Francesco Montanari, il mio grande gioco
I suoi ruoli “seriali” sono cavalieri, più o meno neri, in un mondo di mediocri, grandiosi (anti)eroi che fanno i duri per non mostrare la loro malinconia. Il Libano, Sabella nel ‘Cacciatore’, Savonarola nei ‘Medici’. E ora Corso Manni, procuratore che è stato incastrato e prova a rinascere nella nuova serie Sky. Una storia potente, che racconta il calcio e – soprattutto – il calciomercato come mai prima d’ora
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Con quella faccia un po’ così, Francesco Montanari sa farti innamorare di un bastardo. Con quei lineamenti decisi e gli occhi persi nella malinconia di un antidivo di successo, sa dare profondità a un personaggio, a un ruolo, anche solo stando in scena, davanti alla camera. Uno così, come attore e come uomo, sa essere un duro senza mai perdere la tenerezza. Ecco perché Corso Manni Montanari lo indossa con la stessa bravura e fascino con cui tiene i completi e i gilet che sono la divisa di una serie, Il grande gioco, che racconta il calcio e – soprattutto – il calciomercato come mai prima d’ora (se non in Valzer di Salvatore Maira, film curioso e interessantissimo girato tutto in piano sequenza). Il Libano, Sabella Il cacciatore (che gli è valso la Palma d’oro televisiva a Cannes), Savonarola (nei Medici, terza stagione) e ora Corso Manni: i suoi ruoli “seriali” sono cavalieri, più o meno neri, in un mondo di mediocri, sono grandiosi (anti)eroi che fanno i duri per non mostrare la loro nostalgica, romantica, macerata malinconia. Qui si trova a essere il primo violino di una grande orchestra. Il grande gioco appunto, prodotta da Sky Studios e da Luca Barbareschi per Èliseo Entertainment, diretta da Fabio Resinaro e Nico Marzano, scritta da Tommaso Capolicchio, Giacomo Durzi, Filippo Kalomenidis, Marcello Olivieri e Andrea Cotti, che ci lasciano in eredità con queste otto puntate (ogni venerdì dal 18 novembre in prima serata su Sky e NOW, ma dal 18 novembre stesso il primo episodio sarà eccezionalmente aperto a tutti sul canale YouTube di Sky) una storia potentissima e anche una serie di aforismi sul calcio, sui procuratori, che entreranno nel nostro immaginario. Protagonisti, insieme a Francesco Montanari, sono Elena Radonicich, straordinaria e maledettamente irresistibile nella parte della ex moglie, mente e cuore nero della ING (la società al centro di questa guerra senza quartiere fatta di procure, oligarchi russi, terreni e faide familiari), e il solito mattatore Giancarlo Giannini. L’idea della serie è di Alessandro Roja con la collaborazione di Riccardo Grandi.
Chi è Corso Manni?
Corso Manni è un uomo solo, uno che dice chi è a un certo punto della serie, o almeno cosa vuole: “Voglio riprendermi il mio posto nel mondo”. Uno che vuole fidarsi, che vuole una famiglia anche se, a partire da quella acquisita fino al padre, lo hanno rovinato entrambe. E allora finisce per fare da sodale, padre, fratello maggiore ai suoi calciatori e al suo erede, che ostinatamente lo pedina e che alla fine lui accetta di prendere con sé. Uno che tratta calciatori e amici, se ne ha, con pugno di ferro ma anche con la sua strana e malinconica dolcezza.
Il procuratore in questo momento è il grande villain del mondo del calcio. Ma come mi disse una volta Mino Raiola: “Saremo anche bastardi, ma ce lo fanno fare perché gli fa comodo. E poi noi giochiamo a carte scoperte, loro mai”. Ti dirò che, anche per questo, di tutti i tuoi ruoli Corso è quello che più somiglia al Libano. Uno che si fa carico delle ombre del mondo, ma che dentro ha anche una sua luce.
La spietatezza di Corso deriva dalla modalità d’esecuzione, non da qualcosa che ha dentro. È uno abituato a sopravvivere in qualsiasi situazione ma non è impietoso, persino con quel padre degenere non chiude, lo guarda e gli parla come a dirgli: “Ma non ti rendi conto di quello che mi hai fatto?”. Ha un suo codice etico, anche se fa sorridere definirlo così in una mafia come quella che raccontiamo, e fa l’errore costante di pensare che in fondo lo abbiano anche gli altri. Confesso che è un grave errore che faccio anche io nella vita quindi, al di là del contesto e delle sue azioni, lo vedo più vicino a me di quanto si possa immaginare. E sì, forse per tutti questi motivi potrebbe definirsi un ruolo fratello del Libano.
Un duro. Ma si sa, come dice Ligabue, che “i duri hanno due cuori”.
Gli hanno insegnato che deve accettare compromessi, ma lui in fondo non è disposto, non vuole sottostare a quelle mediazioni mediocri. E anche in questo il leone Giancarlo Giannini – che fa il grande procuratore Dino Di Gregorio, il capostipite di una famiglia, di una società, di un mestiere – sente, trova in lui il grande erede, ma in questo gioco edipico continuo che è Il grande gioco l’amore diventa odio, l’alleanza guerra, il successo caduta.
Difficile percorrere i tuoi personaggi, immagino. Sono complessi, spesso dolorosi. Come fai a scrollarteli di dosso?
Devi sempre capire il contesto e agirci dentro. Non devi giudicarli, sono dei punti di vista su un mondo, fanno ciò che serve per esistervi e resistervi. Le loro azioni sono per certi versi inevitabili e tu devi essere fedele e coerente a quell’universo di persone, valori, azioni per essere credibile, un po’ come si prova a fare nella vita. Di sicuro è il nostro lavoro, devi servire la storia, non il tuo ego o la tua moralità. In questo caso ci troviamo in un grande teatro in cui tutti, privatamente e pubblicamente, si mascherano, in cui tutti sono incredibilmente fragili e complessi e in cui le contingenze ti fanno diventare fallito o vincente. Noi troviamo Corso in un contesto di stress enorme, perché lui ha i soldi e le capacità per reinventarsi, ma ha un talento enorme a cui non vuole rinunciare per colpe altrui. Vuole rimanere nel calcio. Vuole riscatto, anche se lo confonde con la vendetta. Ed è un uomo lacerato dal fatto che il suo lavoro consista anche nella mercificazione degli uomini, che non accetta anche se ne è un ingranaggio. Lo dice al campioncino in erba: “Un procuratore non è uno che ti dà tutto quello che vuoi, ma uno che ti insegna a capire quello che vuoi”. Corso è così affascinante perché non lotta solo contro tutto e tutti, ma anche – e forse soprattutto – contro se stesso.
C’è un momento in cui quest’uomo mette in crisi tutti noi, in cui sospendi il giudizio e finisci per amarlo. Quando è arrivato il tuo?
Quando porta all’Academy il giovane campione La Gioia (Giovanni Crozza Signoris, ottimo nel ruolo, nda), il suo assistente gli dice “Allora lo vedi che sei buono”. E lui risponde con una frase bellissima: “Io non sono buono, ma se per avere la sua firma devo esserlo, allora lo sarò”. La verità però è che lì capisci che lui è buono davvero, e che quella è l’ennesima maschera che indossa. Lì lo intuisci, poi lo sentirai a pieno nella costruzione della storia, nella doppia battaglia che combatte.
Da ex giornalista sportivo e radiocronista, ho riconosciuto nelle varie puntate molte leggende che girano attorno al calciomercato, anche alcune vicende di cui sono stato testimone. E mi ha colpito molto la verosimiglianza del tuo personaggio. Come lo hai costruito?
Mi sono affidato molto alla sceneggiatura. Poi abbiamo avuto la fortuna di girare allo Sheraton vicino a San Siro, dove si fa effettivamente il calciomercato. Dopo le ore passate sul set, mentre gli altri tornavano a casa o in albergo, rimanevo lì. E finivo per trovarmi a cena con questo esercito di procuratori. Loro erano lì a chiudere gli affari, non capivano cosa stessi facendo io, perché li ascoltassi, guardassi, a volte seguissi. Ma riconoscevano il look, identico al loro, e alla fine ho scoperto le carte e ho confessato. E si sono aperti, mi hanno raccontato e mostrato soprattutto il lato umano delle trattative, del loro mestiere. E mi sono reso conto delle potenzialità drammaturgiche di questo mondo, è un poker che giochi con i calciatori, i direttori sportivi, ma pure con te stesso, dove bluffi con uno sguardo, una parola, dove ti metti alla prova e non puoi mostrare alcuna debolezza, e se lo fai è per fregare l’altro. Ma sempre secondo regole precise. È un bel trip. Ora il problema è che ho l’agenda piena di numeri di procuratori ansiosi di sapere se gli ho fatto fare bella figura!
Io dico di sì. Ne escono uomini e donne e non macchiette, non più stereotipi utili a essere demonizzati, ma ingranaggi astuti di un sistema malato. Con Il grande gioco capisci che loro non sono il virus, ma al massimo il sintomo.
Se ti sporchi le mani ed entri in un mondo, devi perdere i pregiudizi ed accettarne la tridimensionalità. Non sono un grande appassionato di calcio, ma posso fare un paragone con il mio di mondo, in cui io sono l’equivalente del calciatore e il mio agente è il procuratore. Del quale devi fidarti, anche se non saprai mai il modo in cui ti sostiene con produttori, casting, registi. Pure se l’agente è un amico, quasi un familiare a volte, te lo chiedi sempre se tu sei stato sostenuto a pieno o se sei stato solo una carta, una pedina di scambio per altri suoi interessi. E se alla fine a te fa bene, è davvero un male? La verità è che deleghi a lui ciò che non saresti disposto a fare tu. Certo, la differenza col calciatore è che nessuno pensa che quando inizia la sua avventura non è un ragazzo o un giovane uomo, com’ero io agli inizi, ma un bambino. Che gioca a fare il grande ma che non ha percorso nessuna delle tappe degli adolescenti, che mette su una maschera che si ispira al machismo più bieco, fanno i giovani boss, ma la verità è che sono, dentro, bicchieri di cristallo. E ora quando al bar sento parlare male di loro, ci penso e dico: “Ma io alla loro età avrei mai retto tutto questo? Non è troppo?”. E lo sarebbe per chiunque, figuriamoci se poi è un bambino a dover far fronte a questo circo. Il procuratore diventa un pigmalione, e poi magari c’è uno come Jesus Mosquera, nella serie un campione a fine carriera, che cerca di risolvere la sua crisi d’identità aiutando il giovane ragazzo che sta facendo i suoi stessi errori.
Facendo un parallelo con lo sport, tu sei uno che fa tanto gioco di squadra. Un protagonista generoso che gode più nel fare assist ai colleghi – pardon, compagni – che nell’andare in porta col pallone.
Non saprei farlo altrimenti. Il cinema, il mio lavoro, è un gioco di squadra. Ogni attore deve restituire la dignità dell’umanità che deve rappresentare e i personaggi sono varie funzioni che si muovono dentro una storia e la compongono. Un’opera di questo tipo è un mosaico e siamo importanti tutti, per incastrarci alla perfezione dobbiamo tutti fare il massimo sforzo possibile e il protagonista ha una responsabilità in più in questa direzione. La recitazione è un atto d’amore, non è masturbazione. Serve a far godere l’altro, gli altri, e godere tu di questo piacere che condividi.
Rimaniamo su questo parallelo. Com’è giocare nella stessa squadra con un campione come Giancarlo Giannini?
Giancarlo “involontariamente” è un maestro che io ho conosciuto a ridosso degli ottant’anni, mi rimangono dentro infiniti camera car in cui non ha mai smesso di parlare. Lui è uno che combatte la noia provocando, uno che finge di incazzarsi e subito dopo ti ammicca facendo l’occhiolino, è un bambino dispettoso. Una volta me l’ha detto: “Ma che devo fare, io mi diverto, altrimenti non ne vale la pena”. Lui è uno che senti in camerino parlare in inglese e allora lo spii e scopri che, tra una pausa e l’altra, sta doppiando Al Pacino in alcuni fegatelli (in gergo cinematografico, i brevi raccordi nei film, ndr) di House of Gucci. Lui è uno che ti dice: “Passo per egocentrico e presuntuoso perché in doppiaggio voglio sempre che ci siano gli altri, pensano che io voglia il pubblico, e invece per recitare hai bisogno di avere davanti i corpi, le voci”. E poi gli chiedi come si doppia Pacino e lui con nonchalance ti risponde: “Niente, lo guardo, lo scruto e poi lo seguo. E poi – te lo dico francamente – io voglio essere meglio di lui ogni volta!”.
Giocare con lui è uno stimolo enorme.
Un grande stimolo: quando ti guarda, quando sei di fronte a lui, quando duelli come succede ai nostri personaggi, senti la sua umanità, la sua esperienza, quegli occhi incredibili e pensi ai suoi racconti, come quelli che fa su Marlon Brando, e non puoi non dare il meglio. Poi uno come me che lo ha idealizzato, che è un fan, con lui di fronte non può essere pigro, dà il massimo, perché pensi che decenni prima ha fatto lo stesso con Brando. Magari è un trip tuo, ma alla fine è come palleggiare con Maradona.
Al cinema hai fatto bellissimi ruoli, penso a Regina di Alessandro Grande, ma nella serialità mi sembra tu riesca proprio a eccellere.
Più ore hai a disposizione, più entri in un mondo: è la differenza tra una novella e un romanzo. Io poi sono nato come un attore seriale e non è che non mi piaccia il cinema, anzi, ma sono molto a mio agio nella serialità perché amo scavare a fondo nel personaggio, viverlo totalmente. E poi ho avuto la fortuna di fare serie che sono film lunghi, in cui il cliffhanger c’è ma è un pretesto per far rosicare lo spettatore e indurlo a continuare, ma se li guardi capisci che sono film che invece che durare due ore ne durano venti.
Come ti sei trovato con una regia così particolare? Uno stile potente, spiazzante, molto pop.
Fabio Resinaro lo conoscevo bene, ho recitato in due film diretti da lui e Fabio Guaglione. Nico Marzano è stato a lungo aiuto regia in tutto il mondo e la sua conoscenza di tante culture e metodi la senti. Mi sono trovato benissimo, hanno sempre avuto idee chiarissime sulla resa della serie. E poi anche quando dirigeva l’uno, l’altro era sul s
et: hanno dato una linea guida uniforme, uno stile comune. Non a caso si sono alternati, cosa inusuale nella serialità in cui ci si divide il prodotto a spezzoni. E ho trovato affascinante il loro alternare alcuni toni dimessi incastonati in questo überpop portato all’estremo.
Non mi sembra però che tu sia diventato tifoso nel frattempo. Il calcio rimane un oggetto estraneo per te?
Ho visto più partite del mio solito, ma alla fine mi piace. Non sono un tifoso, non ho una fede calcistica. Quando abbiamo girato le notti a San Siro tutti erano emozionati nel calcare il prato del Meazza, io invece ero come su un set qualsiasi. Però ho un ricordo figo: io nel mio vestito Brioni, perfetto, che paro un rigore nella porta sotto la Nord. E la costumista che si mette le mani nei capelli, disperata. Però non ho attaccamenti emotivi a stadi, maglie o colori. Di San Siro, sono onesto, mi è rimasto solo un ricordo: le zanzare. Non hai idea quante ce n’erano.
Confessa, a quale procuratore ti sei ispirato per fare Corso Manni? Se non me lo dici torturo Gianluca Di Marzio per saperlo.
No, non è necessario. La verità è che non mi sono ispirato a nessun procuratore, ma a un personaggio di finzione sì: Ray Donovan (il faccendiere interpretato da Liev Schreiber nella serie omonima, ndr), ovviamente non nella vita privata. Ho voluto replicare quella classe da risolutore determinato ma affabile. Uno che nel fango ha un suo codice morale, che in scrittura era come uno spunto e a cui io ho dato un vestito, una qualità che ho cesellato su di me e su Corso. Perché siamo due romantici, lui è uno che si lascia con la moglie con la quale si ama ancora, si desiderano come prima, ma ciò che è successo attorno a loro ha schiacciato la coppia stessa. Corso Manni è un eroe da tragedia greca, diciamocelo.
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Credits:
Foto: Erica Fava
Art direction: Left Loft
Producer RS: Maria Rosaria Cautilli
Personal stylist: Valeria Amery Palombo
Grooming: Elisa Zamparelli per Making Beauty
Assistenti foto: Sara Meconi, Carolina Smolec
Post produzione: Angela Arena