Parlate con chiunque si guadagni da vivere analizzando i trend del futuro e tutti vi diranno che ai ragazzini dello sport comunemente inteso interessa sempre meno, e che passano tutto il giorno su Twitch a guardare gente che gioca ai videogiochi. Avete presente tutto il recente casino della Superlega? Ecco, anche quello c’entra più di qualcosa con questo discorso. Il mondo del gaming, per quanto oscuro a chi non lo segue, è una realtà sempre più importante, che muove economie reali (nel 2020 180 miliardi di euro nel mondo, un paio in Italia), e con prospettive di crescita ancora enormi.
È a questa realtà che Alessandro Redaelli, regista ventinovenne, ha deciso di dedicare il suo secondo film, Game of the Year. Si tratta ancora una volta, dopo Funeralopolis (2017), di un documentario. Il film del 2017 mostrava da vicino, senza censure e in un potente bianco e nero, la storia di due ragazzi di provincia tra punk, rap, vita quotidiana ed eroina. Questa volta ci sono invece molte linee narrative, che ci danno l’occasione di sbirciare quasi dall’interno la quotidianità di streamer, gamer, sviluppatori, youtuber e varie figure che ruotano attorno al mondo dei videogiochi, a diversi livelli di affermazione. Ne abbiamo parlato con Alessandro, mentre il film ha già vinto il Biografilm Festival 2021 di Bologna.
Questo film arriva dopo Funeralopolis, che, da osservatore esterno, direi che per essere un esordio e un documentario indipendente è stato un successo: sei d’accordo?
Decisamente. Funeralopolis è un film nato quasi per caso, un po’ come tesi di accademia, un po’ come risposta a un panorama cinematografico italiano che non permetteva (e non permette) a un ventenne di fare cinema. Avendolo girato praticamente da solo, e quindi essendo costato di fatto zero, il film ha fatto un percorso che spesso non tocca nemmeno a film ben più importanti, rimanendo in sala per mesi, e continuando a ricevere selezioni ai festival e richieste di proiezione in giro per l’Italia. Arrivare poi alla distribuzione con Twelve Entertainment, 01 Distribution e Rai Cinema è stato l’apice di un progetto che dal nulla è diventato il caso di quella stagione.
A quel punto che cosa ti ha fatto decidere che il tema della tua opera seconda sarebbe stato il mondo dei videogiochi e di alcune persone che ci ruotano intorno?
È stato un insieme di più fattori. Da una parte volevo raccontare un medium che sento a me vicino, com’è quello del videogioco, e cercare di togliergli un po’ dello stigma con cui è ancora affrontato, per lo meno in Italia. Dall’altra cercavo una sfida, un passo successivo a Funeralopolis che fosse stimolante anche da girare e da raccontare. Quale mondo più difficile da rendere cinematografico, se non quello composto da persone che passano la maggior parte del loro tempo davanti a uno schermo?
Tu che rapporto hai con quel mondo? Sei un gamer e uno streamer? Lo eri già prima di lavorare al film?
Gioco ai videogiochi da quando ho memoria. Forse prima ancora di essere un appassionato di cinema sono stato un appassionato di videogiochi. Addirittura al liceo ero fortemente indeciso se studiare per far cinema, o studiare per buttarmi in qualche modo nel mercato videoludico. Ho scelto il cinema, ma l’amore per il videogioco è rimasto. Lo streaming è arrivato mentre facevo ricerca per GOTY, ho iniziato a collaborare con un portale online che si occupa di realtà virtuale (VR Italia) per fare ricerca dall’interno, capire i meccanismi legati allo streaming, ai video, alle community. Una cosa tira l’altra, e ho finito per rimanere, scoprendo un mondo che mi era ignoto, ma che è capace di ricompensarti come poche cose riescono a fare oggi, soprattutto grazie alla velocità degli scambi con la community.
La prima differenza che salta agli occhi con Funeralopolis è uno stile diverso anche dal punto di vista della fotografia: se là era tutto molto crudo, qui lo sguardo è patinato, molto pop.
È stata una scelta dettata, ancora una volta, dalla volontà di fare un film totalmente diverso da Funeralopolis; più difficile, più pulito, che quasi non sembrasse un documentario. Di solito si cerca il documentario nel cinema di finzione, ho voluto provare a cercare la finzione nel cinema documentario. All’inizio delle riprese mi sono dato dei paletti molto specifici: girare con una sola camera, senza movimenti di macchina e mantenendo l’impostazione d’osservazione tipica del cinema a cui faccio riferimento. Inutile dire che è stato devastante, soprattutto nei contesti più popolati quali fiere, concerti e così via, ma il risultato è qualcosa che, almeno personalmente, non ho mai visto in un documentario d’osservazione. Volevamo restituire un’aria da cinema classico, da Golden Age di Hollywood, che andasse in controtendenza con l’immaginario con il quale è solitamente rappresentato il mondo del videogioco. L’approccio è stato quello di fare finta che questo medium, in realtà ancora piuttosto nuovo, ci fosse sempre stato. Come se mi stessi occupando di qualcosa di classico. Diciamo che questo modus operandi è stato l’unico possibile per ottenere quell’effetto.
Una cosa che invece i due film hanno in comune è che non è il classico documentario con la voce fuori campo o con i protagonisti che raccontano alla camera. La camera è sempre come se fosse nascosta.
Il cinema di riferimento rimane lo stesso ma, in più, avevo anche l’esigenza di allontanarmi ancora di più dal documentario tradizionale. Lo ammetto: il documentario è un genere cinematografico che non sento vicino, o almeno, non sento vicino il documentario tradizionale. È un genere che amo per la sua libertà espressiva, per le sue varianti, per le sue contraddizioni; ma sono cresciuto con il cinema di finzione, ed è quello che vado cercando anche attraverso il documentario.
Come hai fatto, trovandoti nella stessa stanza con i protagonisti, magari intenti a parlare tra di loro, anche di cose importanti per le loro vite, a far sì che si comportassero come se non ci fossi?
Quella è una semplice questione di abitudine da parte dei protagonisti. Avendo ormai un po’ di esperienza in merito, posso assicurarti con una certa sicurezza che basta stare abbastanza tempo insieme alle persone che riprendi che queste, a un certo punto, si dimenticano della tua presenza. È un po’ lo stesso concetto del reality. La gente pensa che sia tutto finto, ma in realtà chi sta dentro si dimentica davvero, il più delle volte, della presenza della camera, e si vive semplicemente la sua vita. Ovviamente c’è bisogno di fare un lavoro a priori a camere spente, creando una connessione con le persone a prescindere dal film, cercando di capire anche – banalmente – dove una storia potrebbe andare a parare.
Con quali criteri hai scelto chi sarebbero stati i protagonisti, in un mondo molto vasto?
Tanta ricerca: alle fiere, su Twitch, su YouTube. Siamo andati a intercettare gran parte dei protagonisti del settore, cercando di capire che storia avrebbero potuto raccontare, anche semplicemente con la loro presenza in scena. Alla fine abbiamo scelto due facce della stessa medaglia per ogni argomento: streaming, sviluppo, export, e così via. È stato un lungo processo, che ci ha portato a riprendere inizialmente una ventina di storie, per poi chiudere il film con soltanto otto linee, ma è stato fondamentale per arrivare ad avere una consapevolezza del mondo di riferimento a trecentosessanta gradi.
Com’è stato passare dal seguire fondamentalmente due persone e due storie a seguirne molte di più?
Come si dice? “Bello, ma non lo rifarei”. Approcciarsi a decine di linee narrative diverse, correndo nel giro di un mese da Milano a Roma, fino a Berlino e Kiev, è stato un processo complesso e doloroso, che ha richiesto oltretutto tre anni pieni di lavoro. Se ripenso a come abbiamo realizzato questo film, le notti insonni sui treni, le giornate di lavoro da diciotto ore, e così via, capisco perché non esiste niente di analogo nel panorama del documentario nazionale. Rimanere su due personaggi, che tra l’altro vivono vicino a dove vivi tu, ti permette di concentrarti molto di più, di rimanere centrato sul discorso. Quando le linee sono venti devi riuscire, magari all’interno di una stessa giornata, a ragionare come stessi facendo due, tre, quattro film differenti allo stesso tempo.
Una cosa che mi ha colpito è che tutti i protagonisti sembrano gente che “ci sta provando”. È per via delle persone che hai scelto?
Definiamo GOTY come un film sui videogiochi, ma in realtà è un film sulla nostra generazione. I protagonisti del film sono legati in qualche modo al medium raccontato, ma il percorso che stanno facendo nel mondo è lo stesso che sto facendo io, che stai facendo tu, che sta facendo chiunque cerchi di raccontare qualcosa del mondo. Non è tanto il videogioco, quanto il percorso che porterà i protagonisti al successo o al fallimento, al primo posto o all’ultimo, in una continua ricerca del contatto col pubblico, o dell’esposizione mediatica più in generale. Credo che, proprio per questo, anche chi non conosce il mondo dei videogiochi può serenamente rivedersi dentro alcuni dei personaggi.
Sappiamo che è un mondo dove girano molti soldi e dove è possibile avere molto successo, ma anche quelli che pure hanno fan che gli chiedono le foto non sembrano fare esattamente la vita di Sfera Ebbasta. È perché è comunque una nicchia? O per carattere, o per quali altri motivi?
Questa è una bella osservazione. Il mondo del gaming e il mondo del rap in realtà sono abbastanza agli opposti. Da una parte c’è un mondo che ha – generalmente – un senti-mento di rivalsa verso il mondo esterno, che tende a esteriorizzare e dichiarare i propri successi, i propri guadagni, e così via, anche per via di personalità molto estroverse. Da questa parte abbiamo invece persone che – anche qui, generalizzando un po’ – preferiscono spesso la riservatezza, il contatto online, e così via. Credo che nessuno dei due modi di vivere il successo sia sbagliato, e tutto dipende banalmente dal proprio background. Anche perché quando si parla di guadagni tra big, la differenza non è poi molta tra uno streamer di successo e un rapper italiano molto conosciuto.
Uno dei momenti più narrativi del film è quello in cui, nel finale, uno dei protagonisti partecipa a un torneo importante. Non spoilererò come va a finire, ma se fosse andata diversamente sarebbe stato un altro film? Era un rischio calcolato?
Era un rischio, tanto che mentre giravamo con una parte di testa pensavamo al film, con l’altra parte facevamo un gran tifo per lui. Durante il film sono successe tante cose che potevano andare diversamente; sia in meglio, che in peggio, ma il trucco in questo caso è continuare a girare, fino a quando non succede qualcosa che riconosci come importante. Vorrei dire che ci è andata semplicemente bene, ma la verità è che su più di cento giorni di riprese era inevitabile che succedesse qualcosa di grosso. La fortuna, a volte, bisogna andare semplicemente a cercarsela.
Il film è stato presentato al Biografilm Festival, dove ha vinto, e poi è stato qualche giorno visibile in streaming su MyMovies: quale sarà ora la sua strada? Altri festival, altre possibilità di stream?
Stiamo valutando la partecipazione ad altri festival di cinema, soprattutto fuori dall’Italia, e poi stiamo ricevendo qualche offerta di distribuzione. A sentimento, ti direi che il film potrebbe uscire definitivamente entro fine anno, ma con il cinema di questo tipo è sempre un terno al lotto. Dalla mia, spero che più persone possibili possano vederlo, anche perché è un tema che merita l’attenzione del grande pubblico.
Si dice che il secondo album sia sempre il più difficile nella carriera di un artista: per ora nella tua esperienza il secondo film è il più difficile in quella di un regista?
Di gran lunga. Il primo film, a volte, può uscirti bene per puro caso, o perché semplicemente sei riuscito a dar sfogo a venti e più anni di idee accumulate. Il secondo è tutta un’altra storia: hai meno tempo per pensarci, più aspettative da parte del pubblico, e più dubbi in merito alla direzione che deve prendere il tuo cinema. GOTY non è stato solo più difficile di Funeralopolis per quanto riguarda l’elemento più spiccatamente tecnico, ma lo è stato davvero da ogni singolo punto di vista. Vorrei dirti che ho bisogno di una pausa, ma in realtà ho in lavorazione altri cinque progetti. E poi dicono che i videogiochi creano dipendenza.