Damiano D’Innocenzo ha passato la sua quarantena «con la mia ragazza, che io chiamo mia sposa. Fa la scrittrice. E con un cane». La foto del cane è il profilo WhatsApp di questa conversazione. «Fabio purtroppo non ha né un cane né una compagna di vita», dice del suo gemello, separato nella vita. Nemmeno c’è la Roma (i fratelli sono tifosi parecchio). «Ma neanche la Lazio, il che è ottimo», ribatte Fabio, collegato anche lui. Chiuse le sale, il secondo film dei gemelli D’Innocenzo Favolacce, Orso d’argento per la sceneggiatura all’ultima Berlinale, è uscito intanto sulle piattaforme Sky, TimVision, Google Play, tante altre (e dal 23 maggio anche su MioCinema). «Siamo una generazione che non è abituata ad andare al cinema proprio come consuetudine», commenta Damiano. «Diciamo che il cinema per noi è come lo stadio: il film e la partita li puoi vedere lo stesso in tv, ma quando sei lì percepisci anche dell’altro…». «Banalmente, ti potrei dire che questo film ha delle inquadrature violente e passionali, pensate per essere viste al cinema», aggiunge Fabio. «Perciò risulterà ridimensionato. Ma fino a un certo punto. Penso anche che prima dello schermo è il film a dover essere grande, e sento che Favolacce si muove su questa potenza di fuoco».
Si scusa subito per essersi allargato. Ma benedetta la sfrontatezza. C’è una scena di Favolacce che mostra la cena estiva di una delle tre famigliole protagoniste nel giardino di casa propria. Siamo in un complesso di casette a schiera a Spinaceto, molto fuori Roma dalla parte del mare, col tetto a punta e il patio quasi come nei set di American Beauty. Ma «senza l’America e senza il beauty», come hanno già spiegato i gemelli. Dennis, il figlio di Bruno Placido (Elio Germano), rischia di morire asfissiato per un pezzo di carne che gli si è conficcato in gola. Nei lunghissimi secondi che il padre impiega a metterlo a testa in giù e salvargli la vita, la tensione sale in modo insostenibile, si scioglie nelle lacrime devastate del padre e del bambino. Confidando nella solennità del cinema, la macchina riprende tutto da lontano e di sbieco, quasi senza muoversi. La scena illuminata dai lampioni come una foto d’arte. Questo eccesso nello sguardo – e nella forma – dice molto della coppia di registi che irrompe nel cinema italiano con una forza che diresti generazionale, come a suo tempo, tra gli anni ’90 e il 2000, furono “generazione” Matteo Garrone, lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, Alex Infascelli, Mimmo Calopresti: li cito perché sono stati tra quelli che hanno dato ai D’Innocenzo una mano.
«Ti premetto che odio la divisione in generazioni e il pronome noi», interviene Damiano. «Io, per esempio, amo il lavoro di Garrone, di Sorrentino, e pure quello di Luca Guadagnino, anche se dicono che se ne può amare uno soltanto. E penso che bisogna butta’ al cesso dieci anni di atteggiamento sbagliato che abbiamo avuto nei confronti del cinema italiano. Tra i registi di trent’anni adesso – noi due, Gabriele Mainetti, Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano – non c’è rivalità». «Sai cosa m’è piaciuto delle opere prime in gara ai David?», riprende Fabio. «Che erano tutti lavori senza compromessi. Li conosco tutti: Igort e Phaim Bhuiyan (che ha vinto con Bangla, ndr), e Sironi, D’Agostini del Campione. Non sono amico di nessuno in particolare, ma so che ognuno ha messo nel film esattamente la sua voce, e questo l’ho trovato ammirevole. L’opera prima quasi mai è perfetta, ma deve dimostrare che la tua voce è personale».
E la voce dei gemelli, qual è? «Pretenziosi», dicono le (poche) vocine cattive raccolte sui social dopo l’uscita del film. Loro ci mettono la firma: «Io odio i finti umili», dice Fabio. «Se vuoi raccontare una storia, già dichiari di avere una presunzione, di avere voce in capitolo su qualcosa che appartiene al mondo, la tua piccola verità invisibile». 31 anni, nati a Tor Bella Monaca, sono cresciuti nelle cittadine del litorale romano seguendo un papà pescatore, in una famiglia che raccontano come piena di libri e di affetti. «Ci ha formati Gianni Rodari», dirà a un certo punto Damiano. «Era la versione scritta bene dei sogni che raccontavamo a nostra sorella più grande. Lei ce li chiedeva, noi li inventavamo sul momento, ogni giorno cose più astruse, frottole sempre più grandi». Tutta colpa di vostra sorella, allora? «Ci regalava i libri di Rodari e quelli di Charlie Brown». Che fa ora? «Lei gestisce da vent’anni un centro sociale al quartiere Testaccio, la Casa della Pace». Famiglia di sinistra si può ancora dire? «Io mi definisco un compagno», dice Damiano. «Poi il compagno è stato preso da un’ondata di disillusione verso la politica, come quasi tutti. Però non sono mai indulgente verso quello che faccio di persona, ho delle regole severe e chiaramente sono regole di estrema sinistra. Andiamo a toccare proprio i bordi, guarda».
Non hanno studiato alla UCLA. Neppure alla NYU, ma in un istituto alberghiero di chissà dove. Dopo anni di tentativi, sbattimenti e lavoretti da ghost writer, girano La terra dell’abbastanza, un noir periferico di dannazione e morte stile Claudio Caligari, scritto a 19 anni. Vanno a Berlino. Vengono nominati ai David. Il Sundance Institute li mette in contatto con Paul Thomas Anderson, che supervisiona la sceneggiatura di Ex vedove, una specie di western italiano dialettale fine ’800. Pronto da girare. L’anno scorso pubblicano un libro di poesie, Mia madre è un’arma. E adesso un album di fotografie da Contrasto, Farmacia notturna. C’è in vista anche una serie tv per Sky: «Un noir investigativo che indaga l’animo umano in tutta la sua abissale complessità», ma detto così è troppo noioso, e dubito che il lancio l’abbiano concepito loro. «Sarà un noir», tagliano corto.
«L’ambizione nostra è raccontare usando dei simboli, degli archetipi», spiega poi Fabio. «Favolacce l’abbiamo girato in un complesso abitativo che richiama la suburbia americana di William Eggleston e Raymond Carver». Difficile sentire legare a un film così tanti riferimenti, e così precisi. Eggleston il fotografo iperrealista e Carver lo scrittore minimalista. Italo Calvino e Gianni Rodari: una favola dark nel centenario di uno dei nostri poeti più incredibili, psichedelici e sottovalutati (non certo dai bambini). Da qui al ripasso dei fondamentali: Coppola, Scorsese e Rossellini; The Wire e Dawson’s Creek; Tim Burton, Richard Yates, David Foster Wallace, John Updike, Charles Schulz e Topolino. Anzi, «le storie gialle di Topolino». E PK di Tito Faraci, «un diamante impossibile». Infine: I Simpson e l’Antologia di Spoon River, «il nostro libro preferito». Cioè: la sitcom familiare più geniale di tutte (che ha lavorato silenziosamente – bene, speriamo – dentro l’anima di più di una generazione di ragazzini negli anni più malsani di questo Paese) e la struttura narrativa più antica di tutte: la voce dei morti che torna a rievocare la vita. Fuori campo, il comico Max Tortora – che non vedremo mai e che si è trasformato nel frattempo in una specie di attore feticcio dei gemelli (era già nella Terra dell’abbastanza) – trova in un secchio della spazzatura il diario di una ragazzina. Lo legge. Sappiamo che il diario si interrompe all’improvviso. E sappiamo, così recita una battuta iniziale, che «questa è una storia vera ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata».
«Noi siamo sempre dalla parte dei ragazzini», dicono i gemelli. «Rimpiangiamo tantissimo quell’età, non per una sindrome stupida tipo Peter Pan, ma perché la lucidità di sguardo che avevamo allora non la ritroveremo più. Adesso siamo molto più clementi nei confronti delle mediocrità di ogni giorno». Dennis e Alessia, Viola e Geremia, i ragazzini compagni di classe che nell’estate delle scoperte fanno esplodere il tran-tran del sobborgo nascosto nel verde, riescono a evocare di nuovo quello sguardo lucido perduto. Giriamo attorno al film. A raccontarlo sembra di fare un dispetto al suo meccanismo narrativo. Il flusso malsano di emozioni e presagi che abita questa storia è davvero una favolaccia, con tutti i babau al posto loro. Ci sono i pidocchi, il morbillo, «se mangi i semi del cocomero ti crescono le piante nella pancia», c’è la scoperta del sesso e su tutto la radicale attrazione della morte.
I gemelli hanno disegnato sulla carta i personaggi da capo a piedi prima di girare. Gli adulti di questa storia, i padri e le madri, sono di una precisione sconcertante. Frustrazioni da gruppi di classe su WhatsApp, schegge impazzite delle crisi economiche, tagli di capelli aggressivi e angolari. «Siamo cresciuti tra Anzio, Lavinio, Nettuno», ricorda Damiano. «Questi esemplari di adulti li abbiamo sempre visti. Gente che, pur vivendo ai margini di Roma, sente di doverci appartenere, a cui la crisi economica scatena una grande aggressività. Questo lo vedi anche fisicamente. Io me li ricordo bene, quando uscivo da scuola, questi tagli di capelli orribili, le sopracciglia a filo, i lineamenti deturpati dalla salsedine e dalla rabbia». È il ritratto di Elio Germano/Bruno Placido, che torna a frequentare un personaggio covato dai tempi della Nostra vita, per il quale fu premiato a Cannes come miglior attore. Classe operaia all’inferno, test vivente del dopobomba emotivo dei tempi nostri. «Elio Germano ormai è un aggettivo», dicono i gemelli. «Era l’unico che poteva portare una dose di romanità nel film senza mai farla diventare recitazione e quindi caricatura».
Roma, invisibile nel film, sono schegge di vita/cinema lanciate nel vuoto. «Quella vita un po’ ciabattata, sonnolenta, superba», dice Fabio. Favolacce cova una crudeltà speciale nei confronti degli adulti maschi. Elio Germano, Max Malatesta e Amelio Guerrini sono i capifamiglia che non sanno più cosa o come dovrebbero comandare. «Siamo cresciuti in un ventennio passato all’insegna di un machismo assolutamente sballato, quello del berlusconismo, che ha condizionato tutto», dicono i gemelli. «Il costume e la tv. È entrato nel nostro Dna e ha abbruttito la vita, tante persone questo condizionamento lo hanno subito e ne stiamo pagando i danni». Fabio spiega meglio: «Dieci anni fa i produttori a cui abbiamo dato il copione dicevano: che visione pessimistica avete del mondo. Ma noi italiani sulla famiglia abbiamo fatto parecchi film spietati, I pugni in tasca per dire. Siamo un Paese legato a dei valori cattolici, e la famiglia per noi è sempre stata un nucleo inscalfibile, poi ti guardi intorno e vedi famiglie sfasciate, con traumi che passano nel Dna. Adesso come dieci anni fa, come quando eravamo bambini e vedevamo le stesse rovine». «Io sono proprio incazzato», interviene Damiano. «Odio che la società sia così maschilista. Mi fa proprio schifo, vorrei avere un centesimo della sensibilità che possiede il genere femminile. La sensibilità, la vulnerabilità, il non reprimere la tenerezza».
Il meccanismo di Favolacce è spietato. È uno di quegli horror dove tutto sembra normale all’inizio. Ed è curioso a dirsi, in giorni come questi in cui ogni normalità è stata abolita. «Dobbiamo chiederci però che tipo di normalità abbiamo vissuto prima», commenta Fabio. «Potrebbe essere stata una normalità disastrosa, e questo è un momento in cui abbiamo del tempo per rifletterci sopra». Lo spettatore aspetta una catastrofe dalla prima inquadratura, ma deve arrivare fino in fondo per scoprire cos’è. Una catastrofe definitiva. «Ma non c’è nulla di remissivo. A un certo punto, alcuni personaggi decidono di scendere dal palco e di far finire la recita», spiega Damiano. «Nella Terra dell’abbastanza c’era un suicidio, ed era un atto incredibilmente ribelle. Intendiamoci, noi lavoriamo per simboli. Non siamo mai pessimisti. Uno dei film che da piccolo mi hanno colpito di più è Last Days di Gus Van Sant. Lui sgonfiava l’apoteosi del suicidio di Kurt Cobain, mostrava questi ultimi giorni totalmente privi di enfasi, sconclusionati, come una stanza piena di tappi di bottiglie d’acqua, e questo l’ho sempre trovato geniale».
A proposito, la colonna sonora di Favolacce viene da un disco di library music italiana degli anni ’70 tornato in circolazione da qualche tempo tra gli appassionati del genere: Città notte di Egisto Macchi. «È un compositore che ha avuto meno fortuna rispetto ai suoi colleghi come Morricone», dicono. «L’album lo abbiamo scoperto grazie a una nostra collaboratrice e ce ne siamo innamorati, perché ha una sonorità aliena, quasi da fantascienza, che ci sembrava giusta per questa storia. Non abbiamo potuto scrivere “colonna sonora di”, purtroppo». «Non ho mai pensato di lavorare con un compositore», aggiunge ancora Damiano. «Metti Jonny Greenwood, grande musicista, ma noi siamo troppo pigri, avremmo dovuto adattarci a lui». «Prima che cinefili, siamo appassionati pescatori di musica», riprende Fabio quando gli chiedo dell’ultimo gioiello del film, la canzone che si sente sui titoli di coda. «La Passacaglia della vita. È una canzone italiana d’epoca barocca rifatta di recente da una cantante inglese con un accento che rende il testo ancora più affascinante e misterioso». Oh come t’inganni/ Se pensi che gl’anni/ Non hann’ da finire/ Bisogna morire, canta Rosemary Stanley accompagnata al violoncello da Dom La Nena. Di certo non la canzonetta media dei titoli di coda italiani, senz’offesa per Emma o Diodato. E si trova facile su Spotify.
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Tutte le foto del pezzo, in esclusiva per Rolling Stone, sono state scattate da Damiano e Fabio D’Innocenzo sul set di Favolacce.