Giovanni Tortorici e ‘Diciannove’, la voce matta e disperatissima che ci mancava | Rolling Stone Italia
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Giovanni Tortorici e ‘Diciannove’, la voce matta e disperatissima che ci mancava

Presentato a Venezia 81, arriva nelle sale l’ottimo esordio (prodotto da Luca Guadagnino) di un regista che porta il suo sguardo laterale su una storia insieme personalissima e universale. Lo abbiamo incontrato

Giovanni Tortorici e ‘Diciannove’, la voce matta e disperatissima che ci mancava

Giovanni Tortorici sul set di ‘Diciannove’ con, sulla destra, il protagonista Manfredi Marini

Foto: Fandango

Diciannove è un esordio ruvido, punk, leggero, profondissimo. L’ha scritto e diretto Giovanni Tortorici (e prodotto, tra gli altri, Luca Guadagnino). Era a Venezia 81, sezione Orizzonti, e il 27 febbraio esce al cinema con Fandango. Dentro c’è molto del suo autore, 28 anni da Palermo, e del suo sguardo laterale e centralissimo.

Giovanni Tortorici – studi letterari, poi Scuola Holden, quindi assistente di Guadagnino sui set di We Are Who We Are e Bones and All – è, in questa traslazione immaginifica ma non troppo, Leonardo (bravissimo l’esordiente Manfredi Marini), un ragazzo palermitano che, dopo un passaggio a Londra dove vive la sorella, va a studiare Lettere a Siena. Odia le sue coinquiline, non esce dalla sua stanza (la stessa di Tortorici quando 19 anni li aveva lui), passa il tempo tra pasti bruciati su un fornelletto elettrico, mele che marciscono, e soprattutto le sue sudate carte, i libri antichi del suo studio matto e disperatissimo, i poeti trecenteschi, Piero Giordani, padre Daniello Bartoli.

Una letteratura dimenticata, oggi laterale anch’essa, che diventa il mondo snobisticamente e appassionatamente vivo di Leonardo, mentre il mondo di fuori lo attrae e lo respinge, i professori e i compagni di università sono conformisticamente poco interessanti, l’esplorazione della sessualità sempre trattenuta, a un certo punto c’è una gita a Milano che lo affaccia alla contemporaneità – la discoteca, la trap – da cui subito però scappa via. C’è un sacco di passato in Diciannove, che però non è mai un film passatista, men che meno nostalgico. È qui, adesso, è una voce nuova, che squisitezza.

E una voce rinfrescante: che bello vedere, fra i pur interessanti esordi però sempre romani – o meglio, “Pignetani” – che ci capitano davanti, qualcuno che porta uno sguardo nuovo, da “fuori”.
Devo dirti che qualche volta mi è passato per la testa: chissà come sarebbe stato essere un esordiente romano. E mi sono detto che forse sarebbe stato anche più difficile. Perciò ho pensato con contentezza di essere palermitano, di avere un background, un immaginario un po’ diverso rispetto a quello a cui si è abituati.

Uno sguardo anche da provinciale, inteso con la nobiltà dei provinciali di una volta: mi sono venuti in mente Bianciardi, Tondelli…
È interessante questo discorso della provincialità, o sei vuoi del provincialismo, perché Palermo è comunque la quinta città in Italia, credo. Che poi, in senso relativo, tutto può essere considerato provinciale, anche Roma, e tutta l’Italia. Quindi da un certo punto di vista sì, c’è qualcosa di provinciale, ma insieme c’è anche il venire da una città che è non è molto rappresentata a livello mediatico se non attraverso le solite cose, la criminalità, la mafia, ma che è comunque una realtà importante, con tutti i suoi particolarismi.

Anche lo sguardo nel tuo film è profondamente “particolare”.
Sono contento che si veda, e torno alla fortuna di avere questa provenienza. L’altra, prima di questo film, è stata partecipare a un cinema con uno sbocco internazionale, senza entrare in quei giri un po’ piccoli del cinema romano… e lo dico, credimi, senza snobismo.

Manfredi Marini è Leonardo. Foto: Fandango

Torniamo al particolare. Più dell’autobiografia in senso stretto presente in Diciannove, mi interessa la sua rielaborazione d’autore.
È stato un po’ come se il me di oggi – o di due anni fa, quando ho scritto il film – si trovasse a psicanalizzare il me di 19 anni. Sono sempre stato molto legato all’autobiografismo in generale, molti dei miei libri preferiti erano autobiografie. E poi mettendomi a scrivere ho notato che, nel momento in cui parlavo di cose mie, c’era come una schiettezza, un mettere da parte la retorica, la finzione, ed era una cosa che mi aggradava molto. E poi ti dicevo della psicanalisi perché negli anni mi ci sono avvicinato in modo molto forte, e quel processo mi ha fatto mettere da parte molte resistenze che, se le avessi avute ancora oggi, non mi avrebbero permesso di raccontare questa storia in questo modo. A 23 anni avevo scritto qualcosa di un po’ autobiografico: mi è capitato di rileggerlo di recente e si vedeva che ancora non avevo affrontato e superato quei blocchi, c’era un omettere, un idealizzare, anche un celare certe cose, mancava quella schiettezza che invece spero in Diciannove ci sia. A fronte di tutto questo percorso, quel mio pezzo di storia in particolare mi sembrava il caso perfetto da analizzare: il me diciannovenne ha vissuto l’esplosione di ogni possibile sintomo nevrotico, estremizzato dal fatto che decisi davvero di chiudermi praticamente per un anno intero in una stanza, senza nessun tipo di relazione umana se non rapporti sporadici e molto bizzarri, come quello con la receptionist che c’è anche nel film o con la compagnetta di università. C’era moltissimo materiale a livello psicanalitico che trovavo interessante, e ho voluto raccontarlo mettendo in scena tutta la sintomatologia nevrotica col massimo della precisione.

L’autobiografia, dicevi anche tu, era un genere nobile. Oggi, con la scusa dell’autofiction, è diventata un lavoro per ghost writer. Diciannove ridà all’autobiografia quello che è dell’autobiografia, cioè lo statuto letterario.
Sai, la cosa strana è che, quando mettevo per iscritto queste cose, mi sembravano troppo specifiche, e anche troppo strane. Invece ho capito che l’unica cosa da fare per raccontarsi davvero è andare sempre di più nel particolare, nel dettaglio, usando anche le parole specifiche.

E diventando così universale, o – ma non so se ti piace l’aggettivo – generazionale.
Non mi era mai passato per la mente che Diciannove potesse essere visto come film generazionale, invece in varie proiezioni che ho fatto a vari festival – Venezia, Toronto, Vienna – spettatori delle più diverse parti del mondo mi hanno detto: “Erano così anche i miei 19 anni”. E mi ha fatto ridere, perché mi sembrava improbabile che cose così personali avessero un’aderenza con le vite di ragazzi brasiliani, o coreani, o americani.

Forse è perché, o così almeno sembra a me, Diciannove è lo specchio di una generazione che vive un disagio, ma che a questo disagio non sa come – o non vuole – ribellarsi. E che viene travolta dalla velocità di questo nostro tempo.
Quella della velocità è una questione per me cruciale, e anche l’elemento che ha prodotto un vero scarto generazionale. C’è una differenza importante tra la mia generazione e quella di questi ragazzini che si sono formati nel 2015, nel 2016, con la trap che ha cambiato di colpo i gusti musicali, e tutte queste tematiche sociali, l’ambientalismo, il gender. È una differenza sostanziale rispetto alla mia generazione, che identifico ancora con il berlusconismo e che per questo non aveva nessun tipo di sfogo. Non penso che questi temi della nuova generazione corrispondano sempre a un impegno politico, a un vero cambiamento o a una rivoluzione interiore, ma servono come canale di sublimazione delle pulsioni forti che chiunque ha dentro a quell’età. Poi certo, vedo ragazzi più piccoli di me che si pitturano le unghie e vanno al Gay Pride e poi magari conoscendoli capisci che hanno una totale repressione, ma usano quella cosa come sublimazione, gli dà sollievo. Invece ai miei tempi non c’era manco quello, eravamo una generazione cupa, solitaria, addormentata.

Che poi oggi certi temi, come dici tu, li si usa anche solo per seguire un trend, o comunque con una certa ingenuità.
Sì, e quello è l’altro lato della medaglia. Ho conosciuto figli di amici che, di fronte a questi temi che sono diventati anche molto mediatici, si sono radicalizzati in senso opposto. Tantissimi ragazzini di questa generazione che si dipinge come aperta sono di una destra ancora più estrema di quella che mi ricordo io, sono fanatici di Elon Musk che è considerato un mito coi soldi, la Tesla, lo spazio, ascoltano il podcast di Joe Rogan che è iper reazionario. Ai miei tempi una certa ideologia di destra non era così teorizzata, o almeno si teneva più nascosta.

Le immagini di Diciannove vanno a volte quasi in contrasto rispetto a ciò che il film racconta, o forse sono il modo per farlo il meglio possibile. Sono piene di ironia, leggerezza, e sono anche a volte grezze, libere…
Ho voluto aderire il più possibile alla storia anche attraverso il linguaggio visivo. Volevo essere espressionista coi sentimenti e le sensazioni che la macchina da presa e il montaggio avrebbero potuto restituire, senza però scadere negli estetismi. Per esempio, nella scena del piccolo trip di Leonardo ho usato l’animazione (gli inserti animati sono di Margherita Giusti, vincitrice l’anno scorso del David di Donatello per il miglior cortometraggio con The Meatseller, nda) perché quando a me è capitato di essere un po’ su di giri le immagini che vedevo erano molto più simili a un film animato. Ho cercato di essere estroso e insieme però realista, perché la realtà dei sentimenti è spesso vivace, florida, anche barocca. E poi però ci sono anche le inquadrature di Leonardo che fissa il vuoto per un minuto, con l’immagine che resta ferma, perché lì pensavo ci fosse bisogno di più staticità, più classicità.

Avevi pianificato, per così dire, uno stile?
No, ma nella fruizione che ho fatto e che faccio del cinema ho sempre provato piacere dalla visione di un certo tipo di registi. Sono legato ad autori che fanno un uso espressionista del linguaggio come Peckinpah, De Palma, Scorsese, e poi ho avuto una grande passione per il cinema di Hong Kong, John Woo, Johnnie To… Johnnie To stava anche per esserci in Diciannove, nella scena del confronto finale tra Leonardo e il “maestro”, però poi un festival a cui doveva partecipare è stato spostato e non poteva più venire nei giorni previsti. Mi mancava solo quella scena finale e avevo voglia di girarla il prima possibile, quindi poi ho scelto Sergio Benvenuto, che è davvero uno psicanalista. Però mi ero dato questa possibilità – un dialogo impossibile, in mandarino, tra Leonardo e Johnnie To – perché per me i registi di Hong Kong simboleggiavano proprio quel cinema: sono molto estremi nella forma, ed è stato quello il modo in cui ho traslato al cinema, da spettatore prima e spero da autore adesso, la mia passione per la letteratura. Quando studiavo letteratura ero un fanatico della lingua, e per me la lingua del cinema sta in questa sua forma più estrema, nei movimenti di macchina a volte anche esasperati, nell’idea che si possa sfruttare il mezzo al massimo delle sue potenzialità.

Manfredi Marini in una scena del film. Foto: Fandango

Ti senti uno scrittore prestato al cinema, o meglio, illuminato dal cinema?
È stato un po’ casuale come cambiamento. È nato proprio con l’anno a Siena: nel film c’è molta ironia, ma è stato un periodo davvero deprimente. E la prospettiva di avere questo stile di vita per il resto dei miei giorni mi faceva sentire in un baratro. Volevo diventare uno scrittore, sì, ma mi immaginavo con quei libri a leggere, scrivere, sempre da solo… E allora, non mi ricordo precisamene come, mi è venuta l’idea del cinema come mezzo espressivo per i racconti che volevo fare, ma anche come sbocco per un futuro meno nero, abissale. È stata una questione di sanità, diciamo.

Considerare il cinema come una salvezza in un Paese in cui lo si dà perennemente per morto è comunque bello, soprattutto se detto da uno che non ha nemmeno trent’anni.
(Sorride) Be’, ho pensato che potesse essere un lavoro più sociale, ed effettivamente lo è. Hai a che fare con molte più persone, ed è anche più splendente, diciamo così, rispetto alla letteratura.

Quantomeno ti porta a uscire da quella stanzetta.
Sì. Ti costringe.

Luca Guadagnino che produttore è? Direi uno molto appassionato, e che lascia molta libertà.
Mi ha tutelato moltissimo. Io gli ho presentato la sceneggiatura e gli è piaciuta molto, e poi lui l’ha fatta leggere ad altri produttori e finanziatori che hanno deciso subito di produrmi il film. Quindi io, non avendo mai girato neanche un cortometraggio, mi sentivo in una posizione di totale gratitudine verso queste persone che mi stavano dando in mano un film. E per questa gratitudine ero disposto a fare qualsiasi compromesso, invece Luca fin dall’inizio mi ha ammonito: “Non cedere mai a nessun compromesso”. Perché se l’avessi fatto, mi diceva, il film avrebbe perso la sua forza originaria.

Il dialogo finale ci dice, forse, che è comunque necessario avere dei maestri. Anche per chi a quei maestri vorrebbe ribellarsi.
Sì, ma il personaggio di Sergio Benvenuto è un maestro sui generis, ha qualcosa di diverso rispetto alle altre autorità sparse nel film. Prima vediamo il padre che ironizza su ogni cosa del figlio in maniera irritante, e sua madre che è iper apprensiva e affatto razionale, e il professore all’università che è egomaniaco, pedante. Invece questo personaggio finale, anche se ha delle uscite un po’ forti, persino violente, ha dalla sua un bagaglio culturale più moderno, cita Lacan, Freud e Fachinelli, uno psicanalista italiano molto fico degli anni ’80. Leonardo viene colpito nel vivo perché quell’uomo ha qualcosa di molto più penetrante rispetto ai genitori borghesi e perbenisti e al professore con la sua piccola erudizione accademica.

È un maestro guarda caso anti-compromessi, per non dire anti-sistema.
Sì, e anche se lo aggredisce, lo fa in senso maieutico. Entra in una conversazione più sincera con Leonardo attraverso strumenti che sono puramente analitici.

DICIANNOVE di Giovanni Tortorici - Trailer Ufficiale

Cos’è rimasto del Giovanni di allora, del suo studio matto e disperatissimo?
Un po’ di quella letteratura mi è rimasto. L’approccio alla forma che, come ti dicevo, poi ho traslato al cinema. Su quegli scrittori facevo uno studio brutale, postillavo i vocabolari come si faceva nell’800, ne avevo anche di edizioni molto importanti. Una volta mia nonna mi vide che studiavo sul vocabolario e mi disse: “Ma perché, non la conosci la lingua italiana?”. Ma il mio era uno studio approfondito della lingua come facevano Leopardi, Manzoni… Quella cosa mi è rimasta, anche se è cambiata. Adesso per i dialoghi che scrivo come sceneggiatore mi focalizzo molto sul linguaggio parlato, sono attentissimo alle parole che escono di bocca quando parlo con qualcuno, me le scrivo in testa e cerco poi di riportarle nelle sceneggiature per dare, spero, più realismo a quello che scrivo.

E i libri antichi?
Avevo una collezione notevole, messa insieme dai 17 ai 23 anni, poi piano piano sono andato sul contemporaneo. Ma tutti i volumoni che vedi nel film sono presi dalla mia biblioteca, le edizioni antiche, i vocabolari, stanno ancora tutti lì. Ora leggo più filosofia, psicanalisi, narrativa moderna, e un po’ mi dispiace. Erano belli, quei libri.