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Giorgio Quarzo Guarascio, a cercar il bell’amore

Tutti Fenomeni, questo il suo nome da cantautore-rapper (di culto), esordisce come attore in ‘Enea’ di Pietro Castellitto. L’incontro con l’attore-regista grazie a Niccolò Contessa, il “privilegio raro” di recitare, i pariolini e Renato Zero. E un bisogno che forse è un’illusione: «Sono completamente in cerca dell’amore»

Foto: Vision Distribution

Non si presenta all’intervista, nessuno sa che fine abbia fatto. Mi richiama con un’ora di ritardo e una scusa pigra: «Perdonami, avevo il silenzioso». Vorrei chiedergli se aveva il silenzioso anche all’orologio, ma mi trattengo: mi piace troppo la sua musica e mi ha sorpreso nel nuovo film di Pietro Castellitto, Enea. Entrerà almeno quattro volte in ascensore, puntualmente cadrà la linea e lui richiamerà scusandosi con modi monteverdiani oppure facendo un po’ di show: «Eccomi, da adesso nessuno ci potrà più separare». Bugia: arriverà perfino Benedetta Porcaroli a chiedergli un deodorante. Sta mettendo alla prova la mia pazienza, che meraviglia, finalmente un po’ di pepe. Si vede che lo hanno allevato le discografiche e non l’industria cinema, ha l’allure inconfondibile del “cazzomene”. Che è pure l’allure del suo quartiere, Monteverde, appunto. «Sono nato, cresciuto, e ho preventivato di morire a Roma». «Quindi dove hai nascosto il tuo dialetto, e perché lo nascondi?». «In verità non lo so, ho sempre avuto questo snobismo verso l’accento romano. Per farmi perdonare gli ho dedicato una canzone, A Roma va così. Però più passano gli anni e più sento questa città come casa mia, nella maniera più assoluta possibile, visceralmente casa. Anche questo credo mi possa accomunare a Pietro».

Giorgio Quarzo Guarascio in arte Tutti Fenomeni (una provocazione o un’ammissione di colpa?) è il genere di personalità a cui perdoni tutto, e scommetto che lui lo sa. Mi racconta che Castellitto l’ha scelto «per come parlava». Castellitto aveva ragione. Scopro presto che è abituato a farsi corteggiare, non a rincorrere. Basti pensare che le due grandi occasioni della sua carriera gli sono piovute addosso: prima lo ha cercato Niccolò Contessa, poi Pietro. Uno per produrlo e «insegnargli come si fa la musica», l’altro per offrirgli un ruolo da co-protagonista nel suo secondo film, presentato come un gangster movie senza la parte gangster. A Roma (Nord) va così, è il fascino del pendolo che oscilla tra il privilegio e la noia dell’alta borghesia. E questa è una storia qualunque su tre giovani tutt’altro che qualunque, che sfidano la morte credendosi degli eroi. Manichei per vocazione, atteggiati a fenomeni. Tutto torna. Come tra Giorgio e Pietro, che si sono annusati prima di trovarsi davvero: «Sentivo, per difesa, di dover essere più bravo di lui. Ma più passava il tempo e più saliva una sensazione di similitudine con questo ragazzo, tanto da dirmi: “O si fa qualcosa insieme, oppure lo odio”». Uno ha fatto il Vietnam, l’altro ha militato nella trap. Piccoli geni della provocazione, a metterli insieme è stato Niccolò Contessa. E anche lui aveva ragione: adesso rischiano di diventare inseparabili, o forse è già successo. «Lo difenderò sempre», tuona Giorgio, che a Pietro non perdona solo una cosa: Marina.

Per Il Foglio sei “un trapper colto ma anti-intellettualista”. Secondo te che significa?
(Ride) Non lo so, però Il Foglio ha delle buone penne. Potrei rubargli qualche proposizione, ma il discorso completo non l’ho mai capito. Come credo di non essermi mai capito completamente neanche io.

Per Rolling Stone sei “il più intellettuale degli indie e il più indie degli intellettuali”. Qui che mi dici?
Che non ho mai capito neanche questo, ma è un titolo che acchiappa bene e quella fu una grande intervista. Feci i complimenti al tuo collega.

Giovanni De Stefano, gli hai detto che forse è stata la miglior intervista della tua vita.
Ero sincero. Peraltro ero in una situazione simile alla nostra: avevo dimenticato di rispondere alla chiamata, ero in una galleria d’arte a Firenze con mille persone intorno, però abbiamo comunque parlato per un’ora.

Quindi è sempre così? Prima ci metti alla prova e poi ci conquisti.
Esatto. Ma in quell’occasione avevo appena fatto uscire nuova musica, ero pieno di cose fresche da dire. Stavolta sto vivendo un’esperienza meravigliosa, ma il binario è meno definito. Possiamo parlare di mille aneddoti, se vuoi, ma ho poca ciccia perché il film non è mio. Allo stesso tempo questa nuova cosa mi emoziona, mi tocca personalmente e mi rende teso come se fosse mia.

Il film lo apri tu, con una battuta-manifesto che ti calza perfettamente addosso: “Vedo la gente che è rotta dentro”.
Sì. E devo dire che quella scena non è stata per niente facile. Non so come spiegartelo, ma la cosa più difficile è stata ripetere il nome della madre alla fine di ogni sentenza. “Marina, Marina, Marina”. Una cosa che calzava con il ceto e con quello che si voleva comunicare, ma che io un po’ detesto nella vita reale.

Quanto volevi farlo questo film? Hai scritto di averla data per molto meno.
(Ride) Sì, l’ho scritto. Diciamo che qui sopraggiungono due cose distinte. La prima è forse narcisistica o di vanità: la lusinga del grande schermo, che può toccare un po’ tutti. Sarebbe stato da maestro zen illuminato avere il coraggio di dire: “No, non lo voglio fare”.

Vuol dire che ti è stato chiesto?
Sì, Pietro Castellitto mi ha cercato. Mi ha detto che aveva ascoltato la mia musica e letto delle mie interviste, che gli piaceva come parlavo, il mio vocabolario. Non so bene i motivi per cui mi scelse. Non sapeva che, sotto sotto, io nutrissi un piccolo desiderio di recitare, senza averlo mai detto a nessuno. Così ha usato Niccolò Contessa per entrare nella mia vita.

È una battuta?
No, il fatto è questo: io so benissimo da tutta la vita chi è Sergio Castellitto. Ma sono venuto a conoscenza del fatto che Sergio Castellitto avesse un figlio di qualche anno più grande di me, un giovane regista, grazie a Niccolò Contessa. L’enorme musicista che stava producendo il mio primo album a un certo punto mise in stand-by il lavoro dicendomi: “Devo fare la colonna sonora del film di Pietro Castellitto, ci rivediamo tra un mese, ciao”.

E tu l’avrai presa benissimo.
Mi andò direttamente sulle palle. Poi, piano piano, ho scoperto degli altri piccoli tratti formali di questo Pietro Castellitto. Sono venuto a sapere che anche un mio caro amico stava lavorando su questo film – che poi si chiamerà I predatori – e mi raccontò che nel film Pietro andava a mettere una bomba sulla tomba di Nietzsche. Una cosa che ritenevo molto vicina al mio immaginario. Più passava il tempo e più saliva una sensazione di similitudine con questo ragazzo, tanto da dirmi: “O si fa qualcosa insieme, oppure lo odio”.

Giorgio Quarzo Guarascio con Pietro Castellitto in una scena del film. Foto: Vision Distribution

Quindi come ti ha agganciato?
Con la tomba di Nietzsche, ma lui ancora non lo sapeva. Poi fece uscire il suo primo libro, Gli iperborei, e Contessa mi inviò una foto in cui, a pagina tal dei tali, Pietro Castellitto mi citava: il protagonista del romanzo ascoltava una mia canzone. “Sta per succedere qualcosa tra noi”, pensavo. Di lì a poco lui chiese a Contessa di incontrarci per propormi di lavorare nel suo nuovo film. Pensavo volesse inserire una canzone, un piccolo cameo. Già da quel primo pranzo insieme ci fu una grande intesa.

Lui ha fatto il Vietnam, tu hai militato nella trap. I due background dove si incontrano?
Pensa che la questione del Vietnam scoppiò il giorno in cui eravamo a pranzo insieme. Io uso poco i social ma sto in fissa con Twitter, da fruitore passivo. Quel giorno fu rimpallata quella sua intervista, uscita da tempo ma senza aver sortito nessuna indignazione nazionale. Gli feci notare che la cosa stava diventando più grande di quello che pensava. Il nostro background è diverso, lui è effettivamente del Vietnam mentre io sono di Monteverde, un po’ elitaria ma niente a che vedere. A congiungerci è forse una grande ironia e un grande rispetto verso l’educazione che ci hanno dato i nostri genitori.

Aggiungerei anche il modo in cui usate le parole, come armi e come scudi.
Sì. Lessi la sceneggiatura d’un fiato e gli dissi: “Minchia, tu scrivi veramente bene. Non me l’aspettavo”.

Quindi ti è piaciuto anche il suo libro?
Molto.

Solo perché ti ha citato?
(Ride) Be’, ti ripeto: nasco un po’ adulato da questa persona. Avevo del risentimento per colpa di Contessa, che mi aveva abbandonato un mese, però sentivo una grande affinità con Pietro. E poi c’era la storia della tomba di Nietzsche, però lui aveva fatto Totti e io sono un tifoso della Lazio. Sentivo, per difesa, di dover essere più bravo di lui. Ma alla fine, il pacchetto completo è che Pietro è davvero un talento, è un genio ironico. Però ho dovuto guardare tutto l’insieme per apprezzare i dettagli.

Enea racconta “un lieto fine e una lieta morte”. Concetto che mi fa pensare a una tua canzone, Privilegio raro, in cui parli della “morte che si sconta vivendo”.
Sì, brava. Pietro è un creativo: forse sbagliando, ma qualcosa la inventa. Io invece non mi sono mai inventato niente: “la morte si sconta vivendo” è una frase di Ungaretti.

La tua passione per i poeti.
Esatto, il mio interesse letterario… aspetta, il citofono. Rispondo un attimo e dico che sto scendendo (qualche secondo di caos al citofono, al telefono, ovunque, nda). Eccomi, scusa, se non ti dà noia continuiamo. Era Benedetta Porcaroli, mi ha chiesto un deodorante. Gliene porto uno alla lavanda, succo di aloe vera e allume di rocca.

Fai pure. La storia del lieto fine sta diventando solo una lieta morte.
(Ride) Dicevo che molto dipende dalla nostra eredità familiare, questo credo. Mio padre è calabrese, professore universitario arrivato a Roma a diciott’anni, una persona colta. Mi ha fatto fare teatro fin da piccolo e mi ha fatto leggere tantissima poesia. La madre di Pietro è una scrittrice con una cultura immensa, poi c’è Sergio ma anche il nonno di Pietro, Carlo Mazzantini, che ha scritto un libro che si chiama A cercar la bella morte, frase che peraltro io cito in una mia canzone, Infinite volte (“Già infinite volte / Mi cercasti, bella morte”, nda).

Ci credi ancora in questo verso?
(Pausa) Sì. Ci credo ancora. Ma non so se ci credo ancora veramente. In realtà più passano gli anni e più apprezzo la vita e l’amicizia. Questi sono i veri valori. Il resto sono provocazioni, e forse anche modi per espiarla, la morte. La morte a me fa paura. Però mi fa paura anche la vita.

Parallelismi: Castellitto regista, Contessa produttore e molte altre cose. Nel mezzo tu.
Ti racconto la cosa: gli approcci sono diversi come le due discipline. Contessa è una persona a cui devo tutto. Mi ha preso quando ero grezzissimo, mi ha dato una disciplina e mi ha messo su un binario: “Per fare la musica, si fa così”. Ma per quanto sia il mio mentore, per quanto lui abbia la sapienza nelle mani e la discriminante di far andare bene o male un album, sono io a fare la regia del mio progetto. E io non sono un cantante per vocazione, sono un paroliere che si presta a cantare. Mentre con Pietro i giochi sono diversi: quello è il suo film, il suo monolite, il suo universo in cui mi ha offerto il privilegio di partecipare. Io l’ho influenzato dal basso, guadagnandomi la sua fiducia. Le canzoni si possono scrivere in dieci minuti e realizzare in mezz’ora, mentre un film è un sistema complesso, da solo non riusciresti a fare nulla. Tocca fare un complimento a Pietro, che è stato audace e coraggioso.

Curiosità: prima di iniziare a lavorare con Contessa, qual era il pezzo dei Cani che consumavi di più?
Sembrerà tremendo, ma io conoscevo una sola canzone dei Cani: I pariolini di 18 anni. E ci stavo davvero in fissa. La vera similitudine tra Castellitto e Contessa è che entrambi mi hanno cercato. Io non sapevo di volere qualcosa da loro.

Quanto è snob farsi cercare da Niccolò Contessa?
Minchia. Si è fatto un profilo Instagram soltanto per scrivermi. Una settimana prima avevo casualmente pubblicato una foto di quando ero più piccolo, vestito in abito elegante, con scritto proprio “i pariolini di 18 anni”. Quello lo convinse a scrivermi, perché non era ancora sicuro di volerlo fare. Dopodiché i suoi dischi me li sono squagliati, Perdona e dimentica mi faceva impazzire (inizia a canticchiarla, nda)… “Vergognati, non dei soldi che hai, ma di quanto li hai spesi male”.

C’è un dialogo molto bello nel film, tra Enea e il boss (interpretato da Adamo Dionisi) che gli dice: “Per diventare uomini ci vogliono le occhiaie, per diventare vecchi ci vuole l’amore”. Per te questa è la fase delle occhiaie o dell’amore?
In questo momento ti assicuro che sono completamente in cerca dell’amore. Non so se è un’illusione, ma sento di aver perso una persona importante. Per colpa mia e per colpa dei tempi sbagliati in cui ci siamo conosciuti. Quindi è un po’ che tribolo. Mi piace conoscere persone speciali e non so se questo è amore. Con Pietro e Benedetta c’è amore. Voglio persone speciali nella mia vita: è una pretesa lecita, secondo te?

Non so se è lecita, però la conosco bene. È vero che la stanchezza ci rende adulti e l’amore ci fa invecchiare?
Io sento di essere invecchiato per amore. Ma non ho amato abbastanza il mio vero amore, non ho amato abbastanza chi mi amava.

Perché?
Non lo so. Perché so’ stronzo?

Magari questa persona leggerà questa intervista. Quando hai girato la scena al piano in cui canti Spiagge di Renato Zero incorniciato da un collier di cocktail abbandonati…
Perdonaci, Renato. Pietro era convinto, invece a me quei cocktail non convincevano per niente. Visti dall’occhio non poetico di chi sta girando il film, tra set designer, scotch e bestemmie, l’atmosfera non mi sembrava così magica. E invece poi lo era. Vedi, la visione del regista…

Giorgio Quarzo Guarascio è Valentino in ‘Enea’ di Pietro Castellitto. Foto: Vision Distribution

Ecco, Spiagge per te era il cuore del conflitto: ha vinto l’ansia dell’attore o del cantante? Stavi interpretando la scena o il brano?
Brava. Tu mi hai proposto la domanda sulla scena del pianoforte, e io lì non ho avuto ansia. Eravamo su una terrazza con una vista bellissima, ero con la troupe e i miei nuovi amici del set. Lì, per la prima volta, sono stato un attore che doveva cantare. Era più importante emozionare che cantare bene. Ma il momento più difficile e imbarazzante è stato durante la scena della discoteca, al Sanctuary di Roma. Davanti avevo quattrocento comparse incazzate nere, non ce la facevano più a stare lì, e invece quella è una canzone intima. Così ha vinto l’ansia del cantante che non voleva sembrare un coglione. Non volevo pensassero: “Già è fortunato che sta facendo l’attore, e poi neanche sa cantare”.

E direi che ci siamo: Tutti Fenomeni debutta in un film sulla decadenza di una generazione o di una classe sociale, dove il più grande errore dei protagonisti è quello di credersi dei fenomeni. Diranno che a voler fare il fenomeno, adesso, sei tu?
Potrebbe succedere. E io accetterei. Perché quando si diventa un clan e si schiacciano anche i sassi per raggiungere l’obiettivo comune, per flirtare con il film ti dirò che questo progetto lo difenderò fino alla morte. La persona che lo ha ideato è talmente speciale che io starò sempre dalla sua parte.

Conosco un tipo che canta che “non c’è niente di teatrale nel superamento del copione”.
Che tipaccio.

Lo hai superato il copione?
Sì, l’ho superato. Ed è stato bello e sorprendente. È stato Pietro il primo a superarlo. Si è preso le sue libertà e ha concesso anche a me la grandissima libertà di andare oltre il copione. A parte quel “Marina” che dovevo dire per forza.

Non penso supererai la storia di Marina. Chiudiamo come i bambini: ricordi il gioco del letto di spine? Domani sei in studio con Contessa, ti chiama Castellitto e ti chiede di mollarlo per andare a girare un altro film. Che fai?
(Fa una pausa, respira, credo debba pensarci seriamente) Forse li intorto entrambi e riesco a fare tutte e due le cose. Pietro accetterebbe di sicuro, perché vuole che io faccia altra musica. Magari Niccolò verrebbe con noi? Non credo. Il Maestro lo sposti difficilmente.

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