«Diciamolo in modo chiaro: io vengo dalla provincia di Latina. Studiavo recitazione in un centro sociale accanto a una lavanderia, il Che Guevara a Montagnola. Con la puzza d’ammorbidente facevamo i giochi recitativi». Il primo ruolo è arrivato con Pasolini di Abel Ferrara, il vero battesimo con le Favolacce dei Fratelli D’Innocenzo. Da lì mai un passaggio mediocre: Rovere, Bellocchio, Virzì, Carrisi.
Tira dritto a testa alta, Gabriel Montesi, senza preoccuparsi di chi gli sta dietro o rischia di superarlo. Forse non corre neanche verso un traguardo, anzi, mi dice che preferisce rimanere un potenziale anziché diventare un potenziale finito. La notte dei David di Donatello ha guardato addirittura la cerimonia (chi non è in nomination tendenzialmente spegne la tv e va a farsi una birra), e non si lascia provocare facilmente. Gli chiedo: «In questi anni davvero non c’era l’occasione di una candidatura dopo quella per Favolacce?». «Forse non c’avevano il link streaming». Ha la battuta pronta ma non rosica davvero. «Io sono l’abisso di Donato Carrisi in effetti poteva strappare qualcosina. Con Esterno notte era difficile, perché eravamo tanti e tutti forti». Allo stesso modo cita Dustin Hoffman e Zygmunt Bauman, ma senza mai atteggiarsi a intellettuale. È preso a rivendicare tutt’altro: le occasioni che gli hanno offerto i casting director, prima ancora dei registi, la riconoscenza verso le scuole di cinema accessibili a tutti, e poi la provincia in cui è cresciuto e i meriti che le attribuisce.
I dieci anni di carriera li festeggerà da co-protagonista accanto ad Alessandro Borghi nel prossimo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia, e tornando dove tutto è iniziato, di nuovo al cinema con la serie Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo. Nel frattempo è in sala in questi giorni con Sei fratelli di Simone Godano, dramedy familiare prodotta dalla Groenlandia di Rovere e Sibilia insieme a Rai Cinema. È un film in cui, a un certo punto, vediamo Gabriel Montesi piangere in mezzo a una strada. E forse così non lo abbiamo visto mai, pecora nera e anima notturna, certo, ma anche uno che chiede amore con la tristezza acida di chi se l’è visto sempre negare. Collocato in una storia semplice, che in fondo è la storia di tutti, Montesi tira fuori delle nuove nuance intimistiche e non c’è niente da fare: che si tratti di urlare contro il fratello Scamarcio o di annunciare la morte di Aldo Moro, nei cast corali è un attore che fa la differenza. Per i prossimi ruoli da protagonista sarei pronta ad augurargli la consacrazione definitiva, se non mi rispondesse: «Io spero di no».
Leo (il suo personaggio nel film, nda) potremmo essere tutti noi, e questo forse ti ha permesso di tirare fuori una fragilità nuova. Possiamo dire che con Sei fratelli vediamo un’altra faccia di Gabriel Montesi?
Sono contento se fa questo effetto. È vero, è un personaggio con delle fragilità più esposte, vittima di un amore mancato e di un amore perduto. Infatti è quasi un film Leocentrico, perché porello, capitano tutte a lui. In un evento perde il padre e subisce un tradimento da parte del fratello, questo film è una coltellata per il mio personaggio. Anzi, avrebbe potuto essere un film in cui piangeva sempre (ride).
La vera magia per te si compie nel passo a due con Linda Caridi. L’amore perduto e mai superato, una complicità da trattenere sempre al limite, tra desideri e rimpianti ancora vivi dopo quindici anni. La vostra scena del frigo è da vedere almeno due volte.
Sai, con Simone cercavamo di trovare la notte. E nella scena della notte con Linda, quella del frigo di cui parli, dovevamo trovare un’altra luce, un altro colore, un altro ritmo, un altro suono, un’altra intimità. In quel momento anche la regia prende una direzione diversa.
Però quel gesto con lo yogurt l’hai trovato tu, vero?
Ma allora mi conosci bene. Sì, la smorfia e la questione dei “pezzettoni” nello yogurt. È sempre bello quando sei in contatto con un’attrice e hai la possibilità di arricchire attraverso un gesto la storia tra due personaggi. Tante volte non si riesce a determinare tutto nel racconto complessivo, quindi l’improvvisazione di un gesto può raccontare in maniera chirurgica e schietta un passato condiviso. Quello è il regalo che mi sono permesso di fare e di farmi su questo film.
Ed è uno squarcio di verità perfetto. Dopotutto Sei fratelli parla dei ruoli che la famiglia ci attribuisce, e di come passiamo il resto della vita a rinnegarli o confermarli. È una storia che funziona sempre?
Sì, ed è la lotta di questo nuovo secolo: salvare la famiglia e allo stesso tempo distruggerla e rincorrerla, nel tentativo di ribaltare i ruoli. Ci ammaliamo molto per raggiungere un’idea di famiglia, e questo probabilmente ci perseguiterà a lungo.
Credi sia una lotta necessaria o potremmo risparmiarcela?
Lo è per avere un pensiero critico, che è determinante per trovare un equilibrio legato a una libertà condivisa, non solo individuale. Ci fa riflettere su quello che siamo noi e su quello che la società ci dice di essere. Per ogni epoca ci sono crisi che durano anche secoli, è inevitabile, ma si spera che qualche risposta per noi possa arrivare. O forse non la troveremo mai.
Potevi essere solo tu la pecora nera tra questi sei fratelli?
Da una parte sì. Dall’altra abbiamo anche Valentina Bellè, che è una pecorella smarrita. E Linda Caridi, dimmi se non è una pecora nera anche lei. Però Leo è quello che ha sofferto di più le mancanze del padre e per questo è incazzato nero, ecco perché è la vera pecora nera.
Invece tu da quali ruoli scappi e quali stai provando a conquistarti?
Be’, questa è una grande domanda. Forse non ho mai fatto una quadra sul ruolo che ho e che non ho. So solo che ringrazio la recitazione perché mi consente di ribaltare tutti i ruoli in cui mi ritrovo. E ti direi che sto provando a conquistarmi il ruolo del più buono e quello del padre, per poterlo diventare un giorno.
Parli della recitazione come fosse lo strumento principale per trovare la tua identità.
Per me è un po’ una croce. Perché sì, vedo il mio mestiere come una necessità per salvare la mia identità. Quello che faccio, in maniera sicuramente non sana, è raccogliere spunti e riflessioni, studiare i ruoli come fossero delle maglie sudate che posso indossare e togliere. Così disse Bauman nel suo Disagio della postmodernità.
E quando hai capito che la recitazione era la tua maglia sudata?
Da subito, è stato istintivo. È stata la spinta per trovare una mia dialettica attoriale e per costruirmi come persona. Facendo questo mestiere da quando avevo vent’anni, in una società che ci fa identificare con il nostro lavoro, di pari passo ci realizziamo con i nostri successi e con i nostri fallimenti. Quando ho iniziato a provare gioia anche nel fallire, e anche nel tentativo di farcela, ho capito che l’attorialità rappresentava un’alternativa e una possibilità.
Non è tremendo il fatto di doverci identificare nel mestiere che facciamo?
Certo che lo è. In qualche modo cerchi di far funzionare quello che non funziona.
Dall’esterno, il tuo sembrerebbe il profilo di un burbero un po’ diffidente. Dico follie?
Dici follie. In realtà sono un compagnone. Sono la persona più simpatica che puoi trovare a un tavolo…
A un tavolo di antipatici?
(Ride) Questa è molto bella. Sono il più simpatico tra gli antipatici.
L’ultima volta ci siamo sentiti per Esterno notte di Bellocchio, il tuo Valerio Morucci era impressionante. Penso alla scena della telefonata per annunciare la morte di Aldo Moro e segnalare il corpo in via Caetani, raccontata quasi esclusivamente dalla tua voce.
Oltre a un paio di foto, una scattata prima del ’78 e una dopo l’arresto, quella telefonata era l’unica verità che avevo per mettere in piedi un personaggio difficile come quello di Valerio Morucci. Sono partito da lì: avevo una traccia su cui ribattevo la voce del personaggio ed era la mia bussola, infatti prima di entrare in scena sul set ripetevo sempre: “Professor Franco Tritto?”. Così un giorno mi chiamò l’assistente alla regia e mi disse: “Il Maestro vuole che fai tutta la telefonata”, e non era preventivato per quella scena. Lavorare con Marco Bellocchio penso sia una delle fortune che puoi incontrare nella vita, e Morucci è stato un personaggio davvero importante per la mia carriera, perché sono riuscito anche a farmi una coscienza politica. Certe storie all’interno delle scuole non vengono approfondite e nemmeno menzionate. E quella telefonata è la notizia che tutti ricordiamo, quindi c’è stato davvero un brivido sia nel girarla che nel rivederla.
Soprattutto perché quella non è la nostra Storia. Anche tu nasci negli anni Novanta e cresci nella provincia di Roma. Che effetto ti ha fatto?
Mia madre abitava vicino Boccea ed era a Roma in quegli anni, mi ha sempre raccontato il caos di quel periodo. Mi ha parlato di una Roma difficilissima e pericolosa negli anni Settanta e Ottanta, era una città a fior di pelle. Quando ho recitato Morucci e la sua epoca storica, sognavo di riuscire a portare mia madre a fare almeno la comparsa sul set. Mi avrebbe fatto piacere restituirle i suoi panni, quelli di quando era pischella.
Dopo Favolacce, che ha cambiato tutto nella tua carriera, torni a lavorare con i D’Innocenzo per Dostoevskij. Rubo una battuta che rivolgi a Linda Caridi in Sei fratelli: a distanza di anni, tu e i D’Innocenzo siete cresciuti o siete cambiati?
Siamo molto cresciuti. E loro sono diventati dei registi davvero compiuti. Non che su Favolacce non lo fossero, ma avevano un’ingenuità e una spontaneità maggiore. Che non vuol dire che non che non l’avessero anche su Dostoevskij, ma che l’hanno direzionata in maniera più proficua. E sono sicuro che si vedrà anche sullo schermo.
Li definisci spesso “i rivoluzionari del cinema italiano”. In cosa lo sono, secondo te?
Lo sono non tanto sulla base di un’idea che possiamo farci di loro, ma in termini oggettivi. Nel loro linguaggio ci sono elementi nuovi che vengono da una cultura cinematografica complessa, e la loro grammatica, sia nella direzione di noi attori che nella visione registica, ha qualcosa di diverso. Ed è diverso perché sono loro a cercare il nuovo.
Anche nel Primo re c’era qualcosa di rivoluzionario?
Sì, in modo ancora diverso. C’era una spinta data da Matteo Rovere, che tra l’altro è stato uno dei primi registi ad avermi scoperto, grazie alla casting Francesca Borromeo. È stata una sensazione forte: preparare Il primo re insieme a lui, creare una nuova lingua, si sentiva nell’aria che stavamo facendo qualcosa che avrebbe aperto gli orizzonti del cinema italiano.
Ringrazi sempre i casting director insieme ai registi. Perché è così importante per te?
Lo dico innanzitutto per gli attori. Devono sapere che bisogna conoscere e farsi conoscere dai casting director, creare con loro un rapporto lavorativo proficuo, in modo che i casting vedano più carte possibili e riescano a proporti. Siamo tantissimi attori, e i registi da soli non possono avere un quadro complessivo per trovare il personaggio.
Ma è noto che gli attori non siano i primi fan dei casting director.
Be’, è ora che lo diventino. I casting sono il primo sguardo, poi arriva quello del regista. E l’attore dovrebbe riflettere bene sullo sguardo da ricercare. Non possiamo dare per scontato alcun passaggio per arrivare a fare un film, altrimenti vuol dire che ci sentiamo troppo bravi e troppo giusti per il ruolo, per il film e per questo mestiere. È una modalità che non fa bene agli attori, che non li fa essere concreti e creativi.
Faccio l’avvocato del diavolo: questa non potrebbe essere l’opinione di un attore che è stato scoperto dai casting, a differenza di molti altri?
Risponderei: tesoro, io vengo dalla provincia di Latina. Diciamolo in modo chiaro: la mia famiglia fa tutt’altro, sono partito da sottozero. Ho conosciuto la scuola Gian Maria Volonté perché ho fatto una serie di street casting trovati su Internet. Ho conosciuto Gabriella Giannattasio e Marco Donat-Cattin per il film di Abel Ferrara con Willem Dafoe, Pasolini. Mi hanno visto e mi hanno detto: “Ti puoi fermare un secondo?”. Mi hanno fatto cantare una canzone e improvvisare tutto. All’epoca studiavo recitazione in un centro sociale accanto a una lavanderia, il Che Guevara a Montagnola. Con la puzza d’ammorbidente facevamo i giochi recitativi. Poi ho incontrato Eduardo Valdarnini ai callback finali per il film di Abel Ferrara, e lui mi ha parlato della Gian Maria Volonté: “È una scuola gratuita”. E lì, fermi tutti. Le masterclass che ci sono in giro costano troppo, non sempre ce la facciamo. Sono riuscito a entrare passando per il bando e lì ho imparato davvero cos’è il cinema, cosa significa la recitazione cinematografica, e mi sono elevato ad essere un uomo.
Direi che il caso è chiuso. Quando Cassano si è offeso per la tua interpretazione in Speravo de morì prima ti è dispiaciuto o anche no?
No, a me è piaciuto. Ho detto: ma guarda te Antonio Cassano, quanto è intelligente. È riuscito ad essere critico a due puntate dalla fine. Geniale, come lo è stato nella sua carriera. Per cui lo ringrazio per aver espresso il suo parere, così mi hanno visto in molti.
Ma Cassano aveva ragione?
La verità? No.
Il più simpatico tra gli antipatici. In dieci anni hai fatto solo ruoli ben ragionati, quasi mai una cosetta semplice. Al di là della gratitudine, non è sfiancante stare sul pezzo dall’inizio e alzare sempre l’asticella?
Certo che è sfiancante, ma era quello che cercavo. E spero si diversifichi sempre di più, fino a raggiungere nuove possibilità. Ora sono molto curioso di vedere il film di Gianni Amelio che abbiamo finito di girare qualche mese fa.
E infatti sembra che quest’anno stia per ricapitare di tutto. Se Favolacce è stato il tuo battesimo, Dostoevskij potrebbe rappresentare la tua consacrazione. Potrebbe davvero?
Io spero di no. Come diceva Dustin Hoffman: “Dai sempre il 70%, mai il 100%”. Mi ha fatto riflettere sull’idea di provare a essere sempre un potenziale, e mai un potenziale finito. E ti posso dire? Quando Dustin Hoffman l’ha detto, mi sono sentito più sereno.