Mentre parliamo di A casa tutti bene, Gabriele Muccino perde la voce per un attimo. È la prima volta che racconta del suo nuovo film, l’undicesimo: «Forse è la tensione di razionalizzare cose che non ho ancora razionalizzato». Una parola torna spesso nel discorso: speciale. Da Come te nessuno mai a Padri e figlie, in questo affresco familiare, che riunisce la serie A del cinema italiano, c’è una sfumatura di ciascuno dei lavori precedenti di Muccino: immaginatevi una sorta di opera omnia del regista. «La chimica sul set è stata fortissima, unica. Forse posso azzardare che questo film è migliore di quanto avrei mai sperato».
La trama non occupa più di due righe, ma alzi la mano chi non si riconosce in almeno una delle vite rappresentate. Per festeggiare le nozze d’oro una coppia riunisce figli, nipoti e cugini nella villa che possiede su un’isola. Tutti dovrebbero rientrare sulla terraferma la sera stessa, ma una tempesta blocca i traghetti: «In occasioni simili ognuno di noi ha un timer nascosto, un tempo a disposizione in cui mantiene una facciata, se superi quel limite entri in una zona rossa in cui la personalità e l’istinto prevalgono sui codici di comportamento». Se Ulisse è stato lontano da Itaca vent’anni, Gabriele ne ha trascorsi 12 dall’altra parte dell’oceano: «Tanti», dice, come a suggerire “troppi”. «Ho sempre pensato che avrei fatto un film e basta. E invece sono diventati due, tre, quattro». Ora però Muccino torna a casa. E A casa tutti bene. Anzi, benissimo.
Perché hai deciso di tornare in Italia?
Era il momento. Ho navigato lungo tanti mari e il viaggio è durato molto più di quello che immaginavo. Ma quando torni devi fare i conti con i Proci, devi affrontare le dinamiche della vita reale che ti aspettano. Io le ho volute esorcizzare, raccontandole. In questa riunione familiare ognuno torna da un viaggio: siamo tutti dei sopravvissuti a qualcosa.
Hai sofferto la lontananza?
Un po’ sì, perché andare via da un Paese che ami per fare un mestiere che ami altrettanto crea una scissione tra la nostalgia e la voglia di avventura. L’avventura, però, deve avere un corso, altrimenti poi diventa routine, noia, frustrazione o pena, a volte. Quella americana è stata un’avventura che mi ha visto entusiasta, esploratore, spavaldo, ma anche smarrito in una cultura che non è affatto compatibile con la nostra, è proprio un altro modo di vivere.
E anche di fare cinema?
Grammaticalmente le regole sono le stesse. Semmai il modo di fare cinema è diverso per la scala, perché parli all’intero pianeta. E questo cambia l’approccio. Poi nel mercato americano c’è un altro tipo di strategia: devi diventare un camaleonte che indossa la pelle altrui, invece in questo film sono io che racconto quello che sentivo urgente e necessario.
C’è qualcosa che ti ha deluso di Hollywood?
Ho vissuto gli ultimi momenti del grande cinema fatto dagli studios, la fine di un’epoca in cui le major investivano budget sostanziosi e ingaggiavano grandi interpreti. Il sistema si è infragilito, prima con i cinecomic Marvel e poi con la tv di qualità: show come House of Cards hanno portato attori fuoriclasse a fare una televisione da fuoriclasse. Questo ha mandato in crisi il mercato, che ha spostato la sua attenzione sulla tv, dove si trovano grandissimi sceneggiatori, ma dove il regista è un elemento sostituibile: il fatto che in una serie ce ne siano 3 o 4 a rotazione ti dice quanto sia ininfluente il suo punto di vista. Ma io ho iniziato a fare questo mestiere perché volevo avere un punto di vista sulle cose, e raccontarlo. Il cinema si è appiattito su una grande insicurezza di fondo: è un momento di definizione paragonabile al passaggio dal muto al sonoro.
Sei stato il primo regista contemporaneo a imporsi negli Stati Uniti, ora altri seguono il tuo percorso: a gennaio è uscito il primo film americano di Paolo Virzì.
Con tutto il rispetto per i miei colleghi, un conto è fare un film a Hollywood co-prodotto dalla Columbia, un altro è girare un film in inglese prodotto da partner europei, senza quindi doverti adattare ai codici delle major. Non significa fare un film americano, ma semplicemente fare un film in inglese. Credo che solo Franco Zeffirelli e Sergio Leone abbiano fatto un percorso simile al mio. Nessuno si è mai accorto della mia italianità, perché mi sono mescolato al sistema, ma è servita un’attenzione pazzesca per fare in modo che tutto fosse autentico e credibile per la loro decodificazione culturale.
Per Guadagnino invece il discorso è diverso, è più apprezzato negli Stati Uniti che in Italia…
Luca è un amico. Tra l’altro il suo ultimo film dovevo girarlo io, volevo, ma poi non me la sono sentita, perché al centro c’è un elemento molto forte, che ho temuto di non saper indagare. Gli auguro davvero il meglio.
Tornerai in America prima o poi?
Non lo so. Adesso c’è questo film.
Il film con cui Nicola Piovani è tornato a comporre per il cinema.
Credo ci pensasse da un po’, ha letto la sceneggiatura e mi ha detto che voleva tornare a fare cinema. Mi sono formato con la sua musica, già quando lavorava con De André. La sua evocazione popolare della grande ballata è quello che tiene ulteriormente insieme il senso di tutto il film.
Che funzione ha la musica in A casa tutti bene?
La musica è un incredibile pacificatore, seda gli animi. Nel film ci sono sei brani iconici: Bella senz’anima, Dieci ragazze, Azzurro, Margherita, Una carezza in un pugno e A te. Vengono tutti cantati. Unirsi in coro è una forma di riunione reale e allo stesso tempo effimera. Come la musica.
Cosa hai ascoltato stamattina, prima di venire qui?
Vasco Rossi, Senza parole.
PS. ‘A casa tutti bene’ è al cinema dal 14 febbraio. Nel servizio, che trovate sul numero in edicola, Fabrizio Cestari ha scattato per ‘Rolling Stone’ Gabriele Muccino con alcune delle attrici del suo film: Sabrina Impacciatore, Carolina Crescentini, Giulia Michelini ed Elena Cucci. Il backstage dello shooting è in testa alla pagina. Nel cast della pellicola ci sono anche: Stefano Accorsi, Piefrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Ivano Marescotti, Sandra Milo, Giampaolo Morelli, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarci Tognazzi, Tea Falco e Gianfelice Imparato.