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Gabriele Mainetti, niente è proibito

Neanche fare un film di kung fu all’Esquilino. Con una protagonista cinese che non parla una parola di italiano. Ma sempre con l’occhio al grande pubblico. Dialogo, a dieci anni da ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, con un autore che pensa e gira in grande, ma che nella sperimentazione continua a trovare la sua libertà. Il nuovo ‘La città proibita’, le ispirazioni, le ambizioni, i classici, Roma, il genere, l’inclusivity (ma senza manuale). E le storie, «che devono riguardarmi sempre: devo essere io il primo a piangere»

«Sono felice che ci sia questo clima di… frescura, non so come chiamarlo. Ma il pubblico è la prova del nove, sempre». Così Gabriele Mainetti dopo che io gli dico che mi sembra, almeno tra quelli che hanno già visto il suo ultimo film (La città proibita, nelle sale dal 13 marzo con PiperFilm), che tutti stiamo tirando un sospiro di sollievo, come a dire: oh, che bel film rinfrescante, in questo posto – il cinema italiano – dove succede sempre poco o niente, soprattutto in territorio pop.

La città proibita è un caso raro. È un film di kung fu, è una storia d’amore, è una commedia, è un dramma scespiriano. E pure Mainetti – che l’ha scritto insieme a Stefano Bises e Davide Serino – è un caso raro. Tre film in dieci anni, cominciando da un instant cult, Lo chiamavano Jeeg Robot, per cui si può dire che esiste un prima e un dopo, per il nostro cinema di genere e non solo; poi un altro film bellissimo, Freaks Out, da molti incompreso, ma che sta già superando grandemente la prova del tempo (e confermando la bontà della sua stessa ambizione); e adesso questo romance di arti marziali all’Esquilino in cui s’incontrano una ragazza cinese (Yaxi Liu) e un cuoco romano (Enrico Borello). Lei sta cercando la sorella perduta, lui ha dei conti in sospeso con il padre (cammeo di Luca Zingaretti). Nel mezzo, la di lui madre (sempre sensazionale Sabrina Ferilli), un amico di famiglia con qualche segreto (Marco Giallini) e tutta la comunità sino-romana, tra ristoranti, rave di nuovi pop idol, botte da orbi, impennate überpop, appunto.

Torniamo al principio. «Io faccio il cinema con quell’intento: per il pubblico», dice Mainetti. «Cerco di raccontare una storia a più persone possibili, ma lo voglio fare con la mia voce, e non è una cosa facile. Non mi accontento come magari fa qualche collega di un premio: sono importanti, certo, ma mi ricordo con Jeeg Robot che tutto quello che è venuto dopo è stato una sorpresa. La cosa che mi interessava davvero era che il film arrivasse alla gente».

Vuoi raccontare storie per il pubblico, ma il pubblico lo tratti non come fa di solito il nostro cinema pop. Qui, per dire, c’è una protagonista cinese che non dice una parola di italiano, e anche questo mi dice che le tue storie, per quanto popolari, vogliono andare sempre un po’ oltre quello che ci si aspetta da un certo cinema, almeno da noi.
Io, per prima cosa, penso che bisogna trovare i volti giusti per le storie giuste. È chiaro che, se hai un personaggio di cinquanta-sessant’anni, ci sono tanti bravi attori che possono interpretarlo, e allora c’è poco da fare: chiami, come ho fatto io, Sabrina Ferilli, o Marco Giallini, o Luca Zingaretti. Tra i giovani, però, puoi sempre pensare di incontrare qualcuno di nuovo, e non “stretchare” l’età di uno più adulto che deve far finta di essere giovane: lì c’è una forzatura che il pubblico fatica a sopportare.

E poi ci sono i produttori…
Ovvio, e difatti per fare un film devi trovare una certa armonia anche a livello produttivo: metto due volti nuovi, ok, ma in questo racconto accolgo anche degli attori importanti e più noti. E poi cerco di sedurre il pubblico con la parte più ludica, che è quella delle arti marziali, che è il cinema che piace a me, il cinema di genere. E questo mi permette di esplorare anche la parte più drammatica; la armonizzo con la commedia all’italiana, anzi no: con la tragicommedia, come la chiamo io. Perché per me la commedia più bella che abbiamo fatto è quella che vedeva personaggi tragicomici calati in una realtà molto credibile. Personaggi tragici che reagivano alla tragedia col sorriso, e non si poteva che amarli. Lo vedevi che quello stava peggio di te, o quantomeno come te, ma aveva una risposta vitale a quel disastro quotidiano che viveva, e tutto questo era salvifico. Mi piacciono i personaggi al limite che, nonostante tutto, ce la devono fare. Come dice Sabrina [Ferilli], “c’hanno tutti ’sti buchi, ’sti bozzi, però so’ belli”. Pensa al finale di Poveri ma belli, pensa a come si raccontava la periferia in quel momento. Quei due alla fine decidono di sposarsi, e lei dice: “Ma ’ndo nnamo?”, e lui: “A casa tua”. E allora lei fa: “Ma siamo in sette”, e lui: “E se strignémo

Gabriele Mainetti sul set con Sabrina Ferilli. Foto: Andrea Pirrello

C’è sempre, nel tuo lavoro, questa classicità anche rispetto al nostro cinema, pur essendo i tuoi film totalmente contemporanei.
Più che contemporanei, direi iper moderni. Sono film di pura sperimentazione. L’altro giorno ho rivisto sul grande schermo Angeli perduti di Wong Kar-wai. Che è meraviglioso, ma era proprio sperimentale, contravveniva a tutta una serie di regole che Wong Kar-wai voleva distruggere. Era nato come sceneggiatore per il mercato di genere di Hong Kong, aveva fatto di tutto, poi quando aveva fallito con As Tears Go By, che era stato un flop, aveva deciso di fare Ashes of Time, un wuxia cafone con un impianto imponente. Poi però la produzione di quel film è stata interrotta perché non finiva mai, e allora lui ha partorito Hong Kong Express e Angeli perduti come forma di ribellione. Erano due film che continuavano a dialogare con il genere, ma la storia d’amore la faceva da padrone. Sono due film che hanno ispirato La città proibita, anche se io non ho questo sguardo così trasgressivo. Sono estremamente classico ma molto al corrente di quello che è contemporaneo anche a livello formale e tecnico, perché è parte della mia formazione, della mia storia. Mio zio era un compositore di colonne sonore, mia nonna mi insegnava il pianoforte, mio padre a disegnare e poi a fotografare, sviluppavamo le fotografie in casa. Ho sempre avuto questa attenzione per la tecnica che mi ha permesso di aggiornarmi sempre. E nel momento in cui ho scelto di fare il regista, ho sempre studiato con grande passione tutto quello che è la macchina da presa, il suo movimento iper cinetico. Ma al di là dell’ibridazione dei generi – una cosa che peraltro si fa da tantissimo tempo, basta che vai sull’Internet Movie Database e vedi che ogni film adesso è un horror/mystery/thriller/drama – a me, ti ripeto, interessano prima di tutto le storie. Forse l’unica operazione nuova che faccio per il nostro Paese è portare qualcosa che viene da un’altra cultura e cercare di comporre un piatto misto che abbia un suo senso.

Viene fuori, anche stavolta, un film fatto di corpi estranei – la commedia all’italiana e il kung fu, il romance e il genere – che magicamente si parlano tra loro.
È sempre stato così. Anche in Jeeg Robot far interloquire il genere dei supereroi e la periferia di Tor Bella Monaca era totalmente insensato. Per me la sfida era: come faccio? Ed era una sfida proprio tecnica, sia nella scrittura che nella direzione formale: che forma do a questo racconto? Poi ho capito che la soluzione stava, ancora una volta, nei personaggi, che devono essere il più possibile veri, e per veri intendo sempre cinematografici però reali, tridimensionali, pieni di pregi ma anche di difetti che non devi giudicare mai. A cominciare dai cattivi… che già l’accezione di cattivo mi mette subito in guardia. Penso a Marlon Brando: ogni volta che doveva interpretare un cattivo, guardava com’era scritto e cercava di dargli più profondità. Quali sono i lati buoni, o anche solo interessanti, di questo personaggio? Cosa lo ha spinto ad essere così? E come posso io renderlo a tutto tondo? È quello che faccio anch’io: do un’abilità a questi personaggi, ma gli assegno un’identità che è totalmente nostra, lavorando sempre nello spazio di Roma. E allora lo spettatore che utilizza quel personaggio come veicolo emotivo e identificativo riesce anche a credere all’alieno che incontra per strada, perché quel personaggio reagisce come reagirebbe lui. Non è Will Smith che in Independence Day dice: “Ce la faremo!”, perché l’italiano non si sente investito di quella responsabilità. Non è neanche Tom Cruise che in Codice d’onore urla a Jack Nicholson: “Me lo dica in nome della verità!”, perché nessun soldato italiano direbbe una cosa così, quell’altro gli risponderebbe: “Ma vaffanculo, che cazzo stai a di’?”. Mi ricordo quando sono stato a vedere Pearl Harbor, ero a Frascati e finito il film uno si è alzato e ha sbuffato: “Ma vattelo a pija’ ’nder culo!”. Quell’eroismo lì noi non ce l’abbiamo, ma non significa che non abbiamo gli eroi, anche qui la gente è morta per cose grandiose. Ma tendenzialmente, per come è fatta la nostra cultura, rifiutiamo quella modalità. E allora, se riconosci tutto questo, puoi giocare con i generi. Quando mi chiedono “Perché lo fai? Perché porti i generi nel nostro cinema?”, io dico che è perché ci appartengono nell’immaginario. Tutti abbiamo visto i film di Bruce Lee, tutti abbiamo amato Tarantino: e allora perché non possiamo pensare anche noi di divertirci a giocare con quell’immaginario?

Tutto questo usando sempre, come dicevi prima, Roma. In un dialogo, anche qui, con il nostro cinema classico. Ma la tua è una Roma che resta riconoscibilissima, che non vuole diventare un non-luogo.
Sabrina dice che in questo film vedi Piazza Vittorio ed è come se ti sentissi cittadino del mondo, potrebbe essere Berlino o Parigi. E lo dice con un’accezione positiva, parlando di interculturalità, il che mi fa ovviamente felice. Però secondo me non è vero che nella Città proibita non c’è un luogo specifico: un luogo c’è eccome, ed è sempre Roma. Il non-luogo al cinema, per quanto mi riguarda, è sempre la soluzione più sbagliata. Poi è vero che qui ci sono archetipi comuni a tutto il mondo: la vendetta, l’amore, la rabbia, la famiglia. Appartengono a tutti, se no questi due non si potrebbero mai innamorare. Ma Roma rimane sempre Roma, e però cambia sempre: perché fai un’operazione cinematografica, e quindi la guardi in un altro modo, nella speranza di dire che possiamo anche essere altro se ci metti questa storia davanti, se colori la città con altre luci. Io mi sento di dire che La città proibita non è un film romanocentrico manco per il cavolo, perché fa esplodere i confini di quello sguardo, cambia il punto di vista. E non parlo solo di soluzioni tecniche: per renderla più seduttiva e colorata, ho detto al direttore della fotografia (Paolo Carnera) “Pensa a quello che ha fatto Chris Doyle in Hong Kong Express”, e a Hong Kong ci sono pure andato io per vedere quei colori, anche se chiaramente Roma non è per niente una città al neon; però ho cercato di trasformarla in qualcos’altro. Ma la vera operazione di trasformazione, come dicevi tu, l’ho fatta più di tutto con i personaggi. Yaxi Liu arriva come portatrice di un’altra cultura – il genere, le arti marziali – ma anche come volto con dei tratti somatici diversi, e interagendo con noi ci cambia.

Yaxi Liu in una scena di kung fu. Foto: Andrea Pirrello

E torniamo a quella piccola rivoluzione che dicevo prima: la scelta, per un film pop italiano, di una protagonista che non parla la nostra lingua.
Lo so, e infatti mi dispiace che, nel giorno in cui abbiamo presentato il film alla stampa, tutte le televisioni abbiano voluto incontrare solo me e Sabrina. Poi, dopo aver visto il film e dopo aver conosciuto Yaxi Liu, si sono accorti che è speciale, e che avrebbero dovuto dar voce anche a lei. Io me ne sono accorto molto prima, e infatti ho fatto questo film. Questa, vedi, è l’apertura verso il nuovo. Io non ti dico “Non ti faccio ridere”; c’è Giallini, c’è Sabrina, state tranquilli, tutto quello che sentite come necessario per muovervi di casa e andare a vedere un film al cinema io ve lo restituisco. Quella parte c’è, ed è anche fica. Ma proviamo anche a fare qualcos’altro, perché no. E, come ti dicevo all’inizio, quello che mi guida è sempre il grande amore per il pubblico.

E tutto questo lo fai – ed è un’altra cosa che si avverte moltissimo guardando questo film – senza il manuale dell’inclusivity in mano.
No, per carità! Quella è una ricetta molto facile che un regista deve seguire se nel suo film vuole metterci l’inclusivity, o la diversity. Per me chi racconta una storia come questa dev’essere sinceramente attratto – no: innamorato – dell’altro. Uno come me che fa un film del genere guarda alla cultura del gōngfu pian e del wuxia che c’è stata prima, ma anche al cinema di John Woo, con un rispetto assoluto: credo che quei film siano pure decisamente superiori ai colleghi americani. Sono sempre stato innamorato delle altre culture forse anche per un fatto generazionale: sono cresciuto con i cartoni animati giapponesi, poi quando avevo diciott’anni è arrivato Takeshi Kitano, e dopo ho fatto il salto dal Giappone alla Cina, Zhang Yimou, e poi i recuperi più sofisticati, e adesso la Corea del Sud… Prima di tutto devi essere naturalmente e sinceramente attento a certi temi, e allora tutto ti viene spontaneo. E poi la ricetta è mostrare questa cosa nel racconto: non la devi dire, perché se la dici lo spettatore sente che deve pensare quella cosa solo perché è giusto così, perché ci sono dei personaggi che ragionano a livello ideologico su cosa è corretto fare e pensare. E certo che è giusto che il femminile prenda più spazio in un racconto, certo che è giusto che si dia spazio ad altre culture: lo sappiamo. Ma allora non lo dire: fallo. Se lo dici senza farlo, stai rispondendo a un’attitudine programmatica, a un protocollo che infastidisce chi sta seduto in sala. Ma non perché lo spettatore è contro l’inclusivity: perché così è fatto male, perché glielo stai facendo pensare e non glielo stai facendo vivere. Nel caso della Città proibita, lo spettatore doveva vivere quest’incontro fra una ragazza cinese e un ragazzo italiano, il film è impostato esattamente in questo modo. E poi io non ho mai ragionato sul fatto che la protagonista è una donna forte e l’uomo invece è un coglione, come ormai succede, per dire, in tutti i film Marvel: gli uomini sono tutti coglioni e Black Widow e la sorella sono le uniche brave. Ma possibile che sia così? Nel mio film c’è un uomo più fragile, sì, ma è una fragilità meravigliosa che lei non possiede. È come col razzismo…

Prego.
Non puoi parlare di razzismo senza mostrarlo. Da sceneggiatore, non basta avere un’idea approssimativa del bene e del male per rimettere in discussione lo stato delle cose. Se voglio far morire i dinosauri che la pensano in un certo modo – perché è da una vita che a Roma vivo il razzismo diciamo così bonario, quello del “massì, vabbè, questo non è razzismo, sticazzi” –, allora devo rompere quel mondo antico, perché invece sì: anche quello del “vabbè, sticazzi” è razzismo, eccome se lo è. Devi far vedere tutto, anche nelle sue sfumature, e questo riguarda ogni tema cosiddetto sensibile. In Jeeg Robot, il personaggio di Ilenia Pastorelli entra nella camera mortuaria a vedere il corpo morto del padre che la violentava e non si mette a urlare “Bastardo!”; gli dà un bacio e lo saluta, perché le emozioni umane sono piene di ambivalenze.

Yaxi Liu ed Enrico Borello in una scena del film. Foto: Andrea Pirrello

La città proibita non doveva essere il tuo terzo film da regista, e invece…
È stata una scelta bizzarra, diciamo così. Ora nel mio studio c’è una quantità inenarrabile di libri, fumetti, articoli, perché cerco sempre storie che possano in qualche modo entusiasmarmi, nella speranza di poterle sviluppare e realizzare magari anche solo come produttore. E il lavoro come produttore è altrettanto difficile. L’ultima volta ho incontrato una di questi delle piattaforme, e lei voleva assolutamente che io facessi il mio prossimo film per loro; e io continuavo a dirle: “Non avete capito quanto è importante per me la sala”, e bla bla bla. Poi ho buttato lì una decina di idee, e lei mi fa: “Ma quante ne hai?”, e io: “E pensa quante non ne producete voi!” (ride). Le storie che mi interessano devono parlarmi, sempre. Però appartengono anche ai miei collaboratori, che le condividono con me. L’altro giorno uno di loro mi ha mandato i fumetti di un grande mangaka e mi ha detto: “Ma perché non li opzioniamo?”, e così abbiamo fatto. E forse quel film lo farò io, o forse no, o non se ne farà niente: non lo so. Ma dev’essere sempre qualcosa che mi riguarda. In questi anni mi hanno chiamato anche dall’America, ma ho sempre trovato impossibile fare qualcosa che mi viene consegnato e che non appartiene alla mia ricerca, qualcosa che non mi ha sedotto a tal punto da doverlo fare. La storia della Città proibita, che è ispirata a Per un pugno di dollari, nasce da me, e quindi è stato un passo molto facile anche decidere, a un certo punto, di dirigerlo. Avevo solo paura che, per come l’avevo pensato, il film fosse solo ludico, tutto azione: non trovavo lo spiraglio giusto per raccontare la storia d’amore. Nel momento in cui con Stefano Bises abbiamo trovato il modo di metterla più a fuoco, ho detto: “Va bene, lo faccio io”. Perché al cinema voglio piangere, se non mi emoziono io per primo non vado avanti.

Devi sempre trovare un fuoco emotivo.
Sì, è fondamentale. In Freaks Out, per dire, era l’amicizia, anzi la famiglia che si crea con gli amici, che per me è una cosa sacra. Ma, ripeto, è una follia mia. Mi hanno chiamato per una cinquantina di progetti, e non è per snobismo che non ne ho fatto nessuno, non è perché non mi volevo contaminare: è che lavorare così proprio non m’interessa. Ci provo anche, ma non ce la faccio. Sono le logiche che si muovono dentro questa mia capoccia malata.

In questo senso, che effetto ti fanno i dieci anni di Jeeg Robot? E, in questi dieci anni, sei diventato l’autore che pensavi?
Autore non lo so, non mi definisco tale. Sai, non so come risponderti. A me sembra l’altro ieri, mannaggia la miseria, perché di film ne ho fatti troppo pochi, ne avrei voluti fare molti di più. Però ci ho messo troppo, e non perché sia insicuro nel trovare una storia o nello scriverla: è solo perché quello che voglio fare è estremamente costoso, necessita di tempo per essere messo in piedi a livello produttivo. Freaks Out ha avuto una post-produzione infinita, perché c’era il Covid e perché passare da un film che costa 1,7 milioni di euro a uno di quasi 13 non è immediato. Ci sono voluti banalmente due anni e mezzo per trovare i soldi, e poi la pandemia ha paralizzato tutto. Ma va bene così. Mi spiace solo aver fatto così pochi film perché dentro di me ne ho molti di più, questo sì.

E allora riformulo la domanda: cos’è cambiato, in questi anni?
Sono cambiato io, sono diventato più capace, probabilmente. Mi sento più sicuro riguardo alla tecnica, che per me è una parte fondamentale: sono ossessionato dalla meccanica di quello che è il set e il cinema, e lì per me è fondamentale riuscire ogni volta a migliorarmi, non riesco a sedermi in sala e non guardare tutti gli errori formali che ho fatto. E poi mi sforzo sistematicamente di essere più allegorico e meno didascalico, di rimuovere quei dialoghi che spiegano allo spettatore quello che sta vedendo e di provare invece a comunicare il più possibile con le immagini. Come fa il maestro Spielberg: nella Guerra dei mondi c’è una famiglia che si muove per le campagne e a un certo punto vedi cadere dall’alto questi vestiti come fossero uccelli, e immagini i corpi di quelle persone che non ci sono più; avevamo appena vissuto tutti l’11 settembre e quella è un’immagine meravigliosa, che ti ricorda quello che era accaduto ma senza dover mettere in bocca a qualcuno delle battute per spiegartelo. Io mi sforzo di essere sempre il più cinematografico possibile. Uno film più belli mai fatti è Un condannato a morte è fuggito di Bresson, dove non c’è quasi una parola: quello per me è il puro cinema. Oppure, facendo i salti nel muto, Buster Keaton, anche più di Chaplin: l’azione era pura esperienza cinematografica. O Griffith: al di là del fatto che fosse una merda che sosteneva il Ku Klux Klan, con Nascita di una nazione ha inventato il campo e il controcampo. Quelli erano film che avevano sequenze d’azione incredibili, perché il cinema agli inizi era pura azione, e io questa cosa non me la scordo. Perciò continuo a fare questo mio cinema con più sicurezza, e con la paura però di trovare sempre una storia che mi emozioni, perché quella è la parte più impalpabile che non puoi avere sempre, e che quando accidentalmente, per vari motivi, si spegne, allora sei depresso, sei svuotato. Io dopo Freaks Out ero totalmente svuotato, avevo dato l’anima a quel film e boccheggiavo nella speranza di trovare altre storie, e grazie a dio ce n’erano tante che avevo pensato prima… vabbè, mo’ questa è diventata una seduta di psicanalisi (ride). Fare il produttore, in questo senso, è una bella scusa: ti dà la libertà di pensare a tante altre cose, a tante altre storie, perché ti libera dall’idea che poi dovrai girarle tu come regista. E allora lì nascono le idee. Ogni tanto però vorrei prenderla in modo un po’ più leggero, ma l’Italia è il Paese che è, il giudizio operato su di te è sempre tagliente, devi tutelare la tua linea editoriale, la tua carriera… Però a volte mi piacerebbe fare come Takashi Miike: girare quattro film all’anno, e sticazzi.

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