«Ma è vero che hai iniziato come prestigiatore?». «Sì, a 12 anni. Ho fatto l’esame per il Club Magico Italiano, sono entrato a scuola, ho studiato». «E sai farlo ancora?». «Ho un po’ perso la mano. Ma quando faccio degli spettacoli o dei reading, ci inserisco ancora dentro un paio di giochi con il pubblico. Ero piccolo ma conoscevo parecchi trucchi». «Eri piccolo ma sognavi di fare il prestigiatore o l’attore?». «Sognavo proprio di diventare prestigiatore. Ma non uno qualunque: volevo essere il più grande. E invece mi ritrovavo a fa’ solo le comunioni».
Eccolo. Intrattenitore e illusionista, per natura e per mestiere. Basta parlarci per capire che misurare una pausa e piazzare una battuta fa parte di tutta la sua narrativa. Un napoletano cresciuto con il cinema americano: chest’è. Uno che non ha mai mollato né Coliandro né la commedia, che vede Napoli come New York. Giampaolo Morelli: abilissimo prestigiatore anche oggi, in realtà.
Così la sua presenza in Maledetta primavera di Elisa Amoruso, dramma esistenziale e femminile ispirato alla storia famigliare della regista, ha un peso inatteso. Enzo, il personaggio, e Giampaolo, l’attore, portano leggerezza anziché rispettare il tipico dress code del dramma. Escono insieme dallo schema dell’autorialità monocromatica (amen), ma anche di certi ruoli pensati solo per certi attori. Per capirci: Morelli è un nome da commedia ma questa non è una commedia. Ecco perché si tira dietro un’energia a più dimensioni e il suo è un padre che confonde, un padre che seguiresti nonostante tutto. È un personaggio inafferrabile ma vero. Enzo, come Morelli.
In Maledetta primavera hai un ruolo da non protagonista che però pesa molto. Di fatto stavi interpretando i ricordi della regista e la sua visione del padre.
Enzo è poco risolto, problematico, ma anche innamorato della famiglia e dei figli. Lui è sinceramente innamorato di loro. Ma è anche pieno di vuoti che colma con questo entusiasmo verso gli affari, cambiandosi la macchina, uscendo con gli amici. Questa è una storia che ti racconta quanto siano complessi gli equilibri famigliari, nonostante l’amore. Molte volte solo un amore sincero non basta, ci vuole maturità per non mettere a repentaglio la serenità di un’intera famiglia con l’umore di una sola persona.
Non si rischia mai di giudicarlo, un padre così?
Io di base do sempre ragione al mio personaggio. Cerco di stare dalla sua parte, di capire le sue motivazioni. Non lo giudico mai. Provo a pensare ai suoi problemi, alle sue lacune. E alle mancanze che lo hanno portato a reagire anche facendo male agli altri.
Maledetta primavera è a tutti gli effetti “un film d’autore” in cui tu subentri con un personaggio sopra le righe. Quindi non bisogna essere solo cupi e drammatici per raccontare tematiche forti?
Ecco: perché bisogna dipingere sempre i personaggi in maniera bidimensionale? La profondità dei contrasti è reale. È bello, sì, che quest’uomo disordinato abbia anche una sua luce, un’ironia e un modo di giocare che ispirano la figlia. È comunque un padre che le dice “non farti inibire, suona dove ti capita”, che vuole condividere, che è capace di dare anche grande amore e di ricreare un cielo stellato dentro una cameretta. L’energia che porta nella sua famiglia nasce proprio dal suo essere fuori dagli schemi. Sono i pro e i contro di avere accanto un padre così, come punto di riferimento. E le figlie lo dicono: “Se mamma e papà si separano, io vado con papà”. Così è la vita: spesso non sai neanche più giudicarla. Perché poi tuo padre inevitabilmente è un punto di riferimento, come ti capita ti capita.
Ho scoperto che molti attori guardano pochi film, li girano e basta. È vero che tu sei un cinefilo?
Io ho divorato tantissimo cinema. Oggi con due bimbi piccoli divoro soprattutto cartoni animati, come capita a tutti. Ma mi piacciono pure i supereroi, qualche giorno fa ho usato come reference una scena di Venom. Guardo di tutto. Mi piace anche il cinema autoriale, non sono snob.
Tempo fa hai definito i Manetti Bros. “i più tarantiniani e folli registi d’Italia”. Lavorate insieme da anni, tu hai anche collaborato alle loro sceneggiature, mentre loro vedono in te una sorta di attore-musa. Quanto è stato importante poter sperimentare con loro?
Quando abbiamo girato Song’e Napule, partendo da una mia idea di scrittura, avrei dovuto interpretare il poliziotto. Stavamo già avviando i casting per trovare i neomelodici, quando rileggendo la sceneggiatura ho detto: “Ma lo devo fa’ io il neomelodico”. Loro, folli come me, ovviamente se lo sono chiesti: “Ma che cazzo c’entra?”, però mi hanno risposto: “Vuoi fare il neomelodico? E vabbè”. Ecco, questa è una fiducia che non trovi in giro facilmente. Loro hanno una visione del cinema simile alla mia, se ne fregano di tutto, conta solo girare la loro storia. Con o senza mezzi. Io credo molto nelle persone che lavorano sempre insieme, e noi ci siamo arricchiti reciprocamente.
E intanto Coliandro va avanti da anni. Spesso con i progetti così longevi subentra un rapporto d’amore e odio, è capitato anche a te?
Io c’ho solo tanto amore per Coliandro. Posso avere in alcuni periodi una grande stanchezza, perché è faticosissimo, ma è sempre amore.
E non ti è mai andato a noia. Come te lo spieghi?
Coliandro ha avuto una vita travagliata e ce l’ha tuttora. Non è inquadrabile nella classica fiction e all’inizio non è stato pienamente capito. È rimasto due anni e mezzo in un cassetto prima di essere messo in onda, poi è stato sospeso per altri sei anni. Ma è proprio come il personaggio: nonostante tutte le botte che gli hanno dato per ammazzarlo, Coliandro is not dead. Sta sempre là, si rialza. Non lo inculi mai. Lo puoi scrivere questo?
Lo scrivo. Io credo ci siano state almeno due svolte importanti nella tua carriera, vediamo se sei d’accordo: per te qual è stata la prima?
Credimi, dall’esterno è difficile dirlo. Io vedo un percorso non lineare, ma è chiaro che Coliandro è stato un momento importante della mia carriera. Tu cos’altro vedi?
Anch’io vedo sicuramente Coliandro: la consacrazione del pubblico.
Per fortuna. La verità è che ho fatto pochissimo prima di Coliandro. Solo South Kensington (di Carlo Vanzina, 2001, nda) ha avuto successo nel tempo, con il passaparola. Oggi le persone ancora mi ripetono le battute a distanza di vent’anni. È stato il mio primo film in assoluto.
La seconda svolta, invece, credo sia arrivata recentemente con il tuo esordio alla regia. Sei in una nuova fase della tua carriera?
Mi fa piacere che tu la veda come una svolta. Per me è ancora un terreno impossibile da giudicare, non so bene cosa sono come regista e non riesco ancora a scinderlo dal mio essere attore. Ci sto troppo dentro. Sicuramente è una voglia di raccontare delle storie a modo mio. Ma perché se ne possa parlare ho bisogno di girare tre o quattro film, va’.
“Raccontare storie a modo mio”: qual è il tuo modo?
Stando sempre dalla parte del pubblico. Ricercando la precisione in quello che è il genere che mi piace, la commedia. Provando soprattutto a curare la storia, l’arco narrativo dei personaggi, e poi evitando inutili sbavature e restando concentrato sull’intrattenimento per un pubblico largo. Questo è un rischio: più allarghi il target e più potresti abbassare il livello. Credo. Mi fai parlare di un terreno che ancora sto sperimentando, magari poi cambio rotta. So che mi piacciono il gusto e l’intrattenimento e non è una cosa facile.
Però 7 ore per farti innamorare, il tuo primo film da regista, è piaciuto.
È piaciuto. Ma non tutti i tuoi colleghi comprendono la tensione di quell’equilibrio.
La stampa predilige i film da festival, i drammi sociali e famigliari.
Alcuni sono bellissimi. Ma altre volte si rischia di confondere dei fuori fuoco e degli errori di scrittura come “autorialità”. E invece è sciatteria o debolezza narrativa.
Tra l’altro la commedia d’autore esiste. È stata anche un nostro cavallo di battaglia.
Appunto.
Penso che dal tuo esordio alla regia emergano due aspetti interessanti: l’attenzione al ritmo interno della storia e il gusto per il look del film. Da dove arrivano?
Il mio background, come attore e ora come regista, è misto. Sono nato nel boom del cinema americano che preferisco, quello degli anni Ottanta e Novanta, prima del filone dei remake. E poi sono inevitabilmente napoletano. Sono cresciuto consumando le VHS degli spettacoli teatrali di Eduardo De Filippo, è chiaro che dentro di me queste due culture si fondano. Che poi la nostra cultura è anche quella del cinema americano, ma adesso sembra che non sia mai arrivato in Italia, che neanche ci abbia sfiorati. Invece è ovunque, nel cibo, nella musica, nei film: perché facciamo finta che non esista?
Tu sei uno di quelli – cosa rara – che piacciono agli uomini per la simpatia, alle donne di qualsiasi età, e tanto al cinema quanto alla tv. Ma non è sempre stato così.
Io ne ho avuti di momenti in cui Coliandro mi toglieva delle possibilità. Ma sapevo che era solo da superare una reticenza iniziale. Il paradosso è che per la Rai ero “troppo Coliandro” e pure per il cinema ero “troppo Coliandro”, ma nello stesso tempo non ero neanche Coliandro, perché era stato sospeso. Capisci? Una chiusura su ogni fronte.
Però?
Però mi sono rimesso in gioco umilmente, partendo da zero, tornando a fare i provini, recitando in piccoli ruoli. Ho dovuto ricominciare da capo. Ma neanche questo mi ha fatto odiare Coliandro. “Tu sei quello della fiction”: ok, ma quando è diventato più popolare hanno capito che c’era altro, compreso il personaggio e il modo di interpretarlo. Alcuni sono partiti dal cinema, io sono partito da Coliandro per ottenere i miei personaggi anche al cinema. E sapevo che non poteva bloccarmi in nessun modo, era soltanto un misunderstanding che ho dovuto scalfire con fatica.
Adesso, dopo vent’anni di carriera, hai il privilegio di poter scegliere i ruoli?
Assolutamente. Ma soprattutto ho il privilegio di starmene anche a casa, che è la cosa più bella del mondo. Ti riposi, ché questo è un lavoro troppo stancante. Puoi scegliere il progetto ma anche di stare fermo.
E di affrontare la popolarità come un mestiere, e niente più. Sembra tu abbia adottato una grande autodisciplina: sei moderatamente social, sei riservato, rilasci interviste scegliendo bene cosa dire e senza concedere troppo. È un gioco di prestigio o un modo per preservarti?
Mi viene istintiva una sorta di riservatezza. Cerco di essere sempre sincero nelle risposte ma mi apro poco sui punti di vista intimi. Non dico cose che non penso ma non mi lascio neanche andare. Quel momento poi arriva, ma quando arriva è ’na valanga. Se apro quelle porte lì, ci mettiamo a scrivere per ore. Forse morirò senza aprirle. Oppure le aprirò e diventerà un’altra storia.