Scusi, Francesco Melzi d’Eril: che cosa ci trova in Chiara Ferragni?
«È l’unica vera diva italiana».
Se la domanda fosse posta al classico produttore e avesse a oggetto la classica star del suo ultimo film, la risposta non avrebbe nulla di particolare: trattasi di promozione. Ma non incontriamo Melzi solo in quanto deus ex machina di Unposted, il documentario presentato alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia sulla vita dell’influencer italiana più nota, documentario che è stato visto da 170 mila persone in tre giorni, totalizzando oltre 1 milione e seicento mila euro al box office.
No. Francesco Melzi d’Eril rappresenta anche un’umanità antitetica al sistema Ferragni. Lei è una ragazza di provincia, viene da Cremona. L’altro discende da una delle famiglie più antiche della Lombardia che le province le possedeva: sei secoli di blasone alle spalle, feudi a macchia di leopardo tra Magenta e Bellagio, sul Lago di Como. L’una ha un profilo Instagram da oltre 17 milioni di follower conquistati a botte di selfie con sfoggio di loghi luxury e stories al grido di «Hi guys». L’altro il social delle foto lo frequenta, sì, ma il suo account è privato, di seguaci ne conta 1.300 – «li conosco tutti» – e l’unica concessione all’estro che indossa, sedendosi in uno storico caffè milanese, è una pochette con motivo cachemire che spunta appena dal taschino della giacca. Nessun marchio in vista. Melzi è un uomo di cinquant’anni, occhi verdi scrutanti, che discorre con tono modulato. Guarderà il cellulare forse un paio di volte in cinquanta minuti. No, con Chiara Ferragni sembra non aver davvero nulla a che fare. Eppure ha prodotto il suo documentario. E certo, con The Blonde Salad si fanno soldi facili, si penserà. Ma attenzione.
Che Melzi si intenda di cinema è innegabile. E non lo si deduce solo dai risultati di Unposted. Basta leggere il suo curriculum. Ha avuto a che fare, ma è un assaggio, con Lars Von Trier per Nymphomaniac (che ha distribuito) e Luca Guadagnino, suo caro amico, per Io sono l’amore, Chiamami col tuo nome e Suspiria (che ha coprodotto). È un consumatore di cinema da sempre. «Quando davo un esame all’università, facoltà di Legge, passavo le 48 ore seguenti entrando e uscendo dalle sale del centro di Milano, vedendo anche quattro o cinque film al giorno».
Melzi, scusi, torniamo alla questione della diva.
Basta osservare la reazione della gente di fronte a ciò che succede nella vita di Chiara: c’è un’attenzione partecipe, empatica, quasi morbosa verso di lei. Nel mondo del cinema italiano, oggi, nessuno provoca queste emozioni. Non Miriam Leone, che è una mia cara amica e che adoro, non la Golino, non Matilde Gioli. Attenzione: la parola diva non ha a che fare con le doti di recitazione, ma con la forza evocativa. Poi certo, ci si può domandare perché sia accaduto questo. Viviamo in un periodo storico in cui la grandezza è diventata relativa. Guardi la moda: le capsule collection hanno soppiantato i grandi stilisti.
Quindi Ferragni è l’unica diva possibile un mondo sempre più modesto?
La qualità non è morta per colpa di Chiara. Anzi, lei ha riempito un vuoto: è riuscita a creare un universo basato sulla condivisione della propria esistenza, che tra l’altro ha molta attrattiva sui ragazzi. Le faccio un esempio: mia figlia Anna ha 12 anni. Non la sento parlare di attori, attrici, cantanti. L’unico personaggio pubblico di cui si interessa è Chiara. E così le sue amiche.
Quando ha sentito per la prima volta il nome Ferragni?
Circa sei anni fa, dal mio amico Lapo Elkann. Mi parlava di questa ragazza che aveva sbancato sui social. Poi l’ho vista dietro le quinte, da Fazio, tempo dopo. Io ero lì per accompagnare Luca Marinelli. Infine ci siamo conosciuti 15 mesi fa per fare questo documentario.
Venezia, per lei.
Da quando ho 18 anni non mi sono mai perso una Mostra. Prima ci andavo da spettatore, pagando il biglietto. Ricordo le stagioni di Altman, di Kieślowski. Dopo la laurea sono stato a Los Angeles, ho fatto un’esperienza in una società di produzione, Synergy, che faceva film come Evita. Lì ho capito per la prima volta che il cinema, da passione, poteva diventare un lavoro. Poi sono arrivati Roberto Cicutto e Luigi Musini, fondatori di Mikado: mi hanno insegnato il mestiere di distributore prima, di produttore poi.
E quest’anno, a Venezia, ha portato Chiara.
Una fuoriclasse. Si è raccontata senza finzioni. È una ragazza di provincia che voleva lavorare nella moda. Ha studiato e ce l’ha fatta. È precisa, dedita a quello che fa, seria. E questo è un valore. Ha successo, è innegabile, perché è bella e ha occhi magnetici. Ma è un panzer. E posso dirlo? È simpatica.
Sa qual è la critica rivolta a Ferragni da una certa intellighenzia: ha fatto i soldi mostrando il lusso su social. Lei cosa c’entra con questo mondo?
È vero, il mio background sociale e culturale è opposto. Sono stato educato con una regola base: non si parla di soldi a tavola, i soldi sono argomento di conversazione volgare in generale e non si ostenta ciò che si ha. E se penso alle scelte che ho fatto nella mia vita non sono mai state guidate dal desiderio di far denaro, caso mai da quello di diffondere idee. Forse è stato anche un difetto, che sto cercando di correggere. Insomma, i soldi non mi impressionano.
C’è un “ma” in sospeso…
Ma il futuro bisogna crearselo. Lei fa riferimento alle mie origini familiari, di cui sono certamente orgoglioso. Ricordo un’intervista a un aristocratico romano. Diceva che uno si può considerare nobile se ha ancora il palazzo di famiglia. È vero: oggi l’aristocrazia si è molto borghesizzata, ha perso ogni significato con la fine della Guerra. Io sono un uomo di relazioni che ho creato con le mie sole forze, grazie al mio lavoro. Siamo figli di quello che costruiamo. È la lezione, certo dolorosa, che sto cercando di insegnare ai miei figli per essere padroni del proprio domani. Chiara Ferragni in questo è un esempio.
Come ha reagito chi la circonda quando ha parlato del progetto di Unposted?
Non lo nego, alcune persone a me molto vicine – però esterne alla famiglia – sono rimaste attonite. “Ma cosa c’entri tu con Chiara Ferragni?”. Certi si sono ricreduti sul personaggio e sulla persona vedendo il documentario, certi altri non si ricrederanno mai. Ma sono convinto che chi coltiva a priori il rifiuto del mondo virtuale, parlo di Facebook e Instagram dove la Ferragni si è costruita un mestiere, rifiuti la realtà.