Foto: Stefania Casellato

L’altra cosa, che mi è venuta in mente quando raccontavi delle famiglie che portano i figli anche piccoli a vedere i tuoi film, è: pensi di aver cambiato, col tuo cinema, lo sguardo degli italiani su certe cose? Di essere stato a tuo modo – permettimi la parola – politico?
Sì, lo riconosco, ma l’ho fatto in modo del tutto incosciente. Un critico americano mi ha fatto un’intervista per La dea fortuna e mi ha detto: “Özpetek, lei è stato il primo a fare le cose. Il bagno turco in quel periodo era scandaloso per gli americani. Le fate ignoranti idem, tant’è che è rimasto quasi invisibile negli Stati Uniti. Oggi in tutti i film vediamo uomini che si baciano. Lei è stato troppo in anticipo, ma essendo troppo in anticipo ha toccato tante corde nelle persone”. Ma io non ho mai girato un film pensando di provocare qualcosa. Non ho pensato: faccio Le fate ignorante così il mio avvocato dirà a sua madre: “Mamma, sono gay!”, e la mamma lo abbraccerà dicendo: “Meno male, sono contenta!”. Ho cambiato lo sguardo di tante persone, forse sì, ma senza volerlo fare direttamente. Anzi, ora mi dispiace tantissimo quando i gay di oggi a volte mi criticano perché pensano che le storie nei miei film sono troppo facili, e non sanno le tante difficoltà che ho avuto, manco se ne accorgono che alla base di tutto c’è quello. Vabbè, lasciamo stare…

Chi è Ferzan oggi?
Un uomo anziano (ride), anche se dimostro meno anni: quella è una cosa che ho ereditato da mia madre. Uno che pensa di avere poco tempo davanti per realizzare tante cose che vorrebbe raccontare. C’ho tre progetti ancora in testa e mi piacerebbe poter girare almeno quelli. Sono molto fortunato nella vita privata. Ho una persona vicino, un compagno di viaggio, e come dice la grande Raffaella Carrà “dopo tanti anni si spegne il fuoco del sesso ma arriva la tenerezza, e quello è il vero amore”. Ed è così. Poi io sono uno che vive di passioni, c’ho in continuazione dei corteggiamenti, con uomini, con donne, devo sempre sentire l’emozione nell’aria, poi non concludo mai niente. Ma non c’entra il sesso: è il messaggino scritto un po’ ambiguo, il cuoricino… Simone, di fronte a una cosa del genere, si sentirebbe male: “Nella vita non si fa così”. Io dico: “Invece sì, si vive di questo”. Come mia madre. Quando è morto il suo primo marito, che era un bonazzo molto ricco, lei mi ha detto: “Se n’è andato l’uomo che ho amato per tutta la vita”, anche se aveva chiesto lei il divorzio. E io le ho detto: “E allora mio padre?”. E lei: “Ferzan, ma tu che fai il regista non riesci a capire che si possono amare due persone contemporaneamente?”. Ho pensato: “Ma guarda te mia madre”. E però è verissimo… ma come sono arrivato a tutto questo?

Parlavi del tempo che resta.
Ah, ecco. Quando leggo che Almodóvar ha 75 anni, o vedo Bellocchio che ha più di ottant’anni e fa dei film bellissimi, o Clint Eastwood… io li guardo e penso: oddio, ma allora un po’ di tempo ancora ce l’ho.

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