A 17 anni, François Ozon sognava di diventare regista, ascoltava i Cure, andava al cinema a vedere i teen movie americani e anche quello francese, che conosciamo bene anche noi (Il tempo delle mele, in originale La Boum), e leggeva e rileggeva un certo romanzo inglese che raccontava l’amore estivo tra due ragazzi, con tragico finale. Quel romanzo gli piaceva così tanto che si era convinto che sarebbe stato lui ad adattarlo e farne il suo primo film da regista. Non è andata esattamente così: il film tratto da Dance on My Grave (in Italia uscito inizialmente come Un amico per sempre, in francese La danse du coucou, la traduzione di titoli è uno dei lavori più creativi che esistano) è il diciannovesimo film della carriera di Ozon, 53 anni, e, per molti aspetti, uno dei più autobiografici.
Si intitola Estate ’85, esce al cinema il 3 giugno e, tanto per confonderci ulteriormente le idee sulla questione titoli, Ozon mi dice che in realtà avrebbe dovuto intitolarsi Estate ’84. «Ma poi, per colpa di Robert Smith dei Cure, l’ho cambiato», racconta. «Volevo a tutti i costi metterci il pezzo In Between Days, ma Smith non intendeva concederlo perché, appunto, era uscito nel 1985. Così, ho spostato tutto avanti di un anno». La cartolina d’epoca è perfettamente a fuoco in ogni sua parte. Le musiche: oltre ai Cure, ci sono alcuni di quei pezzi che si finisce per conoscere a memoria anche se non li si è mai cercati, come Cruel Summer delle Bananarama e I’m Sailing di Rod Stewart.
C’è la citazione della scena in discoteca del Tempo delle mele in celebrazione di quello che fu l’oggetto del decennio (il walkman), ci sono le magliette e i giubbotti con le proporzioni sballate come da moda del tempo addosso ai ragazzi e c’è la messa in piega vaporosa di Valeria Bruni Tedeschi, che interpreta la madre di uno dei protagonisti con la solita apparente nonchalance, in realtà precisa come un compasso, capace di misurare alla perfezione la distanza tra leggerezza e dramma.
Alex e David (Félix Lefebvre e Benjamin Voisin, due prove, non una sola, del fatto che un regista si giudica moltissimo dall’accuratezza del casting) si conoscono e si amano. Uno è timido e bisognoso, l’altro è più adulto e selvaggio. Storia gay senza riferimenti al coming out, è un film che ha la freschezza di un’opera prima e, al tempo stesso, racconta senza troppa nostalgia. «Gli anni Ottanta che oggi forse tendiamo a idealizzare in realtà sono stati un periodo molto ambivalente per la mia generazione», dice Ozon. «Mentre noi adolescenti scoprivamo l’amore e il sesso, in parallelo emergeva l’Aids che rendeva queste scoperte prive di gioia, pericolose».
«Credo che il romanzo di Chambers però abbia un valore universale e atemporale», continua il regista, «è un libro sull’adolescenza come momento in cui si viene per la prima volta a contatto con la crudeltà del mondo e il volto ingannevole dell’amore, del romanticismo. Dopo l’uscita di Grazie a Dio, il mio film precedente che ha suscitato un mucchio di polemiche (il tema è la pedofilia all’interno della Chiesa cattolica, ndr), avevo molta voglia di fare qualcosa di più leggero», dice Ozon. «Così sono tornato alla memoria di quel libro che tanto mi aveva colpito da ragazzo e che, con mia grande sorpresa, nessuno aveva mai portato al cinema. Ne ho parlato con Aidan Chambers, l’autore, che mi ha detto che in realtà c’erano andati molto vicini tre registi, tra cui credo anche uno italiano, ma poi non se n’è mai fatto niente».
Chissà, forse il motivo per cui ci sono voluti quarant’anni per far arrivare questo libro al cinema c’entra con il fatto che parla in modo troppo esplicito della morte. Alex è un appassionato di riti mortuari, in particolare di quelli degli antichi Egizi, parla di morte in ogni conversazione. La migliore? «Sai che cosa bisogna fare alla morte? Riderle in faccia». E David, che sarà la vittima sacrificale, gli risponde: «Facile a dirsi quando si è giovani».